Diario di un cantiere disastroso

Tutti i problemi della costruzione dal basso

, di Davide Emanuele Iannace

Diario di un cantiere disastroso

A volte, non c’è niente di meglio che di un disastro per ragionare, in maniera seria e precisa, riguardo i fallimenti che attraversano sia il nostro continente che, banalmente, i territori a noi più vicini. Per questo partiremo proprio da una disastrosa esperienza, vissuta in compagnia allegramente e terminata con un rustico, per parlare di crisi politica sistemica.

Nella giornata di ieri (Alias, un 25 novembre mai più importante) avevo ricevuto l’invito da un amico in quel del beneventano per partecipare un a evento. I nomi non si faranno. Si dice il peccato, ma non il peccatore. Probabilmente, sia mio fratello che gli amici presenti all’evento si faranno due risate ripensandoci, o magari piangendo per il tempo perso pensando di star cambiando qualcosa nella propria città. È spesso la promessa, quella persa e perduta, dinanzi la possibilità di una data grandezza che forse lascia la ferita peggiore. Oggi ci sentiamo poetici.

Tornando al nostro evento, ospitato in una bellissima sala mentre si approssimava un mix fatidico di pioggia e di neve, doveva essere un momento di costruzione dal basso. Chi mi conosce sa quanto mi affascinino i processi partecipativi, sia costruiti dal basso che montati da strutture di governance. Focus group, così come assemblee partecipative, sono utili esperimenti di governance pubblica che credo possano fare la differenza, e anche enti come l’Unione Europea se ne sono spesso fatti promotori. Il passaggio nel ’79 a un Parlamento Europeo eletto direttamente dai cittadini fu in un certo senso il compimento della ricerca di una democrazia diretta, espressione della volontà del popolo. La creazione di organi come il Council of Region, per esempio, si innesta in quella tradizione di ricerca del locale come espressione del potere decisionale.

Con questo animo ci si è approcciati ad un evento che prometteva palesemente proprio questo, di offrire – per di più ai giovani – uno spazio costruttivo di confronto e di idee, dove poter montare, edificare, mettere insieme, i pezzi di qualcosa di nuovo. Che fosse un confronto su proposte vecchie, o su nuovi progetti, non contava davvero. Contava l’idea di portare in una stanza diversi giovani attivi dalle realtà territoriali. È la promessa mancata, nella realtà, non solo di un evento simile – piccolo spoiler, ovviamente nulla di quanto detto in anticipo si è realizzato -, ma di una progettualità territoriale fallimentare non solo a livello locale, ma anche regionale se non nazionale.

Prima di commentare, terminiamo la brutale e crudele narrazione di un evento dalle gigantesche promesse e dal risultato a dir poco mediocre. Nella realtà, quello che doveva essere un momento di condivisione e partecipazione è diventata una sfilata, di moda a dir poco scadente, della retorica becera e classica di un territorio, quello beneventano, che soffre di deficit strutturali in diversi ambiti. Una vetrina, per un partito politico che non ha avuto nemmeno il coraggio di mettere il suo logo sull’evento e invece ne ha dato una parvenza di “neutralità”, che poi non è stata minimamente realizzata.

Un evento soprattutto organizzato in teoria per i cosiddetti giovani, e che presentava una media d’età superiore ai cinquant’anni. Una macchietta di costruzione dal basso che però ha dato più di uno spunto per riflettere su quanto poco ancorati siano alcune realtà alle reali espressioni possibili di un territorio. Nell’evento si sono presentati rappresentanti di associazioni – per nulla conosciuti e passati chiaramente per caso per l’evento – per presentazioni dal basso spontanee – ma fornite di slide e presentazioni. Sarebbe stato ancora possibile sopportare tutto ciò, se almeno in qualche modo una sola, una sola di queste presentazioni si fosse posta come costruttiva, capace di offrire un reale spunto di discussione o quantomeno di una chiacchiera non banalizzata su dati – le cui fonti sempre incerte sono state. Un punto negativo dopo l’altro che hanno dato forma a una carrellata lenta, troppo, e costante, di una serie di sparate cronicamente errate nel loro essere fuori luogo. E se ne percepisce la sua intrinseca inutilità, chiaramente. Si capisce quanto poco possano essere funzionali questi momenti ad un dialogo vero e costruttivo che possa apportare, alla società civile così come a stakeholder e attori politici, una qualche reale utilità pratica.

