Il federalismo mondiale è la chiave per l’estinzione della violenza?

Parliamo di federalismo mondiale e del suo impatto su un tema sensibile, oggi più che mai, come quello della pace

, di Gabriele Casano

Il federalismo mondiale è la chiave per l'estinzione della violenza?

Il federalismo mondiale appare troppo spesso come una semplice risposta alle contraddizioni dell’anarchia internazionale, la realtà è più complessa di così [1]. Il federalismo mondiale combina molteplici dimensioni; tra queste, la pace è elemento imprescindibile per la sua realizzazione e allo stesso tempo è obiettivo primo del processo federativo su scala globale. Nel pensiero federalista, quando si parla di pace, si intende quella positiva in senso kantiano, cioè il raggiungimento della condizione in cui la guerra è impossibile [2].

I federalisti rintracciano, giustamente, la causa della guerra nella sovranità assoluta degli Stati e affrontano i rapporti che intercorrono tra questa condizione di anarchia internazionale e il nazionalismo inteso come cultura politica della divisione del genere umano in entità territoriali statuali nazionali che educa all’odio dello straniero, esalta e giustifica la violenza [3].

È evidente che l’affermazione del nazionalismo non è un fatto naturale, si tratta di un processo storico-sociale che ha anche definito un sistema internazionale capace di sostenere questa specifica cultura politica: la divisione del globo in Stati nazione e il conseguente primato della ragion di Stato. Si pensi al caso emblematico della comunità ebraica internazionale che, prima degli ultimi decenni del XIX secolo, non si era mai identificata con un’entità politica territoriale a carattere statuale ma che, con l’avvento del sionismo prima e dello Stato di Israele poi, si è, in parte, omologata alla cultura politica del nazionalismo [4].

Allo stesso tempo, però, una rilevante porzione di questa stessa comunità ha respinto ogni tentativo di associazione della comunità religiosa con l’operato dello Stato di Israele nei territori palestinesi e nei confronti dei palestinesi, dimostrando quanto il nazionalismo non sia un prodotto storico-sociale naturale. La corruzione culturale portata avanti dal nazionalismo è ciò che ha messo in discussione il carattere cosmopolitico della diaspora ebraica con conseguenze terribili per la comunità stessa, poiché ha legittimato ancora una volta la politica del più forte quale unico mezzo per garantire la sicurezza di alcuni a discapito di quella di coloro considerati diversi [5].

Le aberrazioni del nazionalismo sono molteplici, l’instabilità politica e l’insicurezza di molte regioni del mondo è ascrivibile proprio al processo di divisione che il nazionalismo impone alle società in cui si sviluppa. Si pensi al conflitto del Tigray in Etiopia, alle persecuzioni in Tibet e in Myanmar, giusto per fare alcuni esempi di attualità, senza scordare le politiche miopi che hanno portato all’attuale divisione territoriale in Africa e Medio Oriente. È importante sottolineare che l’affermarsi del nazionalismo è un processo storico-sociale che, come è andato a costituirsi, può essere decostruito e ricostruito su fondamenta differenti. Questo è l’obiettivo ultimo del processo federale che punta a unificare e pacificare l’umanità e il globo nella sua totalità.

C’è dell’altro che occorre considerare quando si parla di governo federale del mondo? In primis, bisogna riflettere su quali siano le ripercussioni di un sistema internazionale pacificato e quali siano i presupposti affinché questo sistema sopravviva. In questo contributo ci si limiterà ad analizzare la principale ripercussione della realizzazione della pacificazione in senso federale dell’arena internazionale: la riduzione sostanziale delle minacce alla sovranità ad opera di altri Stati e la conseguente affermazione del diritto quale unico mezzo legittimato a disposizione per dirimere le controversie.

