Fuori dai Trattati, per fondare lo Stato federale europeo?

, di Domenico Moro

Fuori dai Trattati, per fondare lo Stato federale europeo?

Il dibattito su come far uscire l’Europa dall’impasse nella quale l’hanno confinata il no francese ed olandese alla ratifica della Costituzione europea annovera, tra le varie posizioni, quella del Ministro degli esteri francese Douste-Blazy. Su Le monde del 24 settembre si legge: “la relance de la construction européenne doit passer par la création, en dehors des traités actuels, d’un groupe de pays décidés à aller plus loin dans le processus d’intégration". Una posizione similare, declinata in termini diversi, è quella secondo cui occorre “costruire, fuori dai trattati esistenti e soprattutto fuori dal quadro dell’Unione, uno Stato federale a partire dai Paesi fondatori”. Questi ultimi ed altri Stati che vorranno partecipare dovranno dar vita ad un patto federale e convocare un’Assemblea costituente con il mandato di redigere la costituzione dello Stato federale.

La semplicità nominale dell’obiettivo e l’indicazione più circostanziata dello strumento per raggiungerlo possono far apparire la linea che si è dato il MFE di insistere sulla ratifica del testo costituzionale e sulla sua adozione definitiva (sia pure con le modifiche necessarie a far rivotare Francia ed Olanda) attraverso un referendum europeo, come tortuosa, compromissoria e incapace di fare dell’Unione europea un soggetto capace di decidere e di agire sulla scena mondiale.

Poiché però ”Fuori dai trattati e dal quadro dell’Unione” è un’affermazione che ammette due possibili interpretazioni e, quindi, due diversi orizzonti per l’azione politica, è bene esaminarle per dissipare equivoci sul percorso da seguire.

La prima è quella secondo cui viene assunta un’iniziativa che i Trattati attuali non prevedono, ma neppure impediscono e quindi, in ultima analisi, compatibile con essi. L’altra, più radicale, è quella secondo cui si prende un’iniziativa che non solo i Trattati attuali non prevedono, ma che è addirittura in contrasto con loro, configurandosi quindi come una denuncia di fatto degli stessi. Siccome non si tratta della stessa cosa, è necessario valutarle entrambe, sia pure in modo sintetico, cominciando dalla seconda interpretazione, che è anche quella più dirompente, ma preceduta da una precisazione.

È infatti opportuno chiarire che prendere iniziative al di fuori dei Trattati è un evento meno raro di quello che si pensa. L’elenco è abbastanza lungo, ma ci si concentra qui su quelle ritenute più significative e che riguardano il settore che più di altri mette in discussione la sovranità: quello militare. Quest’ultimo è il campo nel quale, a partire dalla caduta del Muro di Berlino, è stato assunto il maggior numero di iniziative fuori dei Trattati. Possiamo ad esempio ricordare, in ordine di tempo, la costituzione: nel 1989, della Brigata franco-tedesca; nel 1992, di Eurocorps (circa 60.000 uomini); nel 1995, di Euroforce (5-10.000 uomini); nel 1998, del Gruppo Aereo Europeo (GAE); nel 2001, dell’Organizzazione Congiunta di Cooperazione in materia di Armamenti (OCCAR).

Generalmente, queste iniziative sono state prese da Belgio, Francia, Germania, Italia, Olanda, Portogallo e Spagna, cui si è aggiunto, di volta in volta, il Regno Unito. Quasi sempre, all’origine di queste iniziative vi sono dunque stati uno o più dei paesi fondatori. Poiché hanno agito al di fuori dei Trattati e non vi erano vincoli ad assumere decisioni più ambiziose, la prima domanda che ci si potrebbe porre è perché non è stata presa un’iniziativa più vincolante, ma solo iniziative che hanno migliorato la cooperazione intergovernativa. Piuttosto, il fatto è che quando si tratta di prendere decisioni impegnative, in termini di risorse umane e finanziarie richieste dalle operazioni militari, queste vengono prese dentro i Trattati e non fuori.

