Obama ha vinto le elezioni, evviva! Tutti gli italiani esultano, dopo che per giorni hanno seguito freneticamente ogni passo delle fasi finali della sfida alla Casa Bianca nel corso della quale hanno imparato i nomi dei più importanti Stati americani, hanno conosciuto il barbiere di Romney ed hanno osservato affascinati le star che sono scese in campo per sostenere i due sfidanti. Obama ha vinto ed ora siamo tutti contenti, perché un po’ ci è simpatico ed un po’ crediamo al suo messaggio di speranza.
Obama in realtà ha perso le elezioni. Per un semplice motivo: la Camera dei Rappresentanti è in mano ai Repubblicani, che tra due anni molto probabilmente conquisteranno anche il Senato (negli States funziona così: nelle elezioni di mid term chi governa perde quasi sempre). S enza la Camera dalla sua, Obama non potrà realizzare agevolmente la tassazione equa che ha promesso, non potrà portare avanti il progetto di estendere l’assistenza sanitaria e difficilmente potrà creare nuovi posti di lavoro tramite interventi statali.
A questo punto si dirà: “in America funziona diversamente rispetto a quanto accade da noi da noi, lì le forze politiche riescono a dialogare e trovano sempre un compromesso!”. È vero in generale ma è falso nel particolare, ovvero oggi. Oggi, infatti, il Partito Repubblicano ha adottato una filosofia ultraliberista, un po’ perché nostalgico dei tempi d’oro di Reagan, un po’ perché ha di fronte – almeno nella visione dei repubblcani – un ultrasocialista, Obama, che ha trasformato gli USA in uno Stato assistenziale con il programma MediCare e per farlo ha aumentato il debito pubblico e la tassazione, reati gravissimi per i liberisti! Il problema è che queste convinzioni sono condite con una preoccupante salsa di fanatismo che, oltre a spingere alcuni seguaci ad indossare imbarazzanti travestimenti, li porta a seguire fino alla fine la propria ideologia senza voler scendere a compromessi, nonostante ciò possa arrecare importanti danni allo Stato e, di riflesso, al mondo intero.
Ricordate l’estenuante trattativa riguardante l’innalzamento del tetto del debito? In pratica negli States vi è un valore massimo che il debito pubblico può raggiungere: una volta che viene sfiorato non è detto sia concessa la possibilità al governo di emettere nuovi bond per finanziare lo Stato. Un anno fa occorreva innalzare questo limite entro la data del 2 agosto, per far sì che gli USA potessero far fronte a dei pagamenti in scadenza: senza tale misura Washington, per la prima volta nella sua storia, sarebbe stata insolvente, con conseguenze inimmaginabili per l’economia mondiale. In quel caso i Repubblicani, ed in particolare i Tea Party, puntarono i piedi ed acconsentirono all’aumento del debt ceiling solo a fronte di tagli alle spese non pareggiati da nuove entrate per lo Stato. In pratica Obama il 1° agosto, a poche ore dalla catastrofe, dovette cedere su tutta la linea.
La Camera dei Rappresentanti, il ramo del Congresso che ha l’esclusiva sulla presentazione dei progetti di legge in materia finanziaria (ricordate la battaglia dei coloni americani scandita sul motto no taxation without representation?), è, come abbiamo detto, “in mano ai Repubblicani”. E già oggi, dopo qualche ora dalla vittoria elettorale, ci si rende conto di quanto sarà duro governare per Obama, che subito dovrà trovare una soluzione con il grand old party per evitare il fiscal cliff. Di cosa stiamo parlando? Di una serie di tagli e aumenti delle tasse che entreranno automaticamente in vigore il 1° gennaio 2013 se il Congresso non provvederà alla riduzione del debito pubblico. E già l’ansia cresce, dato che le agenzie di rating hanno minacciato di togliere agli States la tripla A se non si giungerà ad un accordo. E già possiamo immaginare su cosa i Repubblicani pretenderanno tagli; sullo stato sociale.
L’entusiasmo dimostrato per la vittoria (che è sicuramente monca) di Obama appare allora eccessivo – d’altronde noi italiani siamo abituati a buttarci nelle fontane per molto meno! – poiché avrà di fronte due anni davvero difficili, nei quali non riuscirà quasi sicuramente a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, mentre a noi toccherà vivere momenti di ansia come quelli già sperimentati nell’estate scorsa, visto che di certo i Repubblicani venderanno cara la propria pelle.
Per noi europei, poi, la vittoria di Obama non cambia nulla; l’Europa non era nell’agenda né dell’uno né dell’altro candidato, e già da un po’ non siamo più così importanti per il Presidente appena riconfermato. Infatti gli USA si sono disinteressati della crisi dell’eurozona, chiedendo solamente agli Stati membri di trovare una soluzione; hanno cercato un partner attivo nella risoluzione della crisi siriana in Ankara e non in Bruxelles; vedono, infine, spostare l’asse degli equilibri mondiali in Asia e non più in Europa e significativo è il fatto che nell’ultimo raduno della Clinton Fundation non c’è stato nessun intervento programmato di qualche relatore europeo e non si è toccato nemmeno il tema Europa (nonostante i nostri evidenti problemi). D’altronde tutto ciò è comprensibile: un’Unione Europea forte e coesa – ovvero, finalmente: gli Stati Uniti d’Europa – sarebbe il naturale competitor (e non alleato!) di Washington, come alcuni studiosi americani, in particolare Mearsheimer, dicono già da un po’.
Allora l’Europa e noi italiani, che tra qualche mese affronteremo un momento elettorale cruciale per la nostra storia, faremmo meglio a concentrarci più su noi stessi, pensando che questa crisi europea può essere risolta solamente superando l’ideologia della pura austerità – dalle forti influenze reaganiane – per recepire invece le proposte progressiste, che parlano di un’Europa più forte e con più solidarietà tra gli Stati membri; che cerca di trarre ispirazione in quegli Stati, più specificatamente quelli scandinavi e mitteleuropei, che ritengono il Welfare State imprescindibile. E dove nessuno propone un suo smantellamento; come in America.
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