A ben pensarci, c’è una sua inutile attrattiva per certi attori interessati a fattori come il prestigio o anche semplicemente il voto. L’ascolto di associazioni, almeno la finzione di ascolto e di supporto – spesso di associazioni poi in contrasto tra di loro platealmente per i temi affrontati – si è rilevato un semplice susseguirsi di blaterare e di protestare contro questa e quella autorità., questo e quel mondo, questo e quel modello economico. Non esattamente una scena piacevole, né costruttiva. Anzi, al contrario. La scena che più di tutte confermava quanto un processo partecipativo dal basso montato ad hoc dall’alto non sia che una scena teatrale, mal diretta e mal sceneggiata.

Se l’evento è stato un fallimento, ha però dimostrato tutto ciò che non bisognerebbe e quel che si dovrebbe fare quando parliamo di partecipazione dal basso. Soprattutto, pensare a come bisognerebbe ragionare in ottica anche europea rispetto le problematiche locali. Il mondo locale, che sia quello (in)organizzato di giovani e di semplici attori locali interessati o più strutturato – nella forma di organizzazioni o associazioni – ha un forte desiderio di essere ascoltato in seno a quegli organismi e chi li rappresenta, percepiti come possibili punti di sostegno per dei radicali cambi di policy necessari. È nella modalità di ascolto che si vanno riscontrando una serie di criticità che rendono questo dialogo di scarso valore poi per la realizzazione di veri e propri cambi di policy, o almeno, quantomeno, di incidenza da parte di certi attori nella politica pubblica.

L’Unione Europea si è spesso assurta a ruolo di mediatore di quegli interessi locali che vogliono provare a realizzarsi in policy capaci di impattare il mondo loro intorno. Viene naturale pensare alle differenti possibilità di lobbying che offre – tanto a compagnie private, tanto ad associazioni più varie e NGO – la possibilità di essere ascoltate dai policy makers europei. Ora, potremmo sicuramente dubitare che la lobby abbia tempo quanto la NGO, e che invece ottenga un riguardo maggiore, ma rimane questa opzione per cui l’attore locale trova nell’Europa un ascoltatore – che tramite politiche e fondi – ha spesso inciso sulla vita del cittadino e dell’attore locale in maniera prominente.

Al netto di questa attuazione di piani europei, di fondi, di un approccio che si va a ritrovare nell’ambito locale in maniera attiva intercettando delle esigenze che sono percepite come tali, è questo spesso non riuscire a riemettere un flusso che parta direttamente dal basso. Il mondo delle associazioni, così come i semplici cittadini, sono in perenne ricerca di una non-mediazione, laddove possibile, della sua politica relazione. Certo, ci sono strumenti che di per sé l’Unione mette a disposizione, ma a volte manca la costruzione di un vero presidio territoriale che possa in qualche modo mantenere un costante flusso di idee e azione nel territorio. Possiamo pensare a strumenti come SINAPSE – comunità digitali di interessati ed esperti -, ma anche i numerosi strumenti per petizionare verso il Parlamento Europeo, citandone solo alcuni.

Esperienze simili esistono in certi presidi che vanno a ritrovarsi in centri urbani di discrete dimensioni, ma se guardiamo alle aree interne o ai piccoli centri urbani, spesso manca una vera forma, strutturata, di partecipazione dal basso – vuoi la mancanza di risorse sia economiche che tecniche, o una decennale mancanza di fiducia e quindi di partecipazione in e verso il potere politico. L’Unione Europea ha rappresentato e ancora rappresenta un potente strumento con cui i cittadini possono farsi udire e possono realizzare pratiche dal basso grazie a tool di strumenti creati esattamente per loro. Rimane ancora però scarsa, spesso, la pubblicità effettuata verso una serie di attori non specialistici e non professionali. Il comune cittadino non ha spesso coscienza dei potenti e versatili strumenti di cui gode.