Il fatto è che quando si tratta di prendere decisioni impegnative, in termini di risorse umane e finanziarie richieste dalle operazioni militari, queste vengono prese dentro i Trattati e non fuori

Basti pensare all’istituzione, nel 1999, della Forza di Intervento Rapido (la cui messa in atto comporta la mobilitazione di circa 200.000 uomini ed investimenti che oscillano tra i 25 ed i 40 miliardi di euro) e, nel 2004, dell’istituzione dell’Agenzia Europea di Difesa, anticipando quanto prevede la Costituzione europea, i cui costi sono a carico del bilancio comunitario, e del meccanismo permanente di finanziamento delle operazioni all’esterno dei confini europei, denominato Athéna (solo la Danimarca ha esercitato l’opting out). Quest’ultimo prevede tre livelli di spesa: uno europeo, a carico del bilancio comunitario; uno intergovernativo a carico dei partecipanti alle operazioni; ed uno nazionale, a carico dei singoli paesi (in sostanza, personale operativo e sistemi d’arma).

La spesa a carico del bilancio europeo, se paragonata alle spese militari che gravano sul bilancio USA, è certamente ridicola, ma è stato rotto il principio che il bilancio europeo non deve finanziare spese nel settore della difesa. Infine, la recente decisione dell’Unione europea di inviare una forza di interposizione ai confini tra Libano ed Israele, si colloca nel quadro appena delineato.

Certamente, tutte queste sono iniziative che non hanno ancora dato all’Europa un’unica politica di sicurezza, ma sono anche opportunità che l’azione federalista dovrà saper sfruttare per raggiungere questo obiettivo.

“Fuori dai Trattati”, intesa nel senso più radicale, è invece una scelta che richiede sia esaminata sotto l’aspetto della volontà politica e delle sue conseguenze. Intanto, la prima osservazione da fare è che non si vede in Europa un gruppo di paesi, “piccolo a piacere”, ma autorevole, in grado di prendere l’iniziativa sotto la spinta della “leadership occasionale europea”, senza la quale anche l’azione federalista è condannata all’insuccesso.

In secondo luogo, ipotizzare la fondazione dello Stato federale fuori dai Trattati non sembra solo un’ipotesi irrealistica, ma addirittura pericolosa per la stabilità europea e mondiale.

Ipotizzare la fondazione dello Stato federale fuori dai Trattati non sembra solo un’ipotesi irrealistica, ma addirittura pericolosa per la stabilità europea e mondiale

Pericolosa perché si aprirebbe una fase di incertezza dalla durata imprevedibile nel corso della quale le forze della disgregazione potrebbero lavorare contro il progetto europeo, mentre le forze di mercato si scatenerebbero contro la moneta ed il mercato interno.

Basti pensare al tempo che, presumibilmente, intercorrerebbe tra il momento in cui un’ipotesi del genere diventerebbe di pubblico dominio e quando, concluse le ratifiche parlamentari o governative, si completerebbe il processo che dovrebbe darci uno Stato federale europeo. Nella migliore delle ipotesi, vale a dire con una volontà titanica da parte dei governi dei paesi interessati ed un consenso unanime delle rispettive opinioni pubbliche, un anno non basterebbe.

Solo le truppe americane che, alla fine della seconda guerra mondiale, occupavano una Germania in ginocchio hanno potuto scrivere una costituzione e farla adottare in poco meno di un anno, e si trattava di dare una costituzione ad uno stato che esisteva e non ad un’unione di stati.

Nelle condizioni attuali, i paesi aderenti all’euro che non stanno rispettando i parametri previsti dal Patto di stabilità e crescita vedrebbero aumentare le loro difficoltà (ad esempio: chi si farebbe carico del debito italiano che è 1/5 del debito dell’UE a 12 e pari ad 1/3 di quello dei sei paesi fondatori?) e si condannerebbero al disordine politico ed economico i paesi che stanno facendo sforzi enormi per entrare a far parte dell’Unione economico-monetaria.

