Dopo la solita lunga maratona negoziale, venerdì 8 febbraio è stato raggiunto un accordo sul Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) 2014-2020, con un tetto agli stanziamenti di impegno fissato a 960 miliardi di euro (rispetto a una proposta della Commissione di 1.047,7 miliardi), mentre gli stanziamenti di pagamento scendono a 908,4 miliardi, con un taglio del 3,5% rispetto al QFP 2007-2013.
Il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy ha rilevato che “non si potevano ignorare le realtà economiche estremamente difficili dell’Unione”. In realtà, proprio tenendo conto di queste difficoltà si deve dire con chiarezza che ancora una volta il risultato di questo negoziato è fallimentare, anche se alla fine del Vertice tutti i protagonisti si sono dichiarati soddisfatti. Fra questi anche il premier Monti che, convertitosi al principio del juste retour, ha sottolineato come l’Italia abbia ottenuto “un più equo bilanciamento dei nostri contributi”. E parole analoghe sono state pronunciate dagli altri leader. Ma nessuno ha avuto il coraggio di dire che le scelte fatte erano le migliori nell’interesse dell’economia europea e dei cittadini dell’UE a 27.
La verità è un’altra e molto semplice. Cameron si è presentato al Consiglio europeo dicendo con chiarezza che non avrebbe firmato un accordo che prevedesse una spesa superiore a 908 miliardi. E in effetti questa è la cifra su cui alla fine vi è stata la convergenza di tutti, non tanto perché le indicazioni del governo britannico fossero corrette, quanto perché chi si presenta al negoziato con la ferma determinazione di porre il veto, alla fine ottiene il risultato voluto. L’UE, per quanto riguarda il bilancio, ha ancora una struttura confederale e il rischio di un veto da parte di uno dei grandi paesi costringe gli altri ad accettare il suo punto di vista. Ha quindi vinto ancora una volta la Gran Bretagna e ha perso nuovamente l’Europa.
Ma in realtà la posta in gioco era diversa dal solito. Dopo cinque anni di crisi l’economia europea è spossata e le speranze di una forte ripresa si allontanano nel tempo. Solo la Germania chiude il 2012 con un buon risultato, legato soprattutto al successo delle sue esportazioni, che hanno generato un surplus commerciale di 188 miliardi. Ma nell’ultimo trimestre dell’anno l’economia tedesca ha registrato una contrazione dello 0,5% rispetto al trimestre precedente. Ben peggiore è tuttavia la situazione dei paesi più deboli. In Grecia il Pil si riduce per il quinto anno consecutivo, con una perdita cumulata di Pil dal 2008 al 2012 superiore al 20% e una caduta nell’ultimo anno del 6% (dopo il -7,1% del 2011). È vero che il disavanzo pubblico, che aveva raggiunto il 15,6% nel 2009, è sceso al 6,6% nel 2012, con una riduzione record di 9 punti percentuali, ma nello stesso arco di tempo il tasso di disoccupazione è salito dal 7,7% del 2008 al 23,6% del 2012! Sperare che vi possa essere un ulteriore consolidamento fiscale senza un rilancio dell’economia è evidentemente del tutto irrealistico, se si vuole evitare il rischio di un collasso della democrazia in Grecia.
Da queste considerazioni emerge con chiarezza che l’Europa non può riprendere un cammino di crescita economica e di sviluppo politico in un quadro a 27. Con la Gran Bretagna non si va avanti. Occorre quindi valutare seriamente la prospettiva di un rafforzamento in direzione federale della zona euro (inclusi i paesi che mostreranno la volontà di parteciparvi), mantenendo l’acquis communautaire per tutti i paesi dell’Unione. Per quanto riguarda il bilancio UE è evidente che rimarrà confinato entro i limiti attuali, intorno all’1% del Pil europeo, e servirà a finanziare le politiche già attivate, ma senza poter dare alcun contributo alla ripresa dell’economia europea e alla transizione verso un nuovo modello di sviluppo.
Da questa vicenda si possono trarre infine tre conclusioni. La prima riguarda la necessità di promuovere il varo di un bilancio separato dell’eurozona, aggiuntivo rispetto al bilancio dell’UE a 27 e finanziato da una tassa sulle transazioni finanziarie e, a medio termine, da una carbon tax, per finanziare un piano di sviluppo europeo capace di garantire, mobilitando anche risorse private, un volume di investimenti pari almeno all’1% del Pil europeo. La seconda riguarda l’urgenza di portare avanti la roadmap indicata nel rapporto Van Rompuy, presentato al Consiglio europeo di dicembre, per arrivare all’elaborazione di un nuovo progetto di riforma istituzionale finalizzato alla realizzazione di una struttura autenticamente federale dell’area euro. La terza riguarda il Parlamento europeo, al quale spetta, in base al Trattato di Lisbona, approvare a maggioranza il QFP: la prova del bilancio può consentire di verificare la reale volontà dei parlamentari di Strasburgo – come è già avvenuto in occasione del progetto di Trattato di Altiero Spinelli – di battersi per un’Europa democratica, federale e capace di garantire lo sviluppo e la transizione verso un’economia sostenibile.
Segui i commenti: |