Vent’anni da Maastricht: una strada contorta che oggi passa per Atene

, di Alberto Giusti

Vent'anni da Maastricht: una strada contorta che oggi passa per Atene

Vent’anni fa, a Maastricht, i dodici paesi membri della Comunità Europea firmavano un trattato che avrebbe cambiato per sempre la vita di milioni di cittadini europei: il Trattato sull’Unione Europea. Era basato su tre pilastri: Comunità Europea; Politica Estera e di Sicurezza Comune; Giustizia e affari interni. Negli anni successivi, fu soprattutto il primo pilastro ad essere al centro dell’attenzione. La Comunità Europea si pose obiettivi importanti da raggiungere nel decennio successivo, in particolare la creazione dell’Unione Monetaria e il completamento del mercato unico.

Voglio rivolgere lo sguardo in particolare all’Unione Monetaria, poiché ormai da dieci anni gli euro circolano nei nostri portafogli e hanno condizionato, direttamente o indirettamente, il nostro modo di vivere, di viaggiare, e di pensare.

Il trattato di Maastricht poneva già nel 1992, al momento della firma, dei parametri molto stringenti per la gestione economica dei singoli stati: gli articoli 99 e 104 chiedevano di evitare disavanzi eccessivi e il non superamento dei rapporti del 3% deficit/Pil e del 60% debito/Pil: rapporti dai quali il nostro paese, in piena crisi del debito, era ben lontano. Si ponevano limiti anche al tasso d’inflazione, ai tassi d’interesse e alla fluttuazione del valore della valuta nazionale. Oltre a questo, si imponeva il divieto per le banche centrali di acquistare direttamente titoli di debito pubblico.

È lecito chiedersi (cosa che nessuno fa mai): che significato avevano quelle percentuali di 3 e 60? C’è forse qualche legge economica suprema che le rendeva uniche e imprescindibili? La risposta è no. Quei valori furono scelti in base alla situazione economica contingente e in un contesto di crescita. Un modello matematico utilizzato in tema di finanza pubblica, il modello di Domar, stima che il 3% è il deficit che stabilizza il rapporto debito/Pil al 60% ipotizzando una crescita del Pil del 5,26%, un valore che oggi ci sembra lontano anni luce e che dunque ha perso completamente di senso negli ultimi vent’anni.

Negli anni successivi, il Trattato ha subìto vari aggiustamenti, attraverso Patti e decisioni del Consiglio Europeo, che hanno portato queste norme prima verso una maggiore intransigenza, con la specificazione di meccanismi di controllo e sanzionatori; successivamente, con l’economia che nei primi anni 2000 andava peggiorando, e in particolare con la Germania e la Francia che non rispettavano il limite del 3%, le sanzioni non vennero applicate e le norme vennero piegate ad una maggiore flessibilità. Nel frattempo, l’euro aveva iniziato a circolare nelle nostre tasche, senza avere però tutti gli effetti sperati. L’economia entrava così in una fase di stagnazione, anche a causa dell’insicurezza e dei conflitti iniziati dopo l’11 settembre 2001.

Nonostante le varie modifiche, l’errore più grande mai colmato è stato la mancanza di una politica economica comune affiancata alla politica monetaria. L’assenza di una vera politica fiscale europea e la riduzione degli spazi di manovra in caso di recessione, imposta dai parametri, ci ha portati nel baratro in cui siamo oggi. Nemmeno il grande e complesso Trattato di Lisbona del 2009, occasione perduta per una Costituzione Europea, ha affrontato l’argomento, nonostante abbia rivoluzionato la struttura dell’Unione.

Nell’anno nero della crisi greca, il 2010, quest’errore è stato capito ma non lo si è voluto correggere. Invece che procedere verso l’unione economica e politica, la riforma del Patto di Stabilità decisa dagli stati è tornata su quel vecchio e ormai insensato parametro, il rapporto 60% debito/Pil, imponendone il raggiungimento il più velocemente possibile, attraverso la riduzione del debito in eccesso di un ventesimo all’anno. Per noi, già allora, significava una riduzione di circa 45 miliardi di euro all’anno per vent’anni. Ancora ci stiamo chiedendo se sopravvivremo ai tagli degli ultimi due anni, figuriamoci andare avanti così per altri diciotto.

Nonostante tutto, perseveriamo nell’assurdo. Il nuovo patto fra i paesi europei, il cosiddetto “fiscal compact”, firmato il 2 febbraio, contiene e rilancia questo schema di riduzione del debito, oltre a fissare stringenti limiti sul deficit (non superiore allo 0,5 all’interno di un ciclo economico) e a chiedere l’introduzione nelle costituzioni di ogni paese firmatario (25, non 27, perche Gran Bretagna e Repubblica Ceca non ci stanno) del pareggio di bilancio. I parlamenti dovranno ora ratificare il trattato. Insomma, dimentichiamo oltre un secolo di politica economica, dimentichiamo Keynes, dimentichiamo il welfare state: uno stato che non può investire a credito è uno stato che può agire solo se sta bene e che, se sta male, può solo suicidarsi. E in effetti un interessante esperimento di suicidio assistito è quello della Grecia.

La Grecia sembra un caso disperato. L’uscita dall’euro è inammissibile, l’hanno dichiarato tutti. Da quando la Grecia si finanzia con l’aiuto dei partner europei, piuttosto che col mercato i cui interessi erano diventati insostenibili, non è riuscita a ripartire. Ha aumentato le tasse, ha tagliato le politiche sociali, ha potuto continuare a pagare i dipendenti pubblici pur licenziandone soltanto mille, non ha ancora potuto far molto contro l’evasione fiscale, stimolata fra l’altro dall’inasprimento della tassazione. Oggi, prima di concedere il nuovo prestito di 113 miliardi, la Troika (Bce, Commissione Europea, Fmi) chiede nuovi, pesantissimi sacrifici, che iniziano a sembrare duri e poco accettabili non solo ai greci. Si chiede il taglio di 15.000 dipendenti pubblici entro il 2012, per arrivare a 150.000 complessivi in esubero entro il 2015; il taglio delle tredicesime e delle quattordicesime; la riduzione degli stipendi minimi sia nel settore pubblico che in quello privato. Insomma, 150.000 lavoratori in meno, in un paese di poco più di 11 milioni di abitanti, non sono uno scherzo per i consumi già messi a dura prova.

I tagli, di qualsiasi entità, non salveranno né la Grecia né l’Europa. Il debito non può essere ristrutturato promettendo su un pezzo di carta che berremo tutti un ventesimo di cicuta ogni anno per vedere quanto riusciamo a resistere prima di morire. Solo gli eurobond, l’unione economica e di bilancio, l’unione politica, possono tirarci fuori da questa spirale autodistruttiva. L’obiettivo che la Strategia di Lisbona poneva per l’Europa era di “divenire l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica de mondo, capace di una crescita economica con più e migliori posti di lavoro, e maggiore coesione sociale sostenibile”. Avremo mica sbagliato strada?

Immagine: una piastrella di un marciapiede di Maastricht, riportante la data dell’omonimo trattato (fonte: Flickr.com)

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