L’Unione e l’intersezione. A favore dell’Europa federale

, di Simone Vannuccini

L'Unione e l'intersezione. A favore dell'Europa federale

L’Europa è in fermento. Le conquiste di Sessant’anni di integrazione e progettualità politica vengono messe in discussione, cittadini indignati scendono in piazza a rivendicare la bellezza, l’importanza ed il senso profondo della gestione della “cosa pubblica”, governi conservatori si alternano e personalità autorevoli vengono screditate dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Sembrerebbe proprio un contesto ideale, un terreno fertile, un momento propizio per il cambiamento, per il salto di qualità istituzionale del Vecchio continente, verso quell’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa che ancora risuona nei dibattiti, negli articoli di giornale, nelle prese di posizione dei partiti veramente “progressisti”, e che forse potrebbe risuonare ancor di piú nei grandi orizzonti di pensiero e d’azione aperti dalle trasformazioni globali.

Andiamo con ordine: mentre tutto il Mondo si impegna a studiare quello strano esperimento, ibrido politico-economico, costruzione post-moderna e – auspicabilmente non – post-sovrana che è l’Unione (europea), a mio avviso molto di piú ci sarebbe da vedere, capire e riflettere nello studiare gli eventi da una prospettiva differente; come sa chi si è introdotto un poco fra le proprietà degli insiemi, all’Unione si affianca sempre l’intersezione. Ed é proprio sull’intersezione, piuttosto che sull’Unione, che vorrei porre l’accento: intersezione di dinamiche differenti, certo, di rischi ed opportunità, di incentivi e di istinti conservatori, di scelte fatte e di scelte ancora da fare.

La prima intersezione riguarda la Politica estera, la Difesa e l’economia: nel bel mezzo di quella che è stata definita una once-in-a-lifetime crisis (la più grave dal 1929), mentre una – quasi – inaspettata ondata di rivolte travolge il Nord-africa e il mondo arabo, l’Europa appare inerme: il suo fermento interiore non si tramuta in energia – cinetica, potenziale, o qualsivoglia – verso l’esterno. Il motivo lo conosciamo bene, si chiama Ragion di Stato, si chiama principio di conservazione del potere a livello nazionale, anche se ormai gli stati nazionali europei, poverelli, sono ancora meno rilevanti di quando Luigi Einaudi gli dedicava l’appellativo di “idolo immondo” e “polvere senza sostanza”. Rinunciare alla sovranità nazionale è difficile, certo, ma è proprio la logica dell’intersezione a suggerirci che la strada non puó essere altro che quella di più, e non meno, Europa: potenze emergenti dalle dimensioni continentali, primavere rivoluzionare e dittatori coriacei, necessità di sostenere finanziariamente i nuovi venti democratici nei Paesi in via di sviluppo e al contempo necessitá di sfuggire all’incubo della disoccupazione, della disgregazione sociale, del regresso nazionalista. L’equazione è chiara: un solo esercito europeo (non le miopi collaborazioni bilaterali messe in campo da Francia e Regno Unito), maggiore peso politico internazionale, maggiori economie di scala, minori spese aggregate. A maggiori risparmi possono corrispondere piú investimenti nelle politiche per la crescita; e perchè no, se la politica fiscale è unica, europea, magari finanziata da un ammontare minimo di eurobonds (garantiti sui mercati mondiali dalla forza dell’euro e dall’autorevolezza della BCE) e dai proventi di una ristrutturazione dei regimi fiscali (in modo da comprendere anche tasse ecologiche, in primis la carbon tax), oltre a risolvere gli errori del passato con interventi restrittivi si potrebbe addirittura pensare allo sviluppo e a nuovi investimenti di portata continentale. Certo, a questo punto potrebbe sorgere una domanda: chi fa la politica fiscale europea (fortunatamente, quella monetaria esiste già e fra poco sarà Mario Draghi a gestirla)? Il consiglio, e dunque ancora una volta l’Europa intergovernativa? Un nucleo ristretto come l’Eurogruppo? Un complesso di nuove istituzioni come l’attuale EFSF (European financial stability facility) affiancato magari da una futura agenzia europea del debito? O un embrione di “Tesoro europeo”? L’unica certezza è che, ogni volta che proviamo ad affrontare i problemi europei veramente alla radice, il progetto federalista riemerge con forza.

