Che cosa hanno in comune Vladimir Putin, Barack Obama, Xi Jinping, e Shinzō Abe, oltre ad essere tutti capi di Stato o di governo? I primi tre sono leader delle massime potenze militari mondiali; gli ultimi tre governano le massime potenze economiche. Tutti e quattro poi sono a capo di Paesi che si affacciano sul Pacifico; tutti e quattro sono stati eletti o ri-eletti nel 2012. Angela Merkel, David Cameron, Monsieur Hollande, Mario Monti, e tanti altri europei, hanno intanto osservato, da lontano, sempre più periferici, marginali. La battaglia del Pacifico ha inizio. Diamo uno sguardo a qualche attore.
Due anni fa Hillary Clinton annunciò al mondo la dottrina del pivot to Asia, la svolta americana verso il Pacifico. Che cosa ne è stato? Molte parole – contro la Cina, la Corea del Nord, Myanmar; e l’inizio di un massiccio programma di investimenti militari, che non pare né auspicabile (a meno di volere una nuova Guerra fredda) né facilmente realizzabile, visti i limiti della finanza pubblica e del decision-making statunitense. Obama ha raggiunto l’accordo sul ‘fiscal cliff’ nella notte di Capodanno, e si è trattato di un accordo a metà. Il debito pubblico USA a settembre 2012 era il 101.6% del Pil. Altro che pivot to Asia! In fondo, negli ultimi quattro anni il senso della politica estera USA non è stato affatto chiaro. Certo, Obama doveva chiudere con l’era Bush jr, e organizzare il ritiro da Iraq e Afghanistan, ma questo in fondo era già nei patti. Tra il resto, il neo Presidente non ha neppure chiuso Guantanamo. L’impressione è che sia l’amministrazione USA che una parte importante delle ‘forze profonde’ che l’hanno sostenuta e la sostengono abbiano peccato di inesperienza. L’elite della new economy che negli ultimi due decenni ha accumulato fortune incredibili (vi provengono 9 dei 20 statunitensi più ricchi, secondo Forbes, tra cui i vari Gates e Zuckerberg) è composta da neofiti delle relazioni internazionali. È lontana da Washington e non ha ispirato una chiara linea politica alternativa. Gli amici asiatici degli USA se ne sono accorti e, lasciati nell’incertezza, hanno scelto il nazionalismo.
Appena prima di Natale infatti le elezioni giapponesi e coreane (del Sud, naturalmente) sono state vinte da candidati di Destra. Shinzō Abe, il nuovo Primo Ministro giapponese, è considerato un falco ed in passato ha spesso assunto posizioni controverse, soprattutto su questioni militari. È ancora necessario che il Giappone resti un semi protettorato degli USA? Abe ha già trasformato l’Agenzia per la difesa in un vero e proprio ministero, cosa che fino a qualche anno fa sembrava impensabile. Se gli USA non danno segnali chiari, e Cina e Russia continuano a guadagnare terreno, il Giappone tenderà a fare da sé. Così pare di capire. E la Corea del Sud? Anche Seoul ha un nuovo Presidente, una donna, Park Geun-hye. Il fatto che sia figlia dell’ultimo dittatore militare di quel paese può anche non essere importante; lo è però il fatto che sia unanimemente ritenuta il politico più conservatore della storia recente della Corea del Sud. Forse anche i coreani si sentono ‘abbandonati’ da Washington?
Sorprendentemente, il giovane dittatore del Nord, Kim Jong-un, ha intanto tenuto un discorso di Capodanno dai toni insolitamente conciliatori. Viene da pensare che tanti, a cominciare dalla Cina che lo controlla, intendano mettere da parte un regime che continua a causare tensione internazionale ed in passato ha letteralmente portato alla fame milioni di persone. Una pacifica riunificazione della Corea potrebbe essere un successo per tutti, e a ben vedere anche per il trentenne signor Kim, che potrebbe trasformare il peso di un’eredita’ ingestibile in una fantastica opportunità di pace e sviluppo.
In realtà la questione coreana è anche legata ad un aspetto essenziale, dalla cui evoluzione dipende il futuro dei rapporti di forza mondiali: la questione energetica. E qui entra in gioco la Russia, che è il principale produttore di gas e petrolio dell’area e guarda al suo versante ‘Pacifico’ con grande interesse. Si parla di un gasdotto Russia-Corea del Sud via Nord oppure di un altro via Cina. A prescindere da considerazioni di tipo tecnico, vale il punto politico che la Russia non può certo pensare di ‘schiavizzare’ con la dipendenza dal gas Paesi come Cina, Corea del Sud o Giappone, che hanno ben altre risorse, tecnologiche e politiche, rispetto ai remissivi Paesi dell’Unione europea. Spesso sottovalutata, la Russia di Putin è protagonista attivissimo della politica internazionale (non si dimentichi la visita natalizia di Putin in India) e intende giocare un ruolo anche su scala globale. Come spiegare altrimenti il dispiegamento di navi militari russe di fronte alla costa siriana, annunciato da Mosca e previsto per fine gennaio? È vero che il regime di Assad è politicamente alleato di Mosca, ma è davvero necessario portare nel Mediterraneo orientale unità di tutte le flotte che compongono la marina russa, compresa quella del Pacifico? Si tratterebbe della più grande esercitazione navale russa dai tempi della Seconda guerra mondiale. Putin fa politica di potenza. La Russia intende dimostrare che c’è, piaccia o no. Mantenere una presenza in Medio Oriente è anche un modo per avere più carte da giocare nella partita del Pacifico.
Quella sarà la partita dell’anno, e probabilmente degli anni a venire. L’attuale lentezza degli USA fa pensare che Cina (che ora sta anche contribuendo all’ascesa delle ‘gazzelle’ africane’, i Paesi in crescita del ‘continente nero’) e Russia ne saranno gli attori principali, assieme al Giappone ed alla Corea del Sud. A parte il Gangnam Style, quest’ultima esporta prodotti Samsung – si tratta della più grande compagnia mondiale nell’elettronica – ed LG, giusto per fare due nomi. Ci sono poi Paesi emergenti come il Vietnam, un potenziale mercato di oltre ottanta milioni di persone già ora conteso tra Cina, USA e Russia, e ‘nuove Europe’ come l’Australia, che sta spingendo sempre di più in direzione Asia. La Prima Ministra australiana Julia Gillard ha appena proposto un documento strategico per insegnare in tutte le scuole almeno una lingua a scelta tra Cinese, Hindi, Giapponese e Indonesiano (Bahasa).
La ‘vecchia’ Europa invece non c’è. Senza un’unione politica difficilmente farà strada. Non basteranno auto tedesche o vini italiani; altri impareranno e ne faranno anche di migliori. Come non essere d’accordo con le parole lapidarie di Irvin Studin, docente all’Università di Toronto: ‘Europe, a non-player in Asian geopolitics’? L’Europa, appunto, non c’è.
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