L’adesione della Turchia all’Unione europea: la storia infinita

, di Salvatore Sinagra

L'adesione della Turchia all'Unione europea: la storia infinita

Fin dal 1964 esiste un accordo di associazione tra la Comunità europea e la Turchia, nel 1987 Ankara chiese di aderire alla CEE, era un’altra era geologica, esisteva ancora il Muro di Berlino. Mai vi è stato processo di allargamento tanto lungo. Se alla Slovenia sono bastati tre anni per staccare il biglietto d’ingresso per la “casa comune”, nel 2017 ne saranno trascorsi infruttuosamente trenta da quando la Turchia ha bussato alla sua porta.

Non più di sei anni fa la partita sembrava si potesse chiudere in poco tempo con l’ennesimo successo di Erdogan, l’adesione era stata benedetta da George Bush, da una influente fetta della destra francese, Chirac in testa, e da quasi tutto il mondo politico britannico; un uomo come Fini, quando ancora strizzava l’occhio alla destra più tradizionale affermò che la Turchia era uno stato più liberale in economia di quelli europei ma era un Paese assolutamente democratico, addirittura il pontefice Benedetto XVI si espresse positivamente sul dialogo Turchia-UE.

Vi era un ampio consenso politico, ma il progetto era contestato dall’opinione pubblica di alcuni rilevanti Paesi: in Francia per paura di una nuova ondata di “immigrazione islamica”, in Austria per antichi dissapori addirittura risalenti all’assedio ottomano di Vienna. Erano gli anni immediatamente successivi alla bocciatura della costituzione europea e alle polemiche sull’identità cristiana dell’Unione Europea. Lo stesso Chirac fu costretto a correggere il tiro promettendo ai francesi che il suo eventuale si sarebbe passato per un referendum. Il suo successore Sarkozy, che è sempre stato particolarmente attento ai sondaggi, ha liquidato la questione con l’Unione del Mediterraneo, fallimentare progetto di dialogo con il mondo arabo che ha avuto il non trascurabile e voluto effetto di fermare la Turchia ai confini dell’UE. Ciò non significa che inequivocabilmente Sarkozy e i leader europei allora sbagliarono.

Anzitutto aprire le porte alla Turchia avrebbe comportato una ridefinizione del concetto geografico e politico di Europea. La Turchia è solo per il 3% in Europa; è già, come altri Stati che è dubbio siano europei, nel Consiglio d’Europa, che non è un’istituzione dell’UE ma un’organizzazione internazionale di promozione delle democrazia; ma una cosa è l’UE e altra cosa è il Consiglio d’Europa. Non è irragionevole pensare che i leader europei, attorno un nucleo duro, vogliano propiziare una serie di cerchi concentrici (espressione presa in prestito da Chirac) tramite accordi di partenariato con singoli Stati, la Russia per esempio, o insiemi di Stati, come i Paesi arabi.

Nel 2006 la Commissione europea chiese al consiglio di negoziare l’adesione della Turchia all’UE, rilevando che Istanbul aveva conseguito notevoli progressi. I commentatori più o meno esperti non tardarono ad affermare che in realtà veniva premiato l’impegno, non i risultati, poiché se da un lato era vero che il premier Erdogan aveva traghettato il paese nella sua seconda democratizzazione e laicizzazione, dopo quella degli anni Venti e Trenta ispirata dal padre della nazione Mustafa Kemal Ataturk, dall’altro veniva rilevato che i progressi della Turchia erano ancora dubbi e modesti con riguardo alla parità di trattamento delle donne, al ruolo dell’esercito, al rispetto delle regole stabilite dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Chiaramente alla metà dello scorso decennio si erano percepite le grandi potenzialità di crescita del grande e popoloso paese dell’Asia minore, qualcuno ha addirittura osato affermare che la “Turchia Europea” avrebbe aiutato a stabilizzare il Medio Oriente.

Se gli aspetti economici della questione appaiono abbastanza inconfutabili, e molti analisti economici prospettano per la Turchia un futuro tra i Paesi più dinamici e influenti al mondo, si veda a proposito questo articolo di Ernesto Gallo e Giovanni Biava, pubblicato da Eurobull il 5 aprile del 2013, più controversa è la questione politica, poiché il “matrimonio” con la Turchia porterebbe l’UE a confinare con Paesi instabili come Siria, Iraq e Iran, renderebbe la Turchia a maggioranza musulmana il secondo più popoloso paese della “casa comune” europea e il primo esercito di terra dell’Unione europea farebbe capo ad un paese filoamericano.