L’intersezione geopolitica riguarda poi, senza dubbio, il ruolo della Cina e delle sue scelte (potenza “gentile” o nuova egemonia “imperialista”, sopratutto nei grandi spazi africani? Sostegno alla domanda e allo sviluppo del mercato interno o perseveranza nel modello export-led e nell’acquisto di treasury bonds americani, meccanismo strutturale che sta alla base dei c.d. global imbalances?), senza dimenticare le posizioni americane, divise tra il pragmatismo cosmopolita di Obama e i possibili colpi di coda di un’iperpotenza in declino e gli avvenimenti in Medio-Oriente, specialmente le nuove speranze di accordo fra Israele e Palestina, e all’interno di quest’ultima fra Al Fatah e Hamas, a seguito della caduta di Mubarak e degli sconvolgimenti nei Paesi circostanti. Ecco di nuovo intervenire l’intersezione: fra l’idea di un nuovo “Piano Marshall” americano (riemersa quasi contemporaneamente alle esternazioni dell’economista Philippe Aghion, che chiede proprio in questi giorni un altro Piano Marshall, questa volta per l’Europa, senza però spiegare come possa essere finanziato) ed i silenzi Iraniani, tra la scomparsa di Bin Laden e la voce dei giovani egiziani che chiedono di più il progresso e lo sviluppo e meno la fine di tutto l’Occidente, l’Europa appare stanca, divisa, svogliata. Non solo non ha abbastanza missili da lanciare su Bengazi, ma non ha nemmeno le risorse economiche e sopratutto quelle morali per spostare verso un esito “positivo” la bilancia della transizione globale. La crisi dei debiti privati americani si risolve in una crisi dei debiti pubblici europei, perchè non esiste un governo federale capace di apparire autorevole davanti ai mercati o di intervenire in tempi tali da non far lievitare eccessivamente i tassi d’interesse; e quando il rischio di default si interseca con i tagli alle politiche sociali e con le minacce di “ristrutturazione” del debito, come si teme accadrà in Grecia, i cittadini iniziano a chiedere un cambiamento serio. Peccato che spesso le manifestazioni e la voglia di Politica nuova si intersechino con il nazionalismo metodologico, con quello sguardo nazionale che copre le vere cause della crisi in Europa, e che limita fortemente la capacità d’azione e di mobilitazione dei Movimenti della Società Civile.

Infine, come non citare l’intersezione fra gli interessi nazionali e nazionalistici, e quelli globali? Soltanto per fare un esempio, Nicolas Sarkozy vuole la fine dell’egemonia del dollaro, la risoluzione del “dilemma di Triffin” e l’istituzione – insieme a cinesi, russi e indiani – di una nuova moneta mondiale, un paniere di conto e riferimento multi-currency che ci guidi oltre quell’”esorbitante privilegio” che ha determinato dalla conferenza di Bretton Woods l’ordine – ed il disordine – monetario internazionale. Ma quanto pesano in tutto ciò gli interessi personali e di politica interna? E quanto invece la paura che l’ottimo lavoro di Strauss-Kahn come traghettatore del Fondo Monetario Internazionale da cattivo guardiano monetarista ad amichevole garante keynesiano possa comportare, oltre al salvataggio di molte economie, anche qualche scheda in piú guadagnata alle elezioni a favore di una presidenza socialista? Fortunatamente per lui, DSK si è messo fuori gioco da solo, come spesso accade quando si vive nella zona grigia in cui si intersecano potere e vizi personali; sempre più frequentemente, all’incrocio fra le sfide globali e la classe politica nazionale si trovano soltanto incapacità e chiusura intellettuale, proprio mentre servirebbe coraggio, grandezza e sì, anche un po’ di creatività (in fondo lo diceva già la Dichiarazione Schuman del 1950 che per fare la Pace e la Federazione in Europa servivano “sforzi creativi”).

Ad un anno dal salvataggio della moneta unica, avvenuto proprio nella notte fra l’8 ed il 9 maggio 2010, nel giorno della “festa dell’Europa” (che ricorda proprio la Dichiarazione di Schuman appena citata), il 2011 che stiamo vivendo rappresenta l’intersezione fra numerose ricorrenze: i venticinque anni dalla scomparsa di Altiero Spinelli, esempio italiano di un nuovo modo di fare politica, i settant’anni del Manifesto di Ventotene, fondamenta ideale della lotta politica per la realizzazione di un’Europa libera ed Unita e del pensiero federalista europeo ed infine i centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, stato nazionale da sempre orientato all’integrazione e al sostegno della grande narrazione dell’unificazione europea – basti pensare alla mazziniana “Giovine Europa”–. Insomma, se l’Unione così com’è non ci soddisfa, diamo uno sguardo a cosa accade nell’intersezione fra le varie dinamiche politiche, economiche e sociali che investono e plasmano il mondo globale: forse troveremo ancora più di prima le ragioni per sostenere l’unità politica del Vecchio Continente.

Articolo pubblicato su http://www.imille.org

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