Trump, May e il cul de sac del nazionalismo

, di Michele Ballerin

Trump, May e il cul de sac del nazionalismo

Qualche tempo fa mi sono imbattuto, in una maniera e in un luogo del tutto casuali, nella Preghiera del marinaio. Era appesa alla parete di un corridoio in una casa di riposo per anziani, accanto ad alcune fotografie in bianco e nero che raffiguravano, insieme a un giovane in divisa da marinaio, l’incrociatore Giuseppe Garibaldi in un periodo che era facile collocare fra gli anni Cinquanta e i Sessanta.

Sul momento non ho pensato che valesse la pena di trascriverne il testo, o più semplicemente catturarlo con uno scatto del mio smartphone. In seguito, rimuginandoci sopra, me ne sarei pentito se Google non mi avesse permesso di rimediare in pochi istanti (informandomi che la preghiera viene ancora oggi recitata a bordo delle navi della marina militare italiana e che il suo autore è Antonio Fogazzaro, lo stesso di Piccolo mondo antico). Sicché, ecco il testo integrale:

«A Te, o grande eterno Iddio,

Signore del cielo e dell’abisso,

cui obbediscono i venti e le onde, noi,

uomini di mare e di guerra, Ufficiali e Marinai d’Italia,

da questa sacra nave armata della Patria leviamo i cuori.

Salva ed esalta, nella Tua fede, o gran Dio, la nostra Nazione.

Da’ giusta gloria e potenza alla nostra bandiera,

comanda che la tempesta ed i flutti servano a lei;

poni sul nemico il terrore di lei;

fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro,

più forti del ferro che cinge questa nave,

a lei per sempre dona vittoria.

Benedici, o Signore, le nostre case lontane, le care genti.

Benedici nella cadente notte il riposo del popolo,

benedici noi che, per esso, vegliamo in armi sul mare.

Benedici!»

Bisogna dire che lì, in quel corridoio, suonava abbastanza normale: non solo perché si intuiva che l’ex marinaio era ospite della struttura (poco dopo ne ho avuto conferma), ma anche perché mi trovavo in una specie di tempio del passato, dove era perfettamente comprensibile che ogni pensiero e ogni residuo slancio sentimentale fossero rivolti all’indietro, votati al rimpianto e alla commemorazione. Perciò quel campione post-risorgimentale di nazionalismo in veste di inno misticheggiante poteva anche starci: tutto è bello e denso di palpitante significato se ci arriva da quel reame perduto – la nostra giovinezza.

Poi mi sono ricordato che oggi parecchia gente, fuori da lì e un po’ ovunque, sembra tentata di ricominciare a pensare negli stessi termini: Nazione, Patria, vittoria, gloria, potenza ecc. In due parole, sovranità nazionale. E questo mi ha fatto effetto. Perché un conto è vedere una mummia stesa nel suo sarcofago in una stanza a temperatura controllata, a Torino o al Cairo, un altro è vedersela venire incontro lungo un corridoio: si strabuzzano gli occhi, si ripercorre mentalmente l’elenco delle ragioni plausibili, infine si pensa a come mettersi al sicuro… Così grosso modo ho reagito anch’io, appena mi sono reso conto che quel frammento di passato remoto stava scrollandosi di dosso la polvere nel tentativo di tornare all’attualità.

Perché le cose, caro lettore, stanno esattamente così: c’è chi compie sforzi immani per rievocare l’antico spettro del nazionalismo, e non solo fra certe pittoresche figure di casa nostra, ma ai vertici della politica mondiale: Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia. Si rispolverano parole e retoriche che credevamo sepolte per sempre sotto cumuli di (non metaforiche) macerie. Ci si mostrano vicendevolmente i bicipiti e si fanno prove davanti allo specchio per vedere chi ha la grinta più feroce. Si finge, soprattutto, di non sapere che il mondo di oggi non è più quello di un tempo: che le esigenze e le urgenze sono altre, diverso è l’ordine del giorno e ben diversa è la posta in gioco. Si finge che quell’atteggiarsi sia qualcosa di più: una politica, un progetto.

