L’importanza di una politica ambientale davvero “europea”

, di Simone Vannuccini

L'importanza di una politica ambientale davvero “europea”

La riflessione teorica e la pratica rispetto alle politiche per l’ambiente trovano in Europa il proprio luogo d’eccellenza. Ormai da tempo l’Unione europea ha avviato dibattiti ed incontri, ha prodotto pubblicazioni e papers specialistici ed ha organizzato convegni e conferenze dedicate al problema ambientale. In quella che doveva diventare, secondo la fallimentare strategia di Lisbona (da non confondersi con l’omonimo Trattato e lanciata nella capitale portoghese nel 2000), “l’economia fondata sulla conoscenza più competitiva al mondo”, la consapevolezza del delicato rapporto tra l’Uomo e la Natura e la coscienza della forte interdipendenza tra dimensione economica, sociale e contesto ambientale sono ormai mature ed avanzate; il principio dello sviluppo sostenibile elaborato dalla famosa Commissione Brundtland delle Nazioni Unite (1987), e definito come “uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri” è stato ormai internalizzato dalle istituzioni locali, nazionali e sovranazionali ed è diventato uno dei “discorsi” prevalenti della politica, tanto che per ogni affermazione, decisione o attività è impossibile evitare un confronto con i criteri valutativi della sostenibilità.

Tre sono le conseguenza principali di questo successo “concettuale”: abbiamo già accennato alla diffusione (anche accademica) della questione ambientale, alla quale si aggiungono i riflessi sulla produzione e sull’industria ed, infine, le prese di posizione e le azioni portate avanti dalle istituzioni comunitarie; per quanto riguarda il sistema produttivo l’ambiente non è ormai più (o quasi) un costo o un’esternalità di cui non curarsi (la cui tutela può quindi essere scaricata sulla collettività), bensì una chiara opportunità di business da rendere fruttifera. Investire in sostenibilità (impianti solari, eolici, edilizia eco-compatibile, risparmio energetico ecc.) diviene giorno dopo giorno più redditizio. Per quanto riguarda invece il ruolo dell’Unione nel campo dell’ambiente e delle sue politiche è doveroso sottolineare da una parte l’istituzione – a seguito delle indicazioni degli accordi internazionali, primo fra tutti il Protocollo di Kyoto - del sistema europeo di “carbon emission trading” (ETS, European trading scheme), cioè il mercato delle quote di emissione (un meccanismo economico attraverso il quale tentare di ridurre le nocive emissioni di CO2, ritenute ormai dalla gran parte della comunità scientifica la causa principale dell’attuale e pericoloso processo di cambiamento climatico), e dall’altra il “pacchetto clima ed energia” varato dalla Commissione europea ed incentrato sul mediatico obiettivo del 20/20/20, ovvero “ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare al 20% il consumo di fonti rinnovabili” entro l’anno 2020.

I successi ottenuti dall’Unione nel campo della politica ambientale sono palesi e, come abbiamo detto all’inizio di questo contributo, l’Europa appare agli occhi del resto del mondo come l’area d’avanguardia nel perseguimento dell’obiettivo di un mondo sostenibile. Purtroppo i risultati devono essere sempre relativizzati in funzione di ciò che l’Unione dovrebbe e potrebbe fare se venissero rimosse tutte le condizioni limitanti che caratterizzano la sua natura ambigua, a metà tra una federazione (la politica monetaria è sovranazionale) ed una confederazione (palesata dall’esistenza del veto, dal potere di decisione ultimo nelle mani delle sovranità nazionali, dall’incapacità di andare fino in fondo con la cessione di competenze vitali per il futuro del Vecchio continente). I limiti della politica dell’ambiente in Europa mettono facilmente a nudo tutte le insidie del mero coordinamento: i passi avanti dipendono quasi sempre e soltanto dalla volontà attiva degli stati membri, e non appena una crisi o l’urgenza del momento rendono necessario che i governi nazionali dedichino maggiore (e populistica) attenzione alle proprie costituency (gli elettori), la tutela dell’ambiente e, più in generale, la dimensione europea della politica vengono messe da parte. L’esempio cronologicamente più prossimo di quanto detto finora è il ruolo da ancella che l’Unione europea ha giocano al vertice mondiale sul clima di Copenhagen (7-18 Dicembre 2009), dove il vecchio sistema degli stati nazionali europei è apparso ancora una volta come un relitto del passato ed un oggetto (non un soggetto) della politica globale, mentre le superpotenze nuove e vecchie si prendevano il ruolo di protagoniste proponendo un accordo molto riduttivo. A Copenhagen l’Unione europea, comunità senza statualità, senza potere e senza Costituzione, da avanguardia mondiale si è ritrovata improvvisamente retroguardia.

