Da Ventotene un modello per il governo della globalizzazione

, di Adriano Cozzolino

Da Ventotene un modello per il governo della globalizzazione

Dagli inizi del processo di integrazione ad oggi, l’attuale è il momento storico e politico più difficile che attraversa l’Europa nel suo complesso. La crisi economica, oramai strutturale, costituisce il lessico comune dei paesi del vecchio continente e il connesso rischio default di alcuni di essi - tra i quali l’Italia -, con il pericolo del crollo della moneta unica, rappresenta una minaccia più che pressante sulle aspirazioni di una compiuta unità di tipo federale degli stati europei. Tuttavia, se i rischi costituiscono sicuramente un dato ineliminabile dei momenti di crisi – e tra questi, oltre al già menzionato crollo dell’euro, c’è il pericolo di una deriva nazionalista, xenofoba e autoritaria degli Stati nazionali, come nel caso dell’Ungheria – sono le opportunità che si aprono in tali momenti a determinare e rilanciare l’azione politica di un Movimento come quello federalista e dell’Unione in generale.

L’analisi della fase storica e le strategie di rilancio dell’azione europea, dunque, sono state le direttive fondamentali del trentesimo seminario organizzato dall’Istituto di Studi Federalisti “A. Spinelli” sull’isola di Ventotene. Federalismo e sussidiarietà, globalizzazione e pace, rivolte nel Maghreb e risposta europea, crisi economica e nuovi modelli economico-sociali sono alcuni dei punti che hanno caratterizzato le tematiche seminariali, unificate dalla costante necessità di rilanciare l’azione europea sia internamente, sia nelle relazioni internazionali – specialmente nei rapporti nuove potenze economiche emergenti come Cina e India.

Dunque la federazione, innanzitutto: una organizzazione su più livelli di potere indipendenti ma coordinati tra loro, basati su competenze specifiche, sulla pluralità dei soggetti rappresentati e sulla loro molteplicità storico-culturale, con la contestuale rinuncia alla sovranità nazionale per una sovranità generale europea rappresentano i cardini dell’idea di unione federale, unitamente alla redistribuzione fiscale delle risorse in nome del principio di solidarietà. Fondamentale, al tempo stesso, sono la democratizzazione delle istituzioni europee, da sottoporre al costante controllo democratico dei cittadini, e il processo di pace (perpetua, citando le parole di Kant) nel futuro mondiale.

In questo senso, se il fenomeno della globalizzazione ha rappresentato una “integrazione” economica incentrata sulle necessità dei grandi gruppi industriali multinazionali – spesso calpestando diritti e identità culturali locali – un cambiamento di tale modello impone che proprio la prospettiva federalista (in tal caso non solo europea ma mondiale), partendo dal rispetto delle identità locali, gestisca e coordini i processi di integrazione globale – i quali non possono essere lasciati ad un mercato senza regole e senza controlli – garantendo innanzitutto la pace tra i paesi e un modello di sviluppo in cui i paesi poveri non rappresentino soltanto un buon mercato del lavoro ad uso dell’occidente.

In che modo? Attraverso operazioni di peace building e non più soltanto di peace keeping– ossia attraverso l’uso della forza, addirittura “preventiva” –, atteso che nei luoghi in cui si prendono le più importanti decisioni politiche che incidono sulla vita di milioni di persone non vi sia ancora democrazia.

Se, dunque, la globalizzazione (fenomeno per definizione sovranazionale) va gestita e democratizzata, pensare che possano essere gli stati nazionali a farlo è un grave errore di prospettiva. Errore che, seppure sulla base di un fenomeno diverso, si è rivelato in tutta la sua portata nel caso delle rivolte susseguitesi in Maghreb. L’Europa, nel caso di specie, non solo non è riuscita a parlare con una voce unica lasciando prevalere gli interessi nazionali, ma ha mostrato come essa sia ben lungi da una reale ed efficacie coordinazione in politica estera.

Eppure, anche in tal caso le vicende nord-africane, così come il lento declino dell’egemonia statunitense in campo internazionale e l’emergere di nuove potenze come Cina e India mostrano come lo spazio d’azione di una Europa unita e federale si vada ampliando: la questione palestinese, ad esempio, potrebbe rappresentare un momento in cui l’Europa sperimenta la sua unità in politica estera, atteso il fallimento degli USA, garantendo finalmente la coesistenza di due popoli e due stati (ossia quello israeliano e quello palestinese).

Tuttavia, al di fuori delle pur fondamentali questioni di politica estera, è al suo interno che l’Europa deve sopravvivere alla prova del fuoco. La crisi economica rappresenta la minaccia reale sulla quale l’Europa intera rischia di implodere. L’aumento esponenziale dello spread(ossia del rendimento differenziale dei titoli di stato) tra Italia e Germania e il maggiore peso degli interessi sul debito pubblico italiano, il ruolo delle agenzie di rating internazionali e della speculazione finanziaria, il peso dei debiti delle banche – costantemente supportati dagli stati (specialmente USA) – nonché manovre finanziarie inique e fortemente depressive per i consumi e per la crescita rischiano di minare la tenuta dei paesi dell’eurozona: paesi come l’Italia o la Spagna sono troppo grandi per potere essere salvati, e un eventuale crollo potrebbe determinare il crollo della moneta unica (del resto una politica di soli tagli non può che aumentare i disavanzo nella bilancia dei pagamenti statali).

Il rischio c’è, dunque, eppure è fondamentale in questa fase comprendere le opportunità che si aprono nell’imminente futuro: la possibilità di una cambiamento del modello di sviluppo, in cui il rispetto per l’ambiente, una maggiore equità fiscale tra fasce più ricche e più povere della popolazione, più investimenti pubblici europei – tra cui in ricerca e sviluppo – e una crescita di servizi non di mercato sono proposte concrete per salvare realmente l’Europa.

Ciò sarà possibile, tuttavia, se si riuscirà a creare un Tesoro europeo e un debito pubblico europeo garantito da tutti i paesi, in cui gli organismi decisionali in cui vengono stabilite le direttive economico-politiche non siano organi tecnocratici ma istituzioni sottoposte al vaglio democratico di tutti cittadini europei. L’ipotesi degli eurobonds, ad esempio, oggi al centro del dibattito – unitamente ad un cambiamento del modello di sviluppo – può favorire la crescita dell’eurozona se questi strumenti finanziari verranno investiti per un piano di crescita e di sviluppo sostenibile.

È questo il momento in cui l’Europa deve compiere un salto di qualità verso il federalismo e la piena democrazia, ed è in questo momento che emerge la vera differenza tra progressisti e conservatori.

Immagine: foto «d’epoca»: edizione del 1999 del Seminario di Ventotene. Fonte: Flickr

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