Kosovo, l’ora della verità tra tensioni e speranze (I)

La comunità internazionale e i negoziati sullo status futuro del paese. Il ruolo dell’UE nella gestione della crisi.

, di Luca Trinchieri

Kosovo, l'ora della verità tra tensioni e speranze (I)

Nelle prossime settimane il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si dovrà esprimere sullo status futuro del Kosovo, che dal 1999 è sotto l’amministrazione provvisoria dell’UNMIK, la Missione dell’ ONU in Kosovo. In gioco c’è l’indipendenza, che quasi tutti a Pristina danno per certa ma che dipenderà in definitiva dalla volontà di Cina e Russia, entrambe interessate ad evitare un precedente che possa assecondare le ambizioni di Tibet e Cecenia, e legate (soprattutto Mosca) da solide alleanze con Belgrado. E il Cremlino ha ribadito ancora la settimana scorsa che a meno di un accordo condiviso dalla Serbia, di fatto fuori da ogni previsione, userà il proprio potere di veto. Intanto la tensione a Pristina cresce in maniera preoccupante: il 10 febbraio scorso due giovani manifestanti sono rimasti uccisi in scontri con le forze delle Nazioni Unite; una settimana più tardi due macchine dell’ONU sono saltate in aria nel centro della capitale.

La situazione attuale rispecchia tutti gli errori che la gestione della comunità internazionale ha accumulato negli anni, innanzitutto la mancanza di lungimiranza politica. Da “liberatrice” quale è parsa agli occhi della popolazione nella primavera del 1999, è riuscita a trasformare l’immagine di sè in “occupante”, rimandando di anno in anno una soluzione definitiva della crisi eppure non smettendo mai di promettere l’indipendenza come imminente. È indicativo il fatto che nell’ultimo anno a Pristina si parlasse di negoziati per lo Status “finale” del Kosovo, mentre il linguaggio usato dai paesi del Contact Group (USA, UK, Francia, Germania, Italia, Russia) fosse quello di Status “futuro” del Kosovo. Sembra un dettaglio, ma esso mostra perfettamente come la comunità internazionale abbia parlato sempre due lingue diverse, una in Kosovo ed una al di fuori. Ora questi nodi stanno venendo al pettine, perché la lingua che conta, nelle prossime settimane, è quella parlata nel Consiglio di Sicurezza. A rimetterci, in tutto questo, rischia di essere un’intera popolazione illusa e preparata ad un’indipendenza che rischia di non arrivare.

Il teatrino dei negoziati

I negoziati sono iniziati a gennaio 2006, quando è stato costituito l’Ufficio dell’Inviato Speciale delle Nazioni Unite per lo Status del Kosovo (UNOSEK) sotto la guida dell’ex presidente finlandese Martti Ahtisaari. Oltre a Belgrado e Pristina vi hanno partecipato i paesi membri del Contact Group. In teoria essi si sarebbero dovuti concludere entro la fine dell’anno, ma l’approvazione lo scorso ottobre della nuova Costituzione Serba (che definisce il Kosovo parte integrante della Repubblica Serba) e le elezioni parlamentari previste per il 21 gennaio scorso hanno provocato uno slittamento di qualche mese. In un clima già surriscaldato la proposta di Ahtisaari avrebbe fatto del Kosovo l’unico argomento della campagna elettorale, attirando ancora più consensi verso le posizioni ultra-nazionaliste del Partito Radicale Serbo (SRS), peraltro uscito vincitore dalle urne. E così Ahtisaari ha atteso lo scorso 26 gennaio a rendere pubblica la proposta dell’UNOSEK [1].

In realtà non è esagerato considerare il 2006 come un anno perso. Le posizioni con cui Belgrado e Pristina si sono seduti al tavolo non erano compatibili. Dal primo incontro ad oggi non c’è stata alcuna evoluzione né si è giunti ad alcun compromesso. Si è semplicemente cristallizzata la contrapposizione tra le due parti, tra l’intransigenza serba del “tutto fuorché l’indipendenza” e la fermezza kosovara del “nient’altro che l’indipendenza”. Di fatto le parti non hanno mai preso sul serio le negoziazioni, e il testo che ne è risultato è in sostanza un lavoro quasi esclusivo del team di Ahtisaari, che si è sforzato di immaginare una soluzione accettabile dal Consiglio di Sicurezza.