Una politica ambientale davvero “europea”, cioè sovranazionale, federale, sarà possibile soltanto quando l’Unione uscirà dalla sua sindrome da “grande Svizzera” e deciderà di prendersi le proprie responsabilità in un mondo sempre più interconnesso e complicato, dotandosi degli strumenti politici ed istituzionali necessari a portare a compimento il processo di unificazione iniziato ormai più di sessant’anni fa. Ma quali potrebbero essere i reali vantaggi di una politica europea sovranazionale, unica, cioè di un governo europeo federale anche per le questioni ambientali? Un esempio importante (perché con forti risvolti geopolitici) può essere individuato nel settore delle politiche energetiche (legate a doppio filo con quelle dell’ambiente). Se l’Unione europea non è altro che un meccanismo di cooperazione e gli attori principali della politica restano gli stati nazionali, allora ha senso parlare di “ritorno al nucleare”, protezionismo e nazionalismo energetico. Una volta chiarito però che i problemi ambientali ed energetici scavalcano continuamente i ristretti confini nazionali e che l’adozione di uno “sguardo nazionale” non fa altro che creare inefficienze e minare la competitività delle economie del Vecchio continente, l’unico modo per invertire il processo di declino delle società europee risiede nella Federazione europea; in questo senso, se intendiamo l’Unione come un’unica area politica, una macro-regione geografica, allora è possibile pensare ad una politica energetica fondata su specializzazioni – ovviamente non totali né esclusive - che rafforzino divisione del lavoro, efficienza e sfruttamento delle economie di scala sovranazionali: l’Italia potrebbe specializzarsi nella produzione di energia solare, la Germania ed i paesi scandinavi nell’accumulazione di energia proveniente da fonti rinnovabili (ad esempio l’eolico, cosa che già accade parzialmente), la Francia – sfruttando una competenza ormai decennale – potrebbe concentrarsi sul nucleare. Allo stesso modo in cui nel 1950 – fondando la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) – francesi e tedeschi misero in comune le proprie risorse, così oggi l’Unione potrebbe trovare nuovo slancio in una nuova condivisione, questa volta di natura “energetica”, una condivisione fondata sulla consapevolezza che la questione ambientale pone una sfida “esistenziale” ai paesi europei e che un’unione sempre più stretta è totalmente nell’interesse dei governi nazionali, i quali non possono più tutelare le proprie (inesistenti) sovranità nazionali senza mettere a rischio le conquiste di civiltà ottenute negli ultimi sessant’anni ed il benessere delle presenti e future generazioni.

Concentrandoci sulla dinamica dell’approvvigionamento, lo stesso esempio può essere visto da un’altra prospettiva, più geo-politica. In un’Unione europea confederale, in cui la politica energetica è affare esclusivo degli stati membri, nessun paese ha abbastanza potere per riuscire a dettare le “regole del gioco”, con la conseguenza di favorire i fornitori (Russia in primis) e dover fare spesso “buon viso a cattivo gioco” (si pensi ai negoziati sulla costruzione dei grandi gasdotti centro-asiatici). Al contrario, un’Unione federale, dotata di un governo con poteri limitati ma reali, di un’unica politica ambientale e di una sola rete energetica a) stimolerebbe lo sviluppo di grandi imprese continentali (rilanciando al contempo crescita, occupazione e ri-conversione ecologica dell’economia), b) diverrebbe un esempio ancora più reale e concreto per tutto il mondo e infine c) riacquisterebbe potere contrattuale, diventando la parte forte dei negoziati energetici e potendo così proporre senza paura la propria visione del mondo, mettendo in modo un virtuoso processo di democratizzazione regionale.

Conclusione: l’attuale Unione non ha il potere di fare quanto immaginato sopra. Per avere una politica ambientale veramente europea servono strumenti appropriati (ad esempio un bilancio molto più consistente, argomento che non trattiamo in questa sede) ed una chiara strategia politica. Ma gli strumenti e la strategia, così come la leadership, dipendono in gran parte dall’esistenza della Federazione europea, che ne rappresenta il presupposto; i temi dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile – oltre ad essere urgenti - sono in fondo grandi temi politici, perché richiedono scelte importanti da parte delle collettività, nonché l’elaborazione di una precisa visione normativa sulla realtà. Scelte e visioni non sono procrastinabili all’infinito: l’Unione deve diventare una Federazione per dare finalmente senso, valore e risposte efficaci alle sfide della questione ambientale e della sostenibilità.

Fonte immagine: Flickr

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