Harvard goes to Europe: recentemente sulle pagine del Financial Times è apparso un sintetico e interessante articolo di Ricardo Hausmann, Professore di economia ad Harvard, che propone un’argomentazione molto semplice: allo stato attuale della situazione, “la generosità del mondo” è sprecata in Grecia. I punti di vista di commentatori e politici, infatti, si dividono fra la prospettiva “fiscale”, secondo la quale aumenti di tasse e tagli alla spesa sono l’unica soluzione possibile per migliorare la situazione ad Atene, e quella “keynesiana”, che vede nell’austerità una minaccia alle potenzialità di crescita di auspicabili politiche espansive nazionali.
Nel contenzioso fra tagli e non-tagli si dimentica una terza opzione, quella di aumentare le esportazioni ristabilendo un saldo attivo della Bilancia dei Pagamenti, seguendo in particolare l’esempio di successo dell’Irlanda, Paese capace di lasciarsi alle spalle – almeno per il momento – i tempi bui abbandonando le bolle speculative e puntando sulla ripresa dell’economia reale e dei propri legami commerciali internazionali. Il punto centrale dell’argomentazione di Hausmann sta nel fatto che dal punto di vista tecnico i prodotti che la Grecia esporta si trovano in una posizione molto lontana dalla frontiera stabilita dai beni dei paesi più avanzati: il contenuto di conoscenza delle esportazioni greche è relativamente basso, così come la varietà dei prodotti. Basterebbe dunque colmare i gap di conoscenza ed ampliare lo spettro della produzione greca verso beni più complessi per rilanciare le esportazioni e, con loro, l’economia in difficoltà.
La posizione di Hausmann, teoricamente più che condivisibile, discende direttamente dalla sua metodologia di ricerca, grazie alla quale lui ed il suo gruppo di collaboratori hanno iniziato a rifondare la teoria della produzione e della crescita economica su nuove basi: quelle delle scienze della complessità e delle reti. L’evidenza empirica sulla quale si centra la sua analisi è legata alla dimensione del “product space” delle nazioni: i maggiori esportatori del mondo sono allo stesso tempo anche i paesi che producono il più ampio ventaglio di beni (tutto ciò in barba alla teoria dei vantaggi comparati); a sua volta, la grande varietà di prodotti tradable disponibile in un dato Paese dipende da particolari capacità e conoscenze che, se sviluppate, possono garantire il successo di un’economia. Capacità e conoscenze di cui, ovviamente, la Grecia è scarsa, una scarsità che si traduce in un collo di bottiglia delle capacità produttive e di esportazione.
Quello che i teorici di Harvard non suggeriscono, in questo caso, è che l’argomentazione relativa alla necessità di incrementare le esportazioni di un Paese in difficoltà esiste dalla notte dei tempi dei programmi di aggiustamento strutturale, in particolare quelli suggeriti (imposti) negli anni Settanta e Ottanta dal Fondo Monetario Internazionale all’America Latina (e all’Africa subsahariana). Misure di austerità interna e di controllo dei tassi di cambio dovevano rendere competitive internazionalmente le merci prodotte dai PVS i quali, grazie all’aumento delle esportazioni, avrebbero racimolato un po’ di milioni di dollari utili a sanare prima, e rilanciare poi, le proprie economie. Purtroppo, il disastro del “decennio perduto” sudamericano racconta una storia differente, quella in cui politiche di austerità one-size-fits-all hanno eliminato dal gioco ogni possibile Paese importatore: se tutti devono avere la bilancia dei pagamenti in attivo, chi rimane a comprare i beni degli altri?
Con questi ricordi bene in mente, possiamo qualificare meglio la proposta di Hausmann: certamente la Grecia può uscire dalla crisi tornando ad esportare, ma in un momento in cui il ciclo economico dei paesi europei – eccetto la Germania e pochi altri – è in fase di profonda stagnazione, potrebbe essere difficile trovare dei “clienti” a cui vendere i propri nuovi prodotti, anche se knowledge-intensive. La chiave per aumentare le chance di successo greche è senza ombra di dubbio quella che passa per lo sviluppo di micro e macro capabilities e conoscenze da incorporare in prodotti complessi, ma l’attuale dotazione di lungimiranza dei poteri pubblici a favore di soluzioni del genere, insieme alle disponibilità finanziarie imprescindibili per garantire i necessari investimenti strutturali utili a sviluppare queste componenti fondamentali del sistema produttivo, sono al loro minimo storico.
Dunque, guardando i fatti dalla sola prospettiva nazionale, è difficile individuare una via d’uscita che non sia una “religiosa” austerità: servirebbe investire a priori nelle competenze avanzate dei Paesi in difficoltà per far ripartire la crescita, ma senza crescita a priori non ci sono le risorse per poter finanziare questi investimenti. Una soluzione al paradosso deve essere trovata fuori dai confini greci, ma dentro ai confini europei: il lancio di un New Deal europeo, ovvero la predisposizione di un Piano continentale finanziato da euro-project-bonds (inizialmente da parte della Banca Europea degli Investimenti, in futuro attraverso un Tesoro federale che disponga anche di un adeguato bilancio per sostenere in modo continuativo una politica industriale e della crescita europea) offrirebbe la possibilità di individuare quelle risorse di base capaci di far respirare le economie nazionali e di rilanciare tutto il sistema continentale.
Fortunatamente degli “spiragli” di opportunità sembrano aprirsi in questo senso: il recente riavvicinamento tra Italia e Germania, le dichiarazioni del Presidente della BCE Draghi a favore di un “patto per la crescita” complementare al Fiscal Compact e che ponga le basi di un’Unione fiscale reale (cioè fondata su trasferimenti di sovranità dagli stati membri ad istituzioni federali), la positiva progettualità di Mario Monti in vista delle prossime riunioni comunitarie (Ecofin e Consiglio) ed il disequilibrio che – in ogni caso – l’assestamento politico post-elezioni in Francia e Grecia porterà in Europa, pongono le basi per nuove battaglie politiche e nuovi progressi in termini di integrazione.
Gli europei hanno bisogno di idee e prospettive come quelle suggerite dagli economisti di Harvard. Per capire e realizzare la crescita economica servono modelli e teorie capaci di maneggiare la complessità dei sistemi economici e di indagare nel profondo le relazioni fra cause ed effetti, micro e macro variabili, interazioni multiple e non-triviali fra gli attori sociali. Ma serve anche una chiara prospettiva politica ed una precisa consapevolezza della strada da intraprendere, della natura continentale dei vizi e dei dilemmi europei, e della loro possibile soluzione in un contesto federale. La ricorrenza del 9 maggio, Festa dell’Europa e anniversario della Dichiarazione Schuman, può aiutare ad allenare questa consapevolezza: citando lo slogan della mobilitazione dei Federalisti per l’occasione, è arrivato il momento di scrivere la pagina più bella della Storia europea.
Segui i commenti: |