A leggere tra le righe, forse era proprio questo l’obiettivo: far passare l’anno. Prendere tempo, in altri termini, per preparare l’indipendenza sul piano internazionale, soprattutto con Russia e Cina. Far maturare l’accordo all’interno del Contact Group, sapendo che Belgrado e Pristina, comunque, non avrebbero mai trovato alcun punto di contatto.

Il testo è ora al vaglio delle parti, per un ultimo round di negoziati. Una missione di diplomatici europei sta passando queste ultime settimane nei Balcani nel tentativo di spingere verso un compromesso che possa mettere il punto alla questione. In realtà Ahtisaari stesso ha dichiarato di non aspettarsi cambiamenti di sostanza: è impensabile, a questo punto, andare al Consiglio di Sicurezza con un piano condiviso.

In maniera molto più sottile, tuttavia, l’UE sta provando ad esplorare un’altra strada per ottenere un sì dalla Serbia: quella che passa dalla riapertura dei negoziati sull’accordo di associazione con l’UE, fino ad oggi congelati per la mancata consegna di Mladic al Tribunale per i Crimini nell’Ex-Jugoslavia. Alcuni paesi europei (tra cui l’Italia), infatti, hanno mostrato nelle ultime settimane la volontà di riaprire i negoziati anche in mancanza di un impegno serbo nella consegna del Generale. Ma in questo caso, essi chiedono che Belgrado ceda sulla questione del Kosovo. Una sorte di scambio. Un baratto nella più antica tradizione diplomatica. E un altro punto a favore di Belgrado è arrivato questa settimana dalla Corte Internazionale di Giustizia: a Srebrenica si è trattato di genocidio, ma la Serbia non ha colpe. A voler essere maligni la si potrebbe definire l’ultima offerta affinché la Serbia si decida a mettere il proprio sì in calce al piano di Ahtisaari.

L’Europa, otto anni più tardi

L’Unione europea, dunque, si trova ad agire come il principale e più autorevole interlocutore. Ma non ha ancora raggiunto una posizione univoca. Essa è divisa al proprio interno tra la posizione di Spagna, Grecia e Romania, contrarie a qualsiasi forma di indipendenza per il Kosovo, e quella degli altri membri, favorevoli alla soluzione proposta da Ahtisaari.

I problemi più grandi, tuttavia, potrebbero arrivare in caso di mancata approvazione del piano da parte del Consiglio di Sicurezza. In un simile scenario, infatti, le divisioni interne potrebbero pesare notevolmente. Vi sono buone probabilità che nel caso di un voto negativo all’ONU il Kosovo si avventuri nella strada di dichiarare unilateralmente l’indipendenza. È prevedibile, in tal caso, che alcuni paesi dell’area ne riconoscano la sovranità, mentre la Serbia potrebbe reagire minacciando un intervento armato. Si tratta di tutti i presupposti per lo scoppio di un nuovo conflitto. E l’Europa? Ha la risposta pronta per fronteggiare questa eventualità? E soprattutto, ha una risposta condivisa da tutti i propri membri? Pare di no, ed è forte il rischio di ripetere l’errore di otto anni fa, quando essa si è mostrata incapace di reagire lasciando fare il lavoro a Stati Uniti e NATO. Ora ha l’opportunità per dimostrare di essere evoluta sul piano politico dal 1999. Ma superare questo mese delicato senza traumi e controllando le tensioni è più difficile di quanto possa sembrare.

L’immagine è proprietà dell’autore dell’articolo.

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Note

[1La proposta di Ahtisaari non parla letteralmente di indipendenza ma di «sovranità controllata», mantenendo alcune materie sotto la supervisione della comunità internazionale, ma dotando comunque il Kosovo degli elementi tipici di uno stato sovrano: un esercito, una costituzione, un inno, una bandiera. Inoltre essa include esplicitamente la possibilità per il Kosovo di dichiarare l’indipendenza una volta che il piano sia stato adottato dal Consiglio di Sicurezza. Per un’analisi più approfondita si legga la parte II di questo articolo.

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