Oltre gli eurobonds

, di Michele Ballerin

Oltre gli eurobonds

Alla vigilia dell’ultimo vertice franco-tedesco siamo stati informati che il presidente Sarkozy e la cancelliera Merkel avrebbero finalmente affrontato la questione degli eurobonds. Il presidente e la cancelliera hanno peraltro smentito che l’ipotesi degli eurobonds sarebbe stata oggetto dei loro colloqui, e al termine dell’incontro hanno tenuto a precisare che non ne avevano parlato. Morale: anche i sassi hanno capito, in Europa e all’estero, che all’ordine del giorno è il debito pubblico europeo come unica chance di salvezza per l’eurozona.

L’idea non suscita solo entusiasmi. Lodovico Pizzati su noiseFromAmeriKa, l’Economist in un editoriale senza firma e parecchi altri commentatori di vari paesi hanno espresso in proposito un certo ragionato scetticismo. Tutti costoro meritano una risposta amichevole.

La prima delle due obiezioni avanzate sull’Economist è che la Germania verrebbe penalizzata dall’emissione di un debito comune perché il rendimento dei titoli supererebbe quello dei bund di qualche punto percentuale, con un conseguente aggravio per le finanze pubbliche tedesche pari all’1,9 % del PIL. Ma armarsi di calcolatrice per misurare in anticipo le reazioni degli investitori è sempre un esercizio un po’ gratuito, tanto più quando è in gioco un’innovazione di portata storica come la creazione di una finanza pubblica europea. Io mi sento di scommettere che i rendimenti saranno più bassi, più di quanto gli analisti riescano oggi a immaginare. Perché? Perché il prestigio di un’Europa che facesse quadrato dietro il proprio debito condiviso varrebbe molto di più. Se qualcuno deve preoccuparsi non sono i tedeschi ma piuttosto gli americani, perché è facile prevedere che molti investitori, a cominciare dalla Cina, diserterebbero i T-bonds per gettarsi sugli E-bonds.

Centesimo più o centesimo meno, ad ogni modo, dobbiamo pensare che la Germania stia prendendo in giro se stessa. Altrimenti non avrebbe difficoltà a concludere che l’unica ottica ragionevole in cui considerare la possibilità degli eurobonds è quella dell’investimento – esattamente come fecero gli USA con il Piano Marshall. Gli ultimi dati sulla frenata del PIL tedesco hanno stupito molti, ma non chi aveva capito che anche per esportare servono consumatori. Nessuno è mai riuscito a esportare nel deserto: e se la Germania riuscisse a imporre la propria ossessione per i bilanci in pareggio al resto dell’Europa si darebbe una formidabile zappata sui piedi. O la Germania investe nell’Europa o il suo futuro è segnato.

La seconda obiezione, condivisa da Pizzati, è che paesi come l’Italia hanno bisogno di sentirsi a pochi passi dal baratro per convincersi a risanare i propri bilanci. Ma il problema è che se l’Europa non metterà al più presto in comune la propria sovranità politico economica (quella fiscale e finanziaria dopo quella monetaria) i paesi a rischio come l’Italia non si limiteranno a costeggiare il baratro: ci cadranno dentro. Sembra impossibile che qualcuno possa ancora illudersi sulle attuali prospettive economiche dell’Unione. Noi non siamo bloccati in un qualsiasi equilibrio, siamo su un piano che non cessa di inclinarsi, dentro un processo in via di accelerazione che presto si farà travolgente. Continuiamo a giocare con il fuoco, ma il tetto sta già bruciando. Che cos’altro dobbiamo aspettare? Possiamo fingere ancora, con il professor Boeri, che l’assurdo diktat tedesco dei tagli da 40 miliardi sia una richiesta da prendere sul serio e non una boutade da respingere, in attesa di una qualche proposta sensata e praticabile?

Obiezioni come quelle che ho riportato hanno una loro ragione e meritano di essere esaminate. Molti bravi economisti le impugneranno o ne avanzeranno di simili nei prossimi mesi; eppure basta un bravo marinaio per capire che il vento le spazzerà via. Un’occhiata alle condizioni della locomotiva franco-tedesca dovrebbe già essere sufficiente: il PIL tedesco ha perso il suo smalto e il debito francese rischia il declassamento. Non è il momento di perdersi in dettagli. Poco importa il calcolo al centesimo di quanto renderanno i bonds europei. Poco importa che a occuparsi in concreto di emetterli sia l’European Financial Stability Facility trasformato in un Fondo Monetario Europeo, la Banca Europea degli Investimenti o un’apposita agenzia. Sarebbe bene convincersi che l’aspetto decisivo è un altro. L’aspetto decisivo è il seguente.

