Il mantra dell’austerità

, di Michele Ballerin

Il mantra dell'austerità

In un senso molto profondo, siamo tutti un po’ responsabili di questa crisi. L’enorme produzione di credito che ha sostenuto le economie occidentali nell’ultimo decennio, per supplire a una crescita stentata, ha fatto comodo a tutti. I governi potevano riposare su un quadro ancora accettabile dei PIL nazionali, le banche centrali trasmettevano bollettini rassicuranti dal fronte dell’eterna guerra all’inflazione, le banche private macinavano profitti, le imprese sopravvivevano e i cittadini risparmiavano, o perlomeno arrivavano alla fine del mese. La nostra economia riposava così su un materasso di debito – cioè su uno stock di moneta in gran parte priva di valore, su un vero e proprio capitale fantasma – e dormiva sonni discretamente tranquilli. Finché, nell’autunno del 2007, i galli del mercato finanziario hanno cominciato a cantare: era il mattino di un brusco risveglio. All’alba i fantasmi sono soliti svanire: e così è avvenuto alla ricchezza illusoria che aveva cullato il nostro sonno, a tutta la moneta prodotta senza il corrispettivo reale di uno sviluppo adeguatamente sostenuto.

In un certo senso si può quindi parlare di responsabilità collettiva, o, se si preferisce, di responsabilità del sistema.

Però non si deve neppure esagerare nel livellarne il carico. Perché un conto è il cittadino comune, non particolarmente versato in dinamiche macroeconomiche e sottigliezze tecnofinanziarie, un altro è il banchiere, o l’intermediario, che crea moneta di credito a piacimento e gestisce i risparmi del cittadino per lucrarvi sopra. Una cosa è il lavoratore che cerca di tutelare i propri modesti risparmi dall’inflazione e li affida a una banca, altra cosa è il funzionario della banca centrale che veglia sull’andamento delle transazioni finanziarie, mentre si erigono un po’ ovunque cattedrali di credito su fondamenta fragili o inconsistenti, sotto l’occhio distratto o compiacente dei governi.

Suona perciò un po’ debole, oggi, la pretesa di ipnotizzare l’opinione pubblica europea con il mantra dell’”austerità”, intesa come la necessità di “tirare ulteriormente la cinghia” e rivolta, implicitamente ma evidentemente, al contribuente medio. Che quest’ultimo abbia trascorso gli ultimi dieci anni fra orge e dissipazioni è cosa che non può risultare a nessuno. Che i manager dell’alta finanza continuino a pasteggiare a champagne come nei decenni passati, invece, è cosa che risulta a chiunque. Ora le nubi vanno addensandosi sempre più nere, ma non sul loro capo, con ogni evidenza. E allora?

Allora, nulla di quanto sta accadendo in Grecia dovrebbe avere il potere di stupirci. Una politica economica che pretenda di ridursi al taglio degli stipendi e all’aumento delle tasse in una società impoverita è più che stupida, è irresponsabile. Significa dare il colpo di grazia alla domanda interna e vanificare l’effetto – per la verità modesto – che le esportazioni stanno avendo nell’alleviare la crisi. Chiedere un sacrificio simile senza offrire in cambio una concreta promessa di miglioramento non ha semplicemente senso. Inoltre, è immorale: e questa non dovrebbe essere l’ultima delle ragioni.

Che ci aspettino in ogni caso tempi duri, tempi austeri, è fuori di dubbio. Ma ad un’unica condizione i cittadini greci e quelli europei potranno e dovranno accettarli: se le classi dirigenti europee metteranno in campo una politica che sfondi la parete ermetica del futuro e apra una prospettiva di sviluppo. E questo – se lo scolpisca nella mente ogni uomo di buona volontà – potrà avvenire solo se la politica europea saprà compiere senza ulteriori esitazioni il salto sovranazionale, cioè federale. Perché solo un grande piano federale, una vera politica industriale europea potrà consentirci di affrontare la più grave sfida economica del XXI secolo, che è il rilancio dello sviluppo sui binari della sostenibilità. Nel frattempo, tutelare il più possibile i redditi medio–bassi, a spese di quelli inutilmente alti, e mettere il guinzaglio ai disinvolti prestigiatori del credito facile sarà il meno che si possa fare.

Finché questo non accadrà, i furori della piazza saranno, per quanto distruttivi e inconcludenti, più giustificati dell’ignavia dei governanti, e in definitiva, perché non dirlo, più morali.

Immagine: disordini ad Atene. Fonte: Flickr

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