Tutti gli uomini del presidente?

, di Ernesto Gallo, Giovanni Biava

Tutti gli uomini del presidente?

Bill Clinton e George W. Bush se l’erano cavata prima. All’inizio del loro secondo mandato, a quest’ora, avevano già i loro uomini (o donne) al posto giusto. Ad esempio, Condoleezza Rice fu designata Segretario di Stato da Bush jr il 16 novembre. Ora siamo quasi a Natale, e Barack Obama è rimasto quasi solo. Che cosa è successo? Si tratta forse del chiacchierato «fiscal cliff»?

Quello del fiscal cliff è un problema serio, perchè se non venissero estesi i tagli fiscali dell’era Bush c’è il rischio concreto che l’economia USA vada in recessione. Il punto però è che il fiscal cliff, come altri problemi, è diventato motivo di uno scontro tra Democratici e Repubblicani che sta anche paralizzando l’amministrazione Obama, e con essa un’ampia parte di questo pianeta sempre più integrato. Ai Repubblicani ed alle forze che li sostengono, Obama non va proprio giù.

Gli effetti dell’attentato dell’11 settembre a Benghazi continuano a farsi sentire. Una maledizione. Prima è saltato Petraeus; poi Obama ha perso la sua preferita per la successione a Hillary Clinton, l’ambasciatrice all’ONU, anche lei afroamericana, Susan Rice. Rice è stata messa KO dalla forte opposizione di un gruppo di repubblicani, che non le hanno perdonato una serie di osservazioni vaghe e apparentemente contraddittorie subito dopo Benghazi. L’uscita di scena di Susan Rice, una diplomatica ancora inesperta ma capace, è però una sconfitta soprattutto per Obama. Dopo un mese e mezzo di negoziato, il presidente si trova senza uno dei suoi collaboratori più fidati.

Ai Repubblicani va molto meglio. Top of the list è ora John Kerry. Di lontane origini austro ungariche, è un Senatore di grande esperienza ed equilibrio. La sua nomina libererebbe un posto in Massachusetts, dove i Repubblicani contano su Scott Brown, che sembra avere buone possibilità di vincere l’elezione suppletiva. Kerry ha già collaborato con Obama, soprattutto su questioni afghane e pakistane, mentre in passato (nel 2004) fallì di un soffio la scalata alla Casa Bianca, battuto da George W. Bush. Il suo punto debole sembrerebbe una certa debolezza nel prendere decisioni. Ecco, quest’ultimo pare un problema degli USA di questi ultimi anni, ed in particolare dell’amministrazione Obama.

Sembra che l’America sia incerta, preoccupata, quasi spaventata del proprio ruolo. Anni fa Samuel Huntington scrisse un discusso articolo su The Lonely Superpower, in cui descrisse il senso di vertigine ed incertezza in cui l’unica superpotenza rimasta stava lentamente precipitando. Rimasti privi del nemico sovietico, gli USA non avrebbero avuto idee chiare su quale direzione prendere. Forse Huntington aveva ragione. Il problema è che oggi gli USA sono molto meno superpower; Cina, Russia, Brasile, India, e altri bussano alla porta, e Washington deve compiere scelte chiare.

L’altro candidato ad una posizione di rilievo (probabilmente Secretary of Defense) è...un Repubblicano, Chuck Hagel. Veterano del Vietnam, Hagel ne ha conservato un istintivo ripudio della guerra, diversamente dai numerosi «entusiasti» di un po’ tutte le ultime amministrazioni USA. Senatore del Nebraska dal 1996, è un politico accorto e realista, e già ora a capo del Consiglio Presidenziale dell’Intelligence. Un altro esperto repubblicano che potrebbe ottenere posti di rilievo è l’ex ambasciatore in Cina, Jon Huntsman. Il fatto che Obama debba guardare oltre i confini del proprio partito resta comunque un segno allarmante di debolezza presidenziale, e un segno di incertezza di fondo della politica USA, in un momento difficile in cui il mondo avrebbe bisogno di indicazioni chiare.

A poche settimane dalla rielezione di Obama, in più parti del pianeta abbiamo assistito ad un precipitare di eventi. Il presidente vorrebbe concentrarsi sull’economia e sui problemi di lavoro e infrastrutture, e puntare dritto all’Asia orientale disimpegnandosi dal Medio oriente. Già ora invece il vento non sta tirando in questa direzione. I Repubblicani non hanno digerito la tragedia di Benghazi, ed in suo nome hanno chiesto la testa di Susan Rice. Quelli di stampo «neocon» faticano a resistere alle sirene di Israele, e vorrebbero mostrare i muscoli tanto alla Cina come alla Russia – il nemico numero uno, nelle parole di Romney -. Qui infatti si sta assistendo ad una escalation dell’impegno occidentale in Siria, dopo circa settantamila morti e un accordo con Putin, probabilmente maturato durante la visita di quest’ultimo al Primo ministro turco Erdoğan dello scorso 3-4 dicembre.

Qualunque cosa succeda, le divisioni etniche e religiose della Siria rischiano di essere fonte di ulteriori e gravosi problemi. Tutto questo mentre l’Egitto potrebbe adottare una Costituzione di stampo islamico con un presidente, Morsi, che non ha disdegnato il ritorno a poteri dittatoriali. Poi c’è un certo Iran. Ci sono fondamentalisti islamici in giro per l’Africa sub-sahariana, specialmente nel Mali dove una democrazia fragile ma consolidata è stata travolta dal caos post-primavera araba. Se gli USA dovessero intensificare la produzione domestica di petrolio (e magari di shale gas, come sembra possibile), il conseguente calo dei prezzi delle risorse potrebbe mettere in crisi anche le monarchie assolute del Golfo.

Per riassumere: riusciranno gli USA a tenersi lontano dai guai del Medio oriente, a cui essi hanno in prima battuta largamente contribuito? Reggerà il tentativo di Obama di cavarsela con intelligence, interventi «coperti», velivoli senza pilota (i famigerati «droni») e altro ancora? Difficile dare risposte positive, anche perchè la strada della competizione con Cina e Russia passa attraverso le risorse e, dunque, in attesa dello shale gas, per il Medio oriente e l’Asia centrale. Gli USA hanno bisogno di chiarezza e leadership e politici realisti alla Hagel potrebbero essere più utili di finti idealisti o fondamentalisti fanatici. Il tempo però stringe. In tutto ciò, come è evidente, il ruolo dell’Unione europea è pressochè inesistente. L’UE si è accodata a Francia e Regno Unito nel riconoscere il governo siriano in esilio. Per fortuna, e’ stato raggiunto un accordo promettente sull’Unione bancaria, in cui un ruolo non da poco è stato giocato da un banchiere di qualità, Mario Draghi. Il Financial Times, che a ragione teme l’uscita del Regno Unito dall’UE, lo ha nominato «uomo dell’anno». Ancora una volta però elogiamo un non-politico, mentre le classi politiche dell’una e dell’altra sponda dell’Atlantico latitano.

Obama è in ritardo; a pochi giorni da Natale non abbiamo neppure i nomi dei nuovi responsabili delle cariche più importanti. Speriamo sia ancora in tempo a mettere in piedi un team che guardi oltre gli interessi di specifiche «parti» o di un solo Paese. Ne avremmo un dannato bisogno.

* Ringraziamo Vanna Pisa per il prezioso lavoro di ricerca.

Questo articolo è stato inizialmente pubblicato su Giovine Europa Now - Linkiesta

Fonte immagine Flickr

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