Starebbe alla politica, nelle sue forme anche locali, occuparsi di generare e supportare pratiche dal basso. Esperienze come quella sfortunatamente vissuta, dove la cantieristica non era altro che la scusa per una passerella politica di controllata partecipazione, una finzione, un gioco di specchi. Utile per l’attore politico, ma di che utilità per il territorio?

L’abuso verso gli strumenti partecipativi è palese, e rende questi strumenti potenzialmente potenti inefficaci e inaffidabili. Ci sarebbe bisogno di ragionare su diversi piani. Innanzitutto, come rendere la partecipazione dal basso credibile? Lo si può fare solo quando l’attore politico entra in comunione con tali spinte localistiche, e non cerca semplicemente di piegarle al proprio preciso interesse politico. Inoltre, le pratiche dal basso funzionano solo e quando in qualche modo essi si possono realizzare poi in una policy effettiva, in qualche modo diventare una realtà. Nel momento in cui le promesse non hanno proprio l’aspirazione di diventare poi soluzioni reali, allora il processo partecipativo è una finzione, seppur ben costruita.

Ancora, ci sarebbe da discutere del modo in cui è possibile per enti come l’Unione Europea diffondere queste pratiche all’interno dei propri confini, e soprattutto, rendere utilizzabili dai cittadini e da eventuali decisori politici nel modo più efficace possibile. Quello che viene fatto fino ad ora non è poco, anzi. Sicuramente l’UE ha creato dei processi positivi e propositivi, così come ha fornito la sua comunità di cittadini e decisori di strumenti, come quelli prima indicati brevemente. Ma il passo che ancora oggi manca è quello di rendere tali strumenti il più pubblici possibile, e che al contempo siano integrati nelle pratiche che poi diventano nazionali e locali. Ci sarebbe da chiedersi, esattamente, in che modo questo possa realizzarsi, nel momento in cui vi è spesso un desiderio dello spazio nazionale di distaccarsi da quello europeo e limitarne l’influenza. Soprattutto, la concezione che nel momento in cui il potere locale scavalcherebbe quello nazionale ed entrasse in contatto diretto con il sovra-livello comunitario, verrebbero meno quelle possibilità che ha l’attore nazionale – o politico, sia locale che non - di mediare tra risorse che sono sempre di più percepite come necessarie.

Il cantiere dove mi sono, sfortunatamente, ritrovato, è un simbolo chiaro del fallimento delle politiche locali nel catalizzare le energie dal basso e, piuttosto che lasciarle libere di esprimere – e semmai cercare di includerle in un vero processo di costruzione – le sfrutta per stimolare battaglie inutili, contro-producenti, e sicuramente incanalare il tutto nelle classiche strutture di potere partitico e clientelare caratteristiche innate delle strutture politiche nel meridione d’Italia.

È una occasione persa, altrettanto sicuramente. La percezione dei cittadini e di chi abita situazioni di disagio o di semplice difficoltà – che spesso scompare nei grandi ammassi di dati – è una risorsa dal valore immenso che, unita ad un approccio sistemico e quantitativo, permette una migliora efficacia delle politiche pubbliche. Sarebbe da analizzare, più in profondità, il reale effetto che gli strumenti oggi a disposizione hanno, in laboratori veri e propri nei territori. È un percorso a ostacoli in cui i fallimenti saranno molti, ma visto l’abuso che si fa della “partecipazione dal basso”, uno strumento potente – soprattutto, uno strumento capace di connettere le istituzioni europee con i cittadini bypassando i governi – potrebbero essere utili tanto in vista delle prossime europee del 2024, sia a lungo termine per rendere più coeso il sistema di partecipazione con i processi di decisione di policy.

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