Accordo Serbia-Kosovo. Dove sta portando la strategia americana?

, di Silvia Ciaboco

Accordo Serbia-Kosovo. Dove sta portando la strategia americana?

It is a brave and historic move!. Con queste parole il Presidente americano, Donald Trump, ha commentato nelle scorse settimane l’accordo negoziato dagli Stati Uniti con Serbia e Kosovo, a soli sessanta giorni dalle elezioni presidenziali. In data 4 settembre, il presidente serbo Aleksandar Vučić e il premier kosovaro Avdullah Hoti hanno firmato, presso la Casa Bianca, un accordo di cooperazione, il quale giunge al termine di un percorso di negoziazioni condotto da Washington per tramite del proprio inviato speciale per il dialogo Serbia-Kosovo, Richard Grenell, nominato da Trump in ottobre 2019. Sebbene l’inquilino della Casa Bianca abbia affermato a più riprese la portata storica dell’accordo, enfatizzando come esso condurrà ad una normalizzazione dei rapporti economici tra Belgrado e la sua ex-provincia meridionale, nella realtà il documento sembra essere più una vittoria diplomatica facilmente spendibile da Trump a poche settimane dall’incontro con gli elettori americani, piuttosto che un accordo storico o un game changer per la situazione locale.

Se si guarda all’approccio adottato, gli Stati Uniti hanno deciso di procedere lungo una direttiva incentrata esclusivamente sugli aspetti economici, considerati appunto prioritari, e differenziandosi conseguentemente dalla strategia adottata da Bruxelles. L’Unione Europea, infatti, dedita dal 2013 a un’azione di avvicinamento tra le parti, avente lo scopo ultimo di normalizzare i rapporti tra Belgrado e Pristina ai fini anche dell’adesione delle stesse all’UE, si è da sempre mossa secondo un approccio che include anche taluni aspetti politici, tra cui i rapporti fra le diverse minoranze presenti nei due paesi, così come recentemente ribadito dall’Alto rappresentante dell’Unione Josep Borrell. In effetti, in molti hanno sottolineato come Serbia e Kosovo necessiterebbero di raggiungere dapprima una normalizzazione dei loro rapporti politici, destinando le questioni economiche a una fase successiva del loro percorso di distensione. [1]

Ciò detto, guardando ora all’accordo, è bene innanzitutto evidenziare che ciascun rappresentante dei paesi coinvolti è singolo firmatario di un documento separato, il quale presenta tuttavia, in entrambi i casi, il medesimo titolo (Economic Normalization) e contenuto, eccezion fatta per il punto concernente il rapporto con Israele. Ebbene sì, Tel Aviv, che pure non è tra i paesi che hanno preso parte ai negoziati, rientra nell’accordo firmato da Serbia e Kosovo. Tuttavia, prima di arrivare a trattare del suo ruolo in questa intesa, è significativo considerare la vaghezza che fa da protagonista nell’intera vicenda. In effetti, non è chiaro che tipo di vincolo potrebbe derivare dai documenti firmati, al di là del rappresentare una dichiarazione di intenti tra le parti, così come non è chiaro se gli stessi siano da sottoporre ai rispettivi parlamenti nazionali, ai fini della ratifica, oppure siano da considerarsi già validi e vincolanti. Evidente, invece, è il fatto che il vertice alla Casa Bianca non sia riuscito a produrre un accordo bilaterale. Peraltro, la scelta di ricorrere a questa insolita tipologia di documento ha evitato qualsiasi implicazione, ovvero interpretazione, rispetto ad un riconoscimento del Kosovo da parte della Serbia.

Circa il contenuto dell’accordo, è possibile individuare due principali macro-aree: l’una incentrata sui rapporti bilaterali tra Belgrado e Pristina, mentre l’altra attinente a questioni di politica estera. Procedendo per ordine nella lettura dei due documenti che, si è detto, essere pressoché identici, i primi punti riguardano una serie di impegni nell’ambito logistico e infrastrutturale, come l’espansione dei collegamenti stradali e ferroviari, che tuttavia rientrano all’interno di progetti che erano già stati approvati dalle parti. Dunque, pur confermandosi come elementi positivi ai fini di una cooperazione, ivi inclusa la collaborazione in tema di energia trattata poco più avanti nell’accordo, si tratta pur sempre di risultati che erano già stati raggiunti. Tutt’al più, i due Stati concordano nel reiterare gli impegni precedentemente assunti.

Laddove si afferma che gli Stati “will diversify their energy supplies”, non segue però una precisazione circa quali strategie ovvero secondo quali modalità tale diversificazione energetica dovrebbe essere condotta. E ancora, quando viene sancito l’impegno di entrambi i paesi ad aderire alla cosiddetta “mini-Schengen” nei Balcani occidentali, nella realtà si fa riferimento ad un progetto che, nato nello scorso ottobre, deve ancora dare conto della propria effettività.

Se quanto detto fino ad ora fa emergere una certa vacuità delle iniziative assunte nell’ambito della cooperazione tra Belgrado e Pristina, per quanto concerne la più ampia categoria della politica estera, le misure qui previste sono invece destinate a fare emergere una serie di criticità. Queste ultime deriverebbero dal fatto che, tramite tale accordo, Washington vincola i due paesi a uniformarsi ad alcune posizioni che gli Stati Uniti hanno assunto in ambito di politica estera, le quali tuttavia si distanziano sensibilmente dalle linee intraprese a sua volta da Bruxelles. Va da sé che, alla luce della candidatura all’adesione, Serbia e Kosovo sarebbero invece tenuti a perseguire politiche affini a quelle dell’UE. Anche in questo caso, gli impegni assunti sono molteplici, coinvolgendo il settore tecnologico, laddove le parti si impegnano a proibire la tecnologia 5G poiché “supplied by untrusted vendors”, fino al settore della sicurezza nazionale. Circa quest’ultimo punto, Washington chiede a Belgrado e Pristina di qualificare l’organizzazione