Berlusconismo al tramonto

, di Antonio Longo

Berlusconismo al tramonto

La spaccatura del centrodestra italiano, manifestatasi in occasione del voto di fiducia al governo Letta, è l’ultimo passaggio della crisi di questa area politica, iniziata due anni fa con la nascita del governo Monti.

Chi analizza i fatti italiani a partire dal quadro europeo è in grado di leggere questa vicenda nella sua pienezza politica, a differenza di chi si limita a mantenere un quadro concettuale di tipo nazionale.

Il punto di partenza è che il centro-destra italiano di stampo berlusconiano non è compatibile nei valori e nei contenuti politici con una unione monetaria che deve evolvere verso una unione economica e politica. Questa incompatibilità emerge in modo dirompente con la crisi del debito pubblico, quando è chiaro che occorre por mano ad un profondo risanamento dei conti pubblici, cosa che interrompe il circuito che lega le risorse finanziarie del centro con il potere locale e la riproduzione del consenso politico. La politica del c.d. «rigore», al di là della sua gestione in termini di equità sociale o meno, non è indifferente circa gli effetti che produce sul blocco sociale che ha retto da due decenni il sistema di potere berlusconiano. I rubinetti che si chiudono incidono profondamente sul sistema delle clientele locali che, specie al sud, hanno costituito da sempre un serbatoio decisivo di voti. Sul versante imprenditoriale poi, chi ha retto la crisi è chi si è lanciato verso l’internazionalizzazione della propria impresa, con interessi sempre più sganciati dalla realtà nazionale e quindi meno sensibile alle sirene dell’ideologia berlusconiana.

Monti capì il problema e tentò di far nascere un’area centrista di stampo europeo, ma non riuscì perché i tempi della politica non sempre coincidono con il problema che si ha di fronte. Perché ciò avvenga occorre che emerga con chiarezza l’alternativa politica alla crisi del vecchio sistema. Berlusconi era già entrato in una crisi politica irreversibile due anni fa (novembre 2011) quando venne «sfiduciato» dall’Europa del direttorio Merkel-Sarkozy (cfr. L’Europa ha buttato giù Berlusconi ), ma la percezione della realtà non sempre viene avvertita nella sua pienezza. La condanna definitiva per frode fiscale ha segnato la sua fine politica (cfr. La guerra è finita), anche se il «teatro» della politica italiana ha cercato di mascherare l’evento.

Finito Berlusconi, ciò che restava in piedi era il «berlusconismo», cioè quel blocco sociale che lui stesso ha plasmato in vent’anni, unificando politicamente ceti sociali diversi (dall’imprenditore al commerciante, dal professionista all’impiegato pubblico, fino a chi vive ai margini o nella piena illegalità), ma tutti accomunati dal bisogno di uno Stato che alimentasse continuamente il circuito della spesa pubblica, con regole aggiustabili, controlli aggirabili. E tutti unificati ideologicamente dalla guerra contro i giudici e i comunisti.

Ciò cui assistiamo in questi giorni è un passaggio ulteriore della crisi di questo blocco sociale. La narrazione degli eventi ad opera dei media si dilunga sugli scontri di potere tra i protagonisti. Ma dimentica di dire un paio di verità. La prima verità è che ciò che ha determinato la sconfitta definitiva di Berlusconi e l’inizio della fine del berlusconismo è rappresentato dall’esigenza imprescindibile di varare, entro metà ottobre, la «finanziaria» e che oggi, in termini europei, si chiama «legge di stabilità».

Molti commentatori non sanno o si sono dimenticati del fatto che la Commissione europea non solo deve ricevere ogni anno da ciascun Paese la legge di stabilità, ma deve anche dire se va bene oppure no. Questa è la conseguenza del Two pack, normativa europea contro la quale una certa sinistra casalinga si scagliò all’epoca a difesa della nostra «presunta» sovranità nazionale e che, ora, per ironia della sorte, è stato l’elemento che ha determinato lo smottamento dei «moderati» del PdL. Il non-rispetto dei tempi per l’approvazione della legge di stabilità avrebbe determinato un’automatica perdita di fiducia dei mercati sulla solvibilità del debito italiano, un innalzamento vertiginoso dello spread ed una conseguente riapertura della procedura di infrazione da parte della Commissione.

Di fronte al rischio di un disastro finanziario del Paese, addebitabile chiaramente all’irresponsabilità di un pregiudicato che non intende farsi da parte, i «moderati» hanno saltato il fosso, sganciando il proprio destino personale da quello del Capo. Come molti fecero il 25 luglio del ‘43.

La seconda verità è che a maggio del 2014 ci sono le elezioni europee e che questa volta si gioca la partita per la leadership della Commissione europea. Gli schieramenti si vanno profilando e se i «moderati» italiani non creano la «casa italiana» del PPE sono fuori dai giochi. Questa alternativa – tutta politica – è ora chiaramente visibile (cosa che non lo era nella primavera scorsa e non poté giovare a Monti) ed esercita un magnete crescente nei confronti di chi nel centro-destra vuole chiudere con la storia di un partito «padronale».

Tutto ciò mostra che la fine di Berlusconi e l’inizio della fine del berlusconismo sono legati a doppio filo con l’assetto europeo, con la necessità di una sua evoluzione verso un quadro di crescente unità politica di tipo federale e con l’inizio di una lotta politica di potere sul terreno europeo.

Dunque è il quadro europeo che determina i tempi e i modi della crisi del centro-destra italiano e la necessità di una sua ristrutturazione. Una crisi che è salutare anche alla sinistra, costringendola a liberarsi dell’alibi di Berlusconi (che le ha garantito una rendita di posizione per vent’anni), per dedicarsi alla costruzione di un programma europeo in campo politico, sociale ed economico, a partire dalla necessità di un Piano europeo per lo sviluppo e per il lavoro.

Fonte immagine Wikimedia

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