Non è un caso che l’iperinterventista George Bush jr. avesse invitato i capi di governo europei a dimostrare che l’UE non è un club basato sulla religione. Tuttavia tali questioni sono oggi congelate, per via dell’inversione a u della Turchia, Erdogan l’autorevole è diventato Erdogan l’autoritario. Oggi sembra lontanissima la seconda metà dello scorso decennio, le strade di Istanbul somigliano più a quelle delle capitali africane della primavera araba, che non a quelle di una capitale europea.

Allora qual è la conclusione? Bisognava aprire le porte dell’UE alla Turchia anche se ad altri Paesi con gli stessi limiti o in condizioni migliori (Croazia per esempio) si chiedeva di aspettare? Bisognava risolvere la questione dei confini dell’Europa non sulla base di criteri geografici ma sulla base di presunte esigenze di stabilità politica? A parere di chi scrive la strada non è questa. È per me assolutamente irrilevante la religione professata dalla maggior parte dei turchi, tuttavia non sono mai stato un supporter dell’adesione di Ankara all’UE, sia perché non è giusto transigere sul rispetto dei criteri di adesione all’UE per ragioni strategiche, sia perché l’allargamento a est ha dimostrato che portare nell’UE paesi di dubbia stabilità non vuol dire automaticamente democratizzarli, l’esempio sotto gli occhi di tutti è quello ungherese ma ve ne sono altri, sia perché, prima di far entrare nella casa comune la Turchia, l’UE deve decidere cosa “vuol fare da grande”. Se nel mondo dei prossimi decenni le cancellerie d’Europa vogliono contare qualcosa si deve pensare ad una politica estera comune decisa a maggioranza, nell’attuale Unione la Turchia probabilmente remerebbe nella direzione opposta, attenta a preservare il suo rapporto con gli Stati Uniti.

Importanti esperti di politica dell’Europa dell’est affermano per esempio che una seria road map verso l’Unione europea nei primi anni Novanta per gli Stati nati dall’esplosione della Jugoslavia avrebbe evitato la guerra dei Balcani, seppure qualche minareto qua e la rende simili Istanbul e Sarajevo, la Turchia non è la Bosnia, non è un Paese con forti contrasti etnici e nessuno vuole improvvisare secessioni, tuttavia vi sono in Turchia pericolosi segnali di arretramento sul piano della democrazia ed è percepibile che il partito di maggioranza, o meglio il suo uomo forte, ha ben poca voglia di parlare con la metà del Paese che non l’ha votato. L’Unione europea deve evitare un’altra Bosnia, deve imporre una soluzione pacifica alla questione turca, non può permettersi ne di tollerare altri massacri ai propri confini, ne di subappaltare nuovamente la sua sicurezza agli Stati Uniti, ammesso che Obama abbia la volontà e sia nella condizione politica di intervenire. La Siria è stata l’occasione per dimostrare che l’UE non ha mai avuto una politica estera, la Turchia sia l’occasione per dimostrare che le cose possono cambiare.

Fonte dell’immagine: Flickr

Tuoi commenti
  • su 21 giugno 2013 a 15:05, di Franco Mollo In risposta a: L’adesione della Turchia all’Unione europea: la storia infinita

    L’articolo pone giusti problemi sull’UE e dei rapporti con gli altri paesi che hanno guardato all’UE con grande attenzione e interesse perchè poteva e doveva dare un grande contributo alle questioni sociali e di democrazia interna di questi paesi. Aver tenuto «in campana» questi paesi ha prodotto grossi problemi di responsabilitá dell’UE. Dal 2004 ho avviato una cooperazione culturale (scientifica e sportiva) con delle scuole della Turchia,Smirne e Manisa, con continue visite. Nel primo inontro (2005) avuto con autoritá scolastiche e universitarie locali e nazionali mi veniva posto con forza il problema della loro richiesta di adesione all’UE, perché per loro rappresentava un faro, integrazione. Da allora nei miei continui viaggi ho visto un paese in forte crescita economica, ed in particolare sull’istruzione. Lo scorso mese gennaio, durante un incontro con autoritá accademiche e giornalisti, ho chiesto loro quale fosse l’interesse di adesione all’UE, rispetto al 2005. La risposta è stata sigificativa, ovvero che pur guardando all’UE con interesse ma che al momento non era il caso, vista la crisi europea. Non mi aspettavo altra risposta. Altro problema che lascia perplessi è dato dalle manifestazione di piazza in Turchia per la democrazia, in una paese in cresita economica, mentre in Italia paese con «democrazia a servizio delle caste» con forte decriscita economica, tutto tace.

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