In sostanza la Missione delle Nazioni Unite in Kosovo si ritirerebbe lasciando molte delle proprie funzioni direttamente al Governo del Kosovo. Contemporaneamente verrebbe creato un International Civil Office (ICO) guidato dall’Unione europea con il ruolo di supervisionare l’applicazione dello status e non più di legiferare come è stato in questi anni. L’UE ha iniziato i preparativi per gestire questo passaggio all’inizio del 2006, costituendo in aprile lo “EU planning Team for Kosovo” con il compito di disegnare la nuova missione.
Ma sui limiti di questo ruolo di controllo le interpretazioni sono molto diverse e sono oggetto di un continuo dibattito. I vertici di UNMIK (la Missione dell’ ONU in Kosovo) enfatizzano la portata del ritiro della comunità internazionale, facendo intendere che il governo kosovaro avrà ampi poteri e l’Europa, per bocca del diplomatico svedese Torbjörn Sohlström [2], capo dell’ICO Preparatory Team, precisa: “Ora UNMIK è letteralmente padrone di tutto quello che succede in Kosovo, e questo è quello che cambierà con il nuovo status”. L’UE ha tuttavia fatto capire che si riserva prerogative tutt’altro che marginali. È sempre Sohlström, attraverso una metafora calcistica, a chiarirne i termini: “La comunità internazionale si appresta a lasciare il ruolo di presidente della squadra per assumere quello di allenatore”. Detto diversamente, però, “l’UE avrà il potere di dimettere i vertici del Governo kosovaro se valuterà che essi non rispettano l’applicazione dello status, ed avrà potere di veto nelle materie ad esso correlate come la protezione delle minoranze, la decentralizzazione amministrativa e lo stato di diritto”.
La classe politica kosovara minimizza i poteri dell’ICO e vive già nell’illusione dell’indipendenza. Secondo il vice-Primo Ministro Haziri [3]“non è corretto parlare di alcun potere di veto”. Ma la società civile ha espresso le proprie perplessità e teme che in realtà l’ingerenza della comunità internazionale non venga meno. Il Movimento “Lëvizja VETËVENDOSJE!” (“autodeterminazione”, in albanese) ha ripreso provocatoriamente la metafora di Sohlström chiedendosi chi sia a questo punto il padrone della squadra.
Perché se i padroni sono finalmente i kosovari, allora essi dovrebbero anche avere il potere di dimettere l’allenatore. Altrimenti vuol dire che l’allenatore continua a fare anche il presidente.
Il movimento, protagonista negli ultimi tempi di azioni spettacolari contro l’UNMIK e recentemente vittima di una violenta repressione da parte della polizia delle Nazioni Unite [4], si batte contro la proposta di Ahtisaari e mette in guardia dalle possibili conseguenze di una sua applicazione. Come spiega Albin Kurti [5], leader della protesta, oltre al problema dei poteri che rimarranno in mano all’ICO, “a preoccupare è il progetto di decentralizzazione inserito nel piano dell’UNOSEK: se verrà applicato, esso rischia di generare tensioni incontrollabili tra la popolazione albanese e quella serba, portando ad una palestinizzazione del Kosovo. Questo è quello che vogliamo evitare, ma per farlo bisogna bloccare l’implementazione dello status”.
La delicata questione della decentralizzazione
Il secondo aspetto centrale nel piano di Ahtisaari è la decentralizzazione amministrativa. Una decentralizzazione che vuole garantire alla minoranza serba, oggi raccolta in enclavi soprattutto nel nord del paese e fortemente legata al governo di Belgrado, un’autonomia da Pristina nel nuovo Kosovo “indipendente”. Alle 5 municipalità attualmente a maggioranza serba ne verranno create in aggiunta altre 8.
La comunità serba guarda al progetto alternando alla diffidenza la speranza di rimanere sotto l’influenza di Belgrado. Buona parte della popolazione albanese, invece, accecata dalla luce dell’indipendenza e convinta che con essa tutti i problemi scompariranno da un giorno all’altro, non presta molta attenzione alla questione della decentralizzazione. Tuttavia gli argomenti di Kurti appaiono fondati: “la logica di questa decentralizzazione è esclusivamente su base etnica, gli albanesi da una parte, i serbi dall’altra, e le nuove municipalità finiranno per tagliare i contatti tra alcune zone a maggioranza albanese e il resto del paese (vedi mappa). È in queste zone che il rischio di tensioni tra le parti sarà maggiore. E da una scintilla può nascere un nuovo incendio”.
Un errore che non solo potrebbe costare caro alle prospettive di convivenze pacifica, ma che, secondo un altro leader di Lëvizja VETËVENDOSJE!, “rispecchia in buona parte i piani della Serbia per la partizione del Kosovo” [6]. Un progetto, quello della divisione territoriale, a cui Belgrado non ha mai nascosto di ambire (il nord del paese dentro i confini serbi, e un Kosovo indipendente dai confini ridotti) e che alla minoranza serba piacerebbe. Ma che la comunità internazionale ha sempre considerato un’opzione fuori discussione: vorrebbe dire ammettere che otto anni di presenza della Nazioni Unite a Pristina non sono bastati a creare le fondamenta per uno stato multietnico. Accettare il fallimento e andare tutti a casa.
Naturalmente l’UNOSEK non dà credito alle previsioni funeste di Lëvizja VETËVENDOSJE!, ribadendo che la proposta è equilibrata e non porterà ad alcuna partizione del Kosovo. La stessa posizione che assume il governo di Pristina: secondo Haziri “la decentralizzazione amministrativa servirà appunto a prevenire che questo avvenga” [7]. C’è solo da augurarsi che abbiano ragione.
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