La riflessione federalista ha finora analizzato la crisi economica che – partita dagli Stati Uniti – ha colpito un Vecchio continente politicamente diviso e frammentato, e dunque vulnerabile, prevalentemente dalla prospettiva macroeconomica e istituzionale, concentrandosi sulla richiesta di una politica fiscale federale e di un grande Piano di sviluppo sostenibile come unica possibile via d’uscita alla recessione e alla depressione economica. Non appena iniziamo a pensare alla necessità di individuare le modalità concrete di rilancio dell’economia europea, ci accorgiamo che esiste un’altra dimensione economica che richiede un’approfondita analisi federalista: quella legata al funzionamento dell’economia reale e dunque all’elaborazione dei building blocks di una politica industriale federale europea (non per niente, lo Spinelli Commissario europeo fu Commissario per l’Industria e la Tecnologia).
I federalisti hanno fatto proprio il conciso motto suggerito da Tommaso Padoa-Schioppa “agli Stati il rigore, all’Europa lo sviluppo”, da intendersi come principio regolatore del funzionamento di una vera e propria economia federale. Se, da una parte, l’introduzione del Fiscal Compact, del Six pack e del Two pack – pur con tutti i limiti di legittimità e le tensioni istituzionali che la loro introduzione ha fatto emergere nell’Unione – hanno realizzato la prima parte dell’affermazione – “agli Stati il rigore” – delineando una sorta di “integrazione negativa” in cui i Paesi aderenti al patto sono regolati e vincolati come veri e propri stati federati, dall’altra i modi ed i poteri con cui si garantisce la seconda parte della frase – “all’Europa lo sviluppo” – restano ancora oggetto di dibattito (un dibattito con forti ripercussioni reali, il cui prolungarsi aumenta ogni giorno i tassi di disoccupazione e la bancarotta delle imprese).
Non si tratta soltanto di accelerare la crescita dell’economia, ma di ripristinare un enorme potenziale industriale già distrutto in questi anni di aspettative negative, crollo della domanda e degli investimenti strutturali. Per fare questo, la riflessione federalista deve incorporare teorie che spiegano i meccanismi della crescita economica non soltanto a livello aggregato, ma anche al livello delle singole industrie. Secondo uno schema stilizzato, che ricalca i primi dibattiti fra gli economisti dello sviluppo negli anni Cinquanta e Sessanta, due possono essere le “strategie” attraverso le quali lo sviluppo economico può essere alimentato: da una parte abbiamo l’ipotesi che un big push, ovvero una grande spinta generalizzata, sia sufficiente a spostare un’economia su una traiettoria di crescita sostenuta. Dall’altra, troviamo la concezione dello sviluppo squilibrato – prevalentemente costruita sul contributo di Albert Hirschman –, che mira a sfruttare le connessioni “a monte e a valle” dei diversi settori per mettere in modo una reazione a catena, intervenendo soltanto su alcune specifiche industrie, quelle più connesse con il resto dell’economia e dunque più capaci di svolgere un ruolo “trainante” dello sviluppo economico.
Entrambe le strategie appena suggerite sono state confermate o sconfessate empiricamente. La loro validità non è certamente universale, quanto piuttosto dipendente dal contesto istituzionale, storico e culturale in cui vengono messe in pratica. Nel quadro della riflessione federalista, la proposta del Piano di sviluppo così come delineata finora appartiene al dominio delle teorie del big push. Adottare una prospettiva più disaggregata come quella dello sviluppo squilibrato potrebbe però offrire nuovi spunti per l’elaborazione teorica e, soprattutto, aiutare il fine tuning di una politica industriale continentale.
Sviluppando una proposta precisa e microfondata per la politica industriale europea, i federalisti riuscirebbero ad entrare nel merito del dibattito economico riguardo il futuro dell’economia reale del Vecchio continente, affrontando da una prospettiva complementare i temi della solidarietà continentale, dei rapporti fra ricerca ed industria, degli squilibri territoriali crescenti, della divisione del lavoro a livello europeo, della “qualità” dell’occupazione – un tema strettamente connesso a quello, più generale e più nelle corde federaliste, della transizione verso un nuovo modello di sviluppo e benessere –. In particolare, un contributo federalista rispetto ai temi industriali li posizionerebbe al centro della riflessione sul ritorno del manifatturiero come motore dell’economia, dopo che il boom dei servizi ha dimostrato tutta la propria fragilità sotto la pressione della crisi. Capire la complessità della produzione industriale contemporanea in Europa, che è e dovrà essere prima di tutto produzione di conoscenza sulla frontiera tecnologica, deve diventare un punto fermo nella riflessione della forza federalista, che così potrà qualificare e rendere ancora più rilevanti e consistenti le proprie proposte in tema economico.
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