L’Europa, infatti, non è più in quella sorta di “campana di vetro” in cui il dollaro e l’esercito americani l’hanno tenuta per diversi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, isolandola di fatto dal resto del mondo. Essa, con la fase di incertezza che si aprirebbe, vedrebbe i cittadini-risparmiatori detentori di euro, e soprattutto i fondi di investimento che ogni giorno spostano masse ingenti di capitali, chiedersi come potranno difendere i loro risparmi: un problema drammatico soprattutto per i cittadini dei paesi che oggi aderiscono all’euro e che non saranno in grado di sapere se il loro paese farà parte o meno dello “stato federale”.

Nel 1992 è bastato il referendum francese sull’adesione all’unione monetaria per mettere in crisi la lira e la sterlina: figuriamoci cosa succederebbe con un’iniziativa fuori dai Trattati e dal quadro dell’Unione. L’unione economico-monetaria salterebbe ed ai risparmiatori rimarrebbero, forse, due alternative: la prima, quella di vendere euro e comprare dollari, un passo che, dopo cinquant’anni di tentativi di fondare lo “stato federale europeo”, potrebbe forse convincere gli europei a divenire gli ennesimi stati federati americani, una scelta che avrebbe il vantaggio (morale) di consentirci di chiedere l’impeachment di Bush per violazione dei diritti umani; la seconda, quella di comprare rubli, che avrebbe il vantaggio (più solido) di investire in una valuta che ci consentirebbe di acquistare l’energia di cui l’Europa difetta.

“Fuori dai Trattati”, prendendo una decisione che questi non prevedono, ma che è con loro compatibile, è una scelta certamente rara, ma non insolita (al limite, è la storia dell’intero processo di unificazione europea). In definitiva è anche la strada che aveva intrapreso Spinelli con la sua proposta di “Trattato istitutivo dell’Unione europea” che prevedeva la continuità dei Trattati esistenti, salvo che per le parti incompatibili con esso.

In quella fase, i federalisti si sono chiesti se l’Unione europea (in ipotesi fatta propria da un numero limitato di Stati) era compatibile o meno con la più larga Comunità europea e se quindi la prima dovesse, in ultima analisi, essere fondata dentro o fuori la seconda. Il convincimento dei federalisti era che l’iniziativa di Spinelli avrebbe avuto maggiori probabilità di successo, quanto più si riuscisse a dimostrare che essa era compatibile con la Comunità. L’altro esempio che si può fare è la decisione di convocare la prima Conferenza Intergovernativa, una decisione presa a maggioranza dal Consiglio europeo riunitosi a Milano nel giugno del 1985.

La scelta di avanzare verso l’integrazione europea, chiedendo cessioni di sovranità, senza mettere in discussione i risultati fino ad oggi acquisiti, è anche la strada seguita fino ad ora dal Movimento, che si è battuto perché la Convenzione europea redigesse il miglior testo possibile e che, oggi, chiede la prosecuzione delle ratifiche, la parallela revisione del testo attuale (senza la parte terza, o l’aggiunta di un protocollo sociale, come possibili opzioni) e, in vista delle prossime elezioni europee, un referendum europeo confermativo dell’entrata in vigore della Costituzione purché riceva il voto favorevole di una maggioranza di Stati e di elettori europei.

Il punto è che non si possono sconfessare 50 anni di storia europea, anche perché il processo di unificazione ha risposto, fino ad ora, al problema essenziale che occupava le menti degli europei usciti esausti da due guerre mondiali scoppiate nello spazio di trent’anni: da allora, sono seguiti sessant’anni di pace, un risultato che non ha precedenti nella storia europea, e tra l’altro raggiunto senza aver fondato la Federazione europea.

I federalisti, giustamente, pretendono di più: non vogliono che l’Europa si trasformi in una grande Svizzera che rifiuta di farsi carico dei problemi del mondo e ritengono che sia quest’ultima la prospettiva capace di dare oggi un senso alla richiesta rivolta all’opinione pubblica europea di sostenere il processo costituente.

I federalisti, quindi, devono lavorare con le opportunità che l’evoluzione del processo di unificazione europea offre loro (e da loro richiesto con la grande manifestazione di Nizza), pronti ovviamente a cogliere l’occasione, se si presenterà, di una crisi che imprimesse un’accelerazione verso lo “stato federale europeo”.

Immagine: bandiere dei paesi europei. Fonte: Flickr

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