Non si può aggiungere molto a quanto detto finora sulle cause e sull’intensità della crisi economica che, partita dagli Stati Uniti, ha investito l’Europa: una crisi strutturale, una once-in-a-lifetime crisis, una crisi di fiducia, una crisi delle aspettative. Ciò che invece è necessario approfondire nuovamente sono i paradossi politici che stanno alla base della costruzione europea, paradossi che la crisi non ha affatto creato, ma solamente reso palesi: ad un “elettorato” economico continentale, che esprime il proprio consenso o dissenso ogni giorno, corrispondono numerosi elettorati politici nazionali, ciascuno regolato dalla proprie logiche, dai propri tempi e dalle proprie Raison d’Etat.
Nella frattura dimensionale fra questi due elettorati, nel gap di legittimità e di obiettivi, si aprono infinite opportunità per la speculazione, per l’affermazione della “veduta corta”, per il prevalere di un malsano nazionalismo metodologico. Sempre nuovi e pericolosi dubbi si insinuano fra i cittadini e i policy-makers: “la Grecia non può fallire” diventa “stiamo pensando ad un default controllato greco”, sostenere che il fondo europeo di stabilità è una misura sufficiente per dare sicurezza ai mercati e per ridurre l’incertezza strutturale che caratterizza l’edificio europeo si trasforma pochi giorni dopo in una costellazione di proposte di riforma incomplete, contraddittorie o conflittuali. È evidente che la politica in Europa ha abdicato al proprio ruolo di guida della società, alla capacità di decidere e scegliere in un lungo orizzonte temporale; se è vero che la politica è “la più alta forma di riflessione sulla natura umana”, a livello europeo non stiamo certamente facendo bella figura.
Il contenuto degli accordi raggiunti alla fine degli ultimi vertici europei giustifica ancora una volta il pessimismo implicito nelle righe precedenti: il mix di ingredienti che comprende un’iniziativa intergovernativa tedesco-francese (l’ordine delle parole qui non è casuale), una crescente sfiducia fra i rappresentati dei governi della zona euro da una parte e fra la zona euro ed i paesi esterni ad essa dall’altra, infine la divergenza di vedute sulle modalità di soluzione della crisi e di governo dell’economia continentale, non possono che incentivare la politica del “mettere le toppe” alla situazione nel breve periodo, riponendo la lungimiranza nel cassetto, in vista di tempi migliori.
La rinegoziazione del debito greco, insieme all’impegno volto a riportare il rapporto debito/PIL di Atene al 120 per cento, i nuovi criteri per la gestione del capitale bancario al fine di ristabilire la fiducia nel sistema e la razionalizzazione (senza la sottoscrizione di nuove garanzie) dei meccanismi di finanziamento del Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF) che dovrebbero permettergli un leverage intorno ai mille miliardi di euro sono senza dubbio importanti cambiamenti nell’intricato sistema della governance economica europea in formazione. Il punto è: questi passi avanti sono sufficienti a curare le mancanze strutturali della costruzione europea? O, ancora peggio: sono passi diretti verso il precipizio di una nuova recessione? Una risposta affermativa a quest’ultima domanda spiegherebbe anche l’euforia dei mercati nei giorni successivi il vertice: gli spazi per la speculazione non si sono ancora chiusi, le contraddizioni europee possono essere ancora sfruttate dai mercati.
L’evoluzione dell’EFSF ci fornisce il case-study perfetto per approfondire un po’ quanto detto finora perché, a dispetto delle sue nuove importanti prerogative, il dibattito che ha preceduto la loro approvazione ha messo in evidenza la veduta corta dei Governi: da una parte l’idea di trasformare il fondo in una banca, fornendogli un sostegno illimitato da parte della BCE; dall’altra, la possibilità di dargli lo status di fondo di assicurazione di quota parziale dei debiti nazionali (quest’ultima prospettiva favorita dalla Merkel); nel mezzo a queste due opzioni, l’ambiguità di fondo qual è il senso ed il ruolo del fondo nella costellazione delle istituzioni europee.
Se, in prospettiva, è possibile pensare l’EFSF come l’embrione di un Tesoro federale europeo, capace di affiancare alla politica monetaria europea anche quella fiscale, ad oggi non sono sciolti i nodi fondamentali della sua legittimità democratica e della provenienza delle sue risorse: la leva finanziaria fatta sulla base delle garanzie offerte in modo solidale dagli stati membri non è un meccanismo capace di risolvere da solo la crisi di fiducia, e potrebbe addirittura mettere a rischio l’intero sistema nel momento in cui ulteriori apporti di risorse si rivelassero necessari. Quest’ultimo punto riguarda in particolare Francia (il cui rating è appeso ad un sottile filo di credibilità) ed Italia: un aumento della garanzia all’EFSF dovrebbe essere finanziato da nuove emissioni di debito pubblico nazionale; ciò, a sua volta, minerebbe ulteriormente la credibilità e la solvibilità dei due paesi, innescando nuove crisi di fiducia, nuove speculazioni, nuove revisioni al ribasso del rating e, dunque, la necessità di ulteriori apporti al fondo. L’economia del Belpaese in particolare si trova ad essere doppiamente con le spalle al muro: probabile causa scatenante del tracollo dell’eurozona (il paese è “too big to fail”), ma al contempo fornitore di circa il diciotto percento delle garanzie assegnate all’EFSF. Il paradosso della situazione è chiaro; se la storia si ripete veramente prima come tragedia, e poi come farsa, viviamo senza dubbio il momento della farsa.