In ragione di ciò, in un mondo pacificato, vi è la concreta possibilità di ridurre la dimensione securitaria delle scelte politiche e parallelamente di assistere a un disinvestimento pressoché totale in campo militare, le cui risorse sarebbero quindi destinate ad altri ambiti con benefici concreti sulla vita dei cittadini. Logicamente, si riscontrerebbe una progressiva diminuzione della produzione e commercializzazione di armamenti; si tenga conto che la pressoché totalità degli armamenti usati in contesti di guerra non convenzionali (terrorismo, guerre civili…) proviene -spesso tramite meccanismi poco trasparenti - dalle stesse industrie che forniscono materiale ai ministeri della difesa nazionali [6].

Questo cortocircuito virtuoso permetterebbe, potenzialmente, di ridurre la probabilità che si verifichino fenomeni di violenza armata alle diverse scale. Se approfondiamo la questione e consideriamo quelli che sono i grandi pericoli intercettati dalle narrazioni dominanti - la violenza organizzata dei gruppi terroristici, delle organizzazioni mafiose, dei trafficanti di droga, dei cacciatori di frodo e più in generale quella di gruppi armati di varia natura – è evidente che si tratta di un processo di disarmo lungo e complesso che si intreccia con questioni di carattere culturale, tra le quali non è sempre facile districarsi, e con interessi economici altrettanto complessi. Inoltre, ci sono molti elementi che concorrono a rallentare i processi di disarmo. Si pensi per esempio al II Emendamento della Costituzione degli USA, non si tratta semplicemente di un elemento normativo, ma è un elemento distintivo della cultura della libertà americana difficilmente estirpabile nel breve periodo soprattutto in alcuni contesti rurali [7].

Altrettanto emblematico è l’esempio delle comunità pastorali dell’Africa Orientale [8] per le quali è storicamente necessario possedere armi sia in osservanza di pratiche culturali tradizionali, sia per garantire la propria sopravvivenza negli scontri con altri gruppi per l’utilizzo o il controllo di risorse scarse (acqua, pascoli…) in un contesto in cui gli Stati non sono in grado di garantire pienamente né la sicurezza, né le risorse economiche minime per i propri cittadini [9].

Nonostante si sia osservato un progressivo declino della violenza [10], questa rimane presente nelle società contemporanee. L’accesso alle armi e la violenza spesso vanno di pari passo; tuttavia, non possono essere considerate allo stesso modo. La violenza è qualcosa di più complesso, è un fatto sociale che attraversa sia orizzontalmente sia verticalmente le comunità ai differenti livelli. Ne consegue che, per prevenire ogni possibile forma di violenza che metta in discussione la stabilità di un sistema globale pacificato o che riproponga la stessa ideologia divisiva propria del nazionalismo, occorre non limitare la riflessione federalista all’abolizione della guerra fra gli Stati, ma piuttosto di abbracciare una riflessione su come costituire una società globale che elimini la violenza come strumento di affermazione di qualsiasi tipo di pretesa.

Questo punto è fondamentale, perché costituisce uno di quei presupposti affinché l’assetto federale mondiale stesso possa sopravvivere. Il cambiamento culturale in questo senso è decisivo e il federalismo, a mio parere, deve assumersi questa complessa responsabilità: supportare il cambiamento della e nella società, affermando prima di tutto la necessità di abolire la violenza come modalità dell’agire umano a tutte le scale dall’individuo all’umanità nel suo insieme.

Albertini, in alcune dei suoi scritti supporta questa visione del federalismo, nel 1962 [11] dichiarava che la dottrina federalista non si deve limitare alla teoria dello Stato federale, ma deve costituire un “criterio di conoscenza e azione” in grado di indirizzare il comportamento degli agenti sociali verso un obiettivo preciso. L’obiettivo individuato è, come sappiamo, quello della pace positiva, ma c’è di più (forse). Nella sua trattazione, Albertini, seguendo Kant, afferma che nella teoria politica federalista la pace è da intendersi come la condizione in cui sia possibile “pensare a tutto meno che alla violenza”. Significa in altri termini abolire la violenza dalle possibilità dell’agire umano e ciò è possibile, non solo attraverso il superamento dell’anarchia internazionale, ma anche attraverso un processo socioculturale che coinvolga i singoli individui e l’insieme degli attori della società.