E di colpo la Preghiera del marinaio si rivela preziosa. Infatti basta rileggerla con più attenzione, soffermandosi in particolare sui versi centrali, per toccare con mano l’assurdità, anzi l’impossibilità logica del nazionalismo nel momento in cui presume di assurgere al ruolo di ideologia, di valore universale:

“Salva ed esalta, nella Tua fede, o gran Dio, la nostra Nazione.

Da’ giusta gloria e potenza alla nostra bandiera,

comanda che la tempesta ed i flutti servano a lei;

poni sul nemico il terrore di lei”.

Se consideriamo il fatto che sulla terra esistono più di 200 nazioni, la pretesa che Dio ne scelga una a scapito di tutte le altre si rivela immediatamente per quello che è: un controsenso. Perché mai dovrebbe? E come scegliere, se tutte le nazioni della terra sono legittimate a nutrire la stessa pretesa? Ciascuno di questi 200 governi e popoli dovrebbe confidare in un Dio onnipotente disposto ad asservirgli la tempesta e i flutti e a porre tutti gli altri sotto il “terrore di lui”, e dovrebbe tenersi pronto ad agire di conseguenza. Potrebbe succedere (è già successo), ma la domanda allora è: dove ci porterebbe tutto questo?

Però il grande dilemma dei nazionalisti - nell’epoca della massima interdipendenza fra sistemi sociali ed economici - è che non si capisce su che base possano collaborare (posto che non vogliano semplicemente combattersi), dal momento che ognuno di essi muove dalla convinzione della propria necessaria supremazia. Un’alleanza efficace e duratura tra nazionalismi è difficile da concepire, e questo, Mrs. May, è un problema tutto suo: “America first” e “Britain first” sono concetti molto diversi, anzi antitetici. Non certo un treno su cui si può salire tutti insieme per andare nella stessa direzione.

In realtà l’imbarazzo in cui la regina Elisabetta è sprofondata in seguito al frettoloso abbraccio tra il suo primo ministro e il nuovo leader americano sembra destinato a crescere col trascorrere dei giorni: una volta sposata la logica della sovranità nazionale come valore fondante, e impugnata la bandiera dell’“indipendenza” dall’Unione europea, quella stessa logica sta condannando il governo e il popolo britannici ad accomodarsi sotto la tutela di una potenza straniera la cui dichiarata intenzione è di badare ai propri interessi. È abbastanza ovvio che questo non offre loro grandi prospettive, e che la Brexit assomiglia a tante cose, ma più di tutto a un vicolo cieco. Dal momento che la mummia dell’impero britannico non può tornare in vita, l’alternativa è la sudditanza a un potere con cui non si può competere.

O meglio, una prospettiva c’è, nell’eventualità che il mondo torni a essere un campo di gioco per nazionalismi redivivi: e qui non trovo modo più sobrio ed efficace di descriverla che pubblicando una fotografia nella quale mi sono imbattuto, sempre di recente e sempre casualmente, mentre sfogliavo un volume sulla battaglia della Somme in una libreria di Genova (Somme. Voci dall’inferno, appena pubblicato dall’editore Giunti). Questa volta ho provveduto subito a fotografarla, ed eccola qui. La didascalia ci informa che l’immagine ritrae il cadavere di un soldato tedesco, ma l’immagine stessa ci dice, in modo ancora più eloquente, che cos’era l’Europa dei nazionalismi, delle Patrie e dei “petti di ferro” prima che l’esperimento dell’integrazione europea frapponesse tanti piacevoli decenni tra il nostro presente e quel piccolo corpo ischeletrito, le cui orbite vuote sembrano interrogare me, voi, Theresa May, Donald Trump e chiunque altro sulla faccia di questa terra.

Se proprio vogliamo pregare, preghiamo perché tutto questo non debba ripetersi più. Lasciamo chiuso il sarcofago e dedichiamoci all’unico lavoro che dovrebbe impegnare ogni uomo e donna di buona volontà: costruire strumenti concreti, istituzionali, di cooperazione fra popoli e fra stati. Passata la sbornia populista, questa è l’unica politica che aspetta di essere adottata, da una parte e dell’altra dell’Atlantico.

1. Articolo originariamente pubblicato sul blog European Circus

2. Fonte immagine Wikipedia

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