Nonostante tutto, però, l’esistenza del fondo è un fatto importante: primo perché non fa assumere alla BCE competenze di natura squisitamente politica; secondo, perché rafforza quei paradossi e quell’instabilità europea che può permettere nuovi progressi istituzionali. Nella situazione attuale la frattura fra l’elettorato politico e quello economico è più grave che mai: di fatto viviamo in un continente a democrazia (e non soltanto a geometria) variabile, dove le decisioni di un parlamento nazionale, il Bundestag, hanno un valore reale maggiore rispetto a quelle degli altri Paesi, in quanto è dalle scelte della Germania – l’unico paese in grado di garantire la solvibilità del sistema – che dipende in sostanza il futuro dell’Europa. Uno scenario del genere non può che portare ad ulteriori divisioni, ad un deciso peggioramento dell’orizzonte politico ed economico, ad un rafforzamento delle forze “viziose” in azione nel Vecchio continente.
L’unico modo per uscire dal ripiegamento civile e dall’impasse istituzionale sta nel rilanciare la progettualità europea di grande respiro: se le ansie e la speculazione sui mercati si nutrono delle ambiguità, delle false dichiarazioni e dei tentennamenti dei capi di stato e di governo, la proposta di una precisa road-map sul futuro dell’Europa potrebbe fornire una via d’uscita. Questo passo è compito esclusivo della politica: non c’è “podestà straniero” che tenga, la classe dirigente europea deve riscoprire il fine ultimo dell’integrazione sovranazionale e decidere che rotta dare al processo. Purtroppo, a differenza del vecchio marinaio di Hemingway citato da Altiero Spinelli, il cui pesce veniva divorato lungo il tragitto verso casa, che almeno sapeva ritrovare la direzione della costa, oggi le nostre “guide” politiche sono perse nell’alto mare della miopia tattica e strategica.
Una road-map europea dovrebbe definire tutta la serie di passi politici da intraprendere da qui al 2014, anno delle prossime elezioni europee, integrando in modo coerente riforme del governo dell’economia e modifiche dei trattati. In particolare, un piano del genere dovrebbe mettere nero su bianco a) le finalità ultime dell’EFSF, i passi istituzionali per arrivare ad una sua legittimazione democratica europea, le forme sovranazionali del suo finanziamento (emissione di bonds, ri-articolazione federale dei sistemi fiscali nazionali, fiscalità integrativa – in particolare l’istituzione della carbon tax –) , b) la strategia e la metodologia per una profonda riforma dei trattati che rimuova le carenze strutturali della costruzione europea e che chiarisca ruolo e poteri dei Governi, della Commissione, del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali e c) la natura e l’entità di un New Deal paneuropeo per rilanciare sviluppo ed occupazione. Insomma, un progetto “quadro” che, indicando anche i tempi per le riforme, sciolga i dubbi e mostri la forma futura dell’Unione in termini di poteri costituzionali, unione fiscale, risorse di bilancio ed equilibri istituzionali
Non trattandosi di una cessione di sovranità immediata, ma del riconoscimento della necessità di raggiungere in breve tempo l’Unione federale, una road-map del genere potrebbe essere accettabile dai Governi e si configurerebbe già come un pre-foedus, un patto costituzionale sovranazionale in divenire, da mettere in pratica per fasi; la sua esistenza ed il suo valore vincolante garantirebbe di per sé il ritorno ad una situazione di normalità delle aspettative e della fiducia.
In conclusione, ciò che serve oggi per rispondere alla crisi non è il lavoro del sarto, ma quello dell’architetto: ritornare al progetto, al disegno strutturale della costruzione europea per offrirne un chiaro, deciso e preciso fermo-immagine. Come ha sostenuto recentemente Joschka Fischer, “The cause of the European crisis is not three decades of neo-liberalism. Nor is it the result of the collapse of a speculation-fueled asset bubble, the violation of the Maastricht criteria, ballooning debt, or greedy banks. As important as all of these factors are, Europe’s problem is not what happened, but what did not happen: the creation of a common European government”. Senza un forte commitment verso la creazione del governo europeo che ancora manca, difficilmente i governi nazionali potranno essere credibili verso i loro cittadini, verso il resto del mondo, e anche nei loro stessi confronti.
Una road-map per l’unificazione europea può essere fatta ora e subito; mentre the People of Europe is rising-up e anche i Paesi in via di Sviluppo – con la Cina in prima linea – pensano di intervenire per aiutare i litigiosi governi europei, è arrivato per la politica il momento di osare di più. L’Eurozona è ormai già emersa come luogo privilegiato dell’integrazione comunitaria, ma la strada intergovernativa seguita finora (l’istituzionalizzazione dell’area Euro e la nomina di Van Rompuy come suo presidente – a dispetto tra l’altro del ruolo giocato finora da Juncker –) non riduce l’inconsistenza e l’ambiguità europea, ma ne rafforza invece gli effetti negativi. Che perseverare diabolicum est pare non sia ancora evidente nel mondo delle sovranità nazionali; lanciare subito una road-map per l’unione federale europea è l’unico modo per dimostrare che, finalmente, qualcosa in Europa è cambiato.
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