L’idea di emettere titoli comuni nasce con Jean Monnet negli anni Cinquanta, venne ripresa da Spinelli trent’anni dopo per tornare in auge con maggior forza negli anni Novanta quando Jacques Delors, presidente della Commissione Europea, la fece propria e la mise sul tavolo del Consiglio dell’Unione. Ma ciò che conta è che l’idea non è mai stata fine a se stessa. La proposta di completare il bilancio comunitario con una parte in conto capitale era al servizio di un progetto di investimenti strategici su scala europea finalizzati allo sviluppo e all’occupazione: quello che nacque come Piano Delors e divenne pochi anni dopo, mutilo di questo indispensabile supporto finanziario, la cosiddetta strategia di Lisbona.

Erano tempi di vacche relativamente grasse, e nessuno avrebbe saputo evocare con l’immaginazione lo spettro di un default per uno qualsiasi degli stati membri. Oggi la situazione è radicalmente mutata, e l’ipotesi di un default a catena è molto più di uno spettro fra i merli di un castello: è una concreta minaccia. In realtà il quadro clinico è così chiaro che la diagnosi e la prescrizione vengono praticamente da sé: anche se i commentatori più scettici, il presidente Sarkozy e la cancelliera Merkel non sembrano averne ancora piena coscienza, gli eurobonds si faranno e perfino in tempi rapidi, lo vogliano oppure no.

Ma c’è una cosa, ben più rilevante, che davvero pochi sospettano. Quando l’andamento del PIL tedesco avrà finito di ammorbidire in Germania le ultime resistenze e la cancelliera Merkel, di concerto con il presidente Sarkozy, verrà a più miti consigli e metterà la sua firma sul progetto di una finanza pubblica europea, avrà l’impressione di piegarsi a una concessione straordinaria e di compiere un passo inaudito. Invece dovrà presto accorgersi che neppure questo sarà sufficiente, e che il debito comune sarà solo l’inizio. Perché dietro gli eurobonds avanza deciso – promettente o minaccioso a seconda dei punti di vista – il vero protagonista del dramma, quello che riempirà le pagine dei giornali europei forse già a partire da questo autunno, o al più tardi dall’anno prossimo: il Piano. Intendo il piano europeo di sviluppo al quale le menti più avanzate del fronte progressista europeo stanno già alacremente lavorando per trasformarlo in una precisa proposta politica: un secondo Piano Marshall – niente di meno – e non per la Grecia, per il Portogallo o per l’Irlanda, ma per l’intera Unione. Benché ancora non lo sappia, l’opinione pubblica europea è destinata a dividersi nei prossimi anni in due fronti opposti: i fautori del Piano e i suoi avversari. E in questa contrapposizione acquisterà di nuovo un senso preciso la necessaria dialettica fra destra e sinistra, fra conservatori e progressisti.

Questi erano il significato profondo e il valore politico della proposta di Delors, e questo è il senso degli eurobonds oggi. Se l’emissione di titoli federali dovesse servire soltanto a tappare i buchi dei bilanci a rischio non si tratterebbe di una soluzione ma di un espediente senza spessore e senza futuro, esattamente come la monetizzazione dei debiti da parte della BCE. Dagli statisti dell’Unione ci aspettiamo qualcosa di più.

Se l’idea del ministro Schäuble è che si deve realizzare subito l’unità fiscale oltre a quella di bilancio per poter emettere titoli comuni credibili e sostenibili, questa sarebbe alta strategia – purché non si perda neppure un giorno e si formulino proposte e scadenze precise. Se l’idea è di tenere alta la bandiera del rigore tedesco a qualunque costo, allora sarebbe un saggio di ottusità di cui nessuno sente il bisogno in un momento così drammatico.

Quello che oggi ci occorre, in verità, non è solo un piano Marshall, ma è lo spirito che animò quei giorni straordinari. L’Europa deve rompere gli indugi e tornare a credere in se stessa. L’opportunità di varare una politica industriale europea in grande stile, con risorse federali al servizio di un piano federale, non ci prenderemo la briga di dimostrarla con grafici e tabelle. Quando il colpo d’ala della grande politica batterà d’improvviso accanto a noi sapremo riconoscerla e risponderemo al suo richiamo. Forse dobbiamo ancora vuotare il calice fino alla feccia. Ancora un po’ di disperazione, ancora un po’ di angoscia… E poi ci decideremo a fare, tutti insieme, quello che semplicemente va fatto.

L’articolo è stato inizialmente pubblicato su iMille.org.

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