Ma qual è il rapporto che intercorre tra dimensione individuale e/o collettiva locale e il disegno macro della Federazione mondiale? Si tratta di un rapporto di interdipendenza molto forte, entrambe necessitano l’una dell’altra affinché possano perdurare nel tempo. Infatti, è impensabile una Federazione mondiale in cui il ricorso alla violenza sia normalizzato, il rischio che questo fomenti nuove forme di nazionalismo(12) ne minerebbe le fondamenta, porterebbe allo scontro e condurrebbe a un’inevitabile frammentazione. Allo stesso modo, è inconcepibile una società priva di violenza nella quale non ci sia una Federazione globale che assicuri il primato del diritto come unico mezzo per dirimere le controversie; se è pur vero che la violenza non si manifesterebbe, non è detto che non ci siano interessi divergenti e posizioni dissimili alle differenti scale per le quali è necessaria operare una mediazione che può realizzarsi solo attraverso istituzioni legittimate ai diversi livelli. Ne deriva che il federalismo, inteso come teoria politica e attivismo politico, necessita di operare in entrambe le direzioni: assicurarsi che si proceda a livello istituzionale verso la Federazione mondiale e che, a livello socioculturale, si operi un’attività di sensibilizzazione che porti all’estinzione della violenza dai possibili modi di agire nella e della società.

Per questa seconda battaglia occorre fare fronte comune con la società civile e con il mondo della cultura e della formazione già impegnati in questo senso. Occorre denunciare, in ogni contesto e a tutte le scale, qualsiasi forma di violenza che sia politica, ambientale, religiosa, etnica o legata al genere e agli orientamenti sessuali. Tuttavia, non deve trattarsi di un mero attivismo di denuncia; nel suo essere avanguardia, il federalismo organizzato deve essere prescrittivo, sottolineando la necessità che sia sempre e solo il diritto a garantire la sicurezza, l’incolumità e la salute della e nella società; ribadendo, inoltre, che solo un sistema federale mondiale, di cui la Federazione europea rappresenta l’obiettivo intermedio, costituisce la garanzia ultima per l’estinzione della violenza in ogni sua declinazione.

Note

[1Montani, G. (2022). Antropocene, nazionalismo e cosmopolitismo. Prospettive per i cittadini del mondo. Mimesis.

[2Kant, I. (1965). Per la pace perpetua. In Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino. (Opera originale pubblicata nel 1795).

[3Albertini M. (1993). Il federalismo, Il Mulino, Bologna.

[4Segre, D. V. (1979). A crisis of identity. Israel and zionism, London (traduzione italiana: Israele e il sionismo, Milano 1980).

[5Cavalli A. (2023). On January 27th, the International Day of Commemoration in Memory of the Victims of the Holocaust. The Federalist Debate, XXXVI, n°2.

[6Foschi D. (2020). Chi vende e chi spara? Analisi dell’export militare mondiale nel 2015-19, in IRIAD Review.

[7Scarpat N. (2017). Le armi da fuoco negli Stati Uniti: diffusione, vittime, controllo. In Sistema Informativo a Schede (SIS)

[8FAO, IGAD & Interpeace (2023). Conflict, climate change, food security, and mobility in the Karamoja Cluster – A study to analyse interactions among conflict, food security, climate change, migration and displacement factors. Rome.

[9Kahl, C. H. (2006). States scarcity, and civil strife in the developing world. Princeton University Press.

[10Barbagli M. (2023). Uomini senza. Storia degli eunuchi e del declino della violenza. Il Mulino.

[11Albertini M. (2000). Il Federalismo. Il Federalista, n°2, Anno XLII. Si noti che questo testo è la trascrizione di una conferenza tenuta da Albertini presumibilmente nell’anno 1962. Il testo è stato rivisto e corretto in parte dallo stesso Albertini, che però aveva interrotto il lavoro di revisione decidendo di non pubblicarlo.

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