Barack Obama è l’uomo di una svolta storica, è la conferma delle energie di rinnovamento di un grande paese democratico: perché alla fine ha vinto proprio lui, il personaggio del cambiamento e della fiducia nel futuro, in cui gran parte del mondo sperava, a cominciare dal Vecchio Continente...
Si poteva certo condividere questa speranza, sulla base dei valori di tolleranza, dialogo e solidarietà su cui si fondava. E si può quindi condividere anche il sollievo per la vittoria elettorale che ne è conseguita.
Ma c’è forse un piccolo particolare che è sfuggito dalle nostre parti, in Europa. Lo notava già Niccolò Machiavelli, quasi certamente nel 1513 (Il Principe, Cap. XXV): «Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi».
Forse nel tifo della campagna elettorale non ce ne siamo resi conto, e nemmeno durante la lunga nottata di trepidazione in attesa dei risultati, ma la vittoria di Obama, per chi scommetteva su di lui senza essere cittadino americano, è del tutto un fatto di «fortuna»: esattamente come la vittoria della propria squadra di calcio. Noi non potevamo scendere in campo, non siamo andati a votare!
... non votiamo per un governo federale rispettato nel consesso delle potenze che decidono del destino dell’umanità! ...
Ma allora perché tanta attenzione attorno a questo evento interno di un paese amico? E che ne è di quella «metà» che la fortuna lascerebbe al nostro libero arbitrio nel governare le cose del mondo? Ahimé, poste le domande giuste, la risposta risulta evidente: se le elezioni americane rivestono così grande importanza per noi, se ammettiamo che il loro corso decide del destino del mondo, è perché sentiamo di fatto che gli Stati Uniti hanno una capacità di scegliere ed agire in modo efficace nel contesto globale e che le elezioni americane contano in quest’ottica molto più di qualsiasi delle elezioni nazionali che avvengono in Europa.
Dietro al tifo per Obama, si nasconde l’assuefazione di tutti gli europei a contare di meno nel mondo, ad affidarsi alla «fortuna», a rinunciare alla parte concessa al nostro libero arbitrio di essere padroni del nostro futuro: noi non votiamo per un governo federale rispettato e influente nel consesso delle grandi potenze che decidono del destino dell’umanità!
Ma bisogna guardare fino in fondo in faccia la nostra situazione. A chi si lascia andare in balia delle cose, anche la buona «fortuna» altrui può non essere sufficiente. Obama sarà per molti versi una presidenza ammirevole, una più sana politica statunitense potrà anche implicare una meno cruenta transizione agli equilibri di un mondo ormai multipolare. Ma si tratta del 44° Presidente degli Stati Uniti e ha legittimamente il dovere di non andare contro la ragion di Stato in nome della quale governerà: può agire con prospettive di più lungo termine, in cui è ovvio che il benessere degli americani dipende dalla sopravvivenza della specie umana, ma non gli si può chiedere di essere il Presidente del Mondo!
oggi è finito l’equilibrio bipolare, noi Europei non siamo più sotto la protezione degli Stati Uniti
Oggi che è finito l’equilibrio bipolare, noi Europei non siamo più sotto la protezione degli Stati Uniti, siamo un pesante e fastidioso fardello al loro traino. Se continueremo a rinunciare a fare la nostra parte, se non ci doteremo dei poteri democratici necessari e sufficienti a livello continentale, saremo anche il più grave danno alla capacità del mondo di andare verso un futuro di pace e di modelli di sviluppo sensati.
E saremo i primi a pagarne le conseguenze, perché la fortuna «volta e’ sua impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ ripari a tenerla. E se voi considerate» l’Europa, «che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna» con argini e ripari ridicoli.
1. su 7 novembre 2008 a 02:51, di Michele Gruberio In risposta a: A more perfect Union
L’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Obama è prima di tutto un evento profondamente simbolico: per il dialogo fra culture, per il «peccato originale» del razzismo americano, per la carica emotiva che ha accompagnato questa campagna elettorale, per mille altri motivi.
Mentre l’ondata neoliberista si spegne lentamente, colpita dai suoi stessi errori e dagli effetti delle crisi ambientale e finanziaria, Barack Obama introduce un nuovo linguaggio, un nuovo approccio, una nuova speranza nel sogno americano; le parole chiave del suo successo sono state hope e change, speranza e cambiamento, capacità di restituire anche all’uomo della strada la fiducia in una visione positiva del futuro, lontana sia dal manicheismo imperialista che dal nichilismo da «crisi della civiltà». Probabilmente il discorso più rappresentativo dell’anima «istituzionale» americana e maggiormente carico di contenuti politici fatto dal neo-presidente è quello tenuto il 18 marzo scorso al Philadelphia, dal titolo A More Perfect Union: in quella città, respirando l’atmosfera della Convenzione Costituente del 1787, Barack Obama ha ridato credibilità a quell’opera incompleta, a quell’«improbable experiment in democracy» che sono gli Stati Uniti d’America.
Purtroppo esiste anche una faccia negativa della medaglia, rappresentata questa volta da ciò che non è stato detto, dagli eventi lasciati in disparte; l’euforia per le elezioni non deve far dimenticare che l’amministrazione Bush ha ancora quasi due mesi di governo, durante i quali cercherà di sfruttare «al meglio» il tempo rimasto. Citando l’editoriale del New York Times del 4 novembre scorso:
While Americans eagerly vote for the next president, here’s a sobering reminder: As of Tuesday, George W. Bush still has 77 days left in the White House — and he’s not wasting a minute.
President Bush’s aides have been scrambling to change rules and regulations on the environment, civil liberties and abortion rights, among others — few for the good. Most presidents put on a last-minute policy stamp, but in Mr. Bush’s case it is more like a wrecking ball. We fear it could take months, or years, for the next president to identify and then undo all of the damage.
[...]
We suppose there is some good news in all of this. While Mr. Bush leaves office on Jan. 20, 2009, he has only until Nov. 20 to issue «economically significant» rule changes and until Dec. 20 to issue other changes. Anything after that is merely a draft and can be easily withdrawn by the next president.
Unfortunately, the White House is well aware of those deadlines.
Tornando alle elezioni c’è un’altra questione significativa da sollevare, un punto che va al di là dell’Oceano Atlantico per toccare alla radice la crisi del processo di integrazione europea: gli europei, e in particolare la classe politica, hanno molto da imparare da quello che sta accadendo in questi giorni negli USA, qualunque sarà l’effettivo proseguimento di questa nuova avventura umana. Non si possono vincere le sfide politiche nel tempo della globalizzazione senza offrire ai cittadini dei sogni nei quali credere e dei simboli intorno ai quali la comunità può ricostruire la propria identità condivisa; servono nuovi orizzonti e un nuovo coraggio politico, servono proposte forti e democratiche. Solo seguendo l’esempio della reazione americana l’Europa potrà fondarsi come Federazione, unita nelle sue diversità. E, magari, anche la futura Costituzione Federale Europea potrà iniziare con le parole: «We the people, in order to form a more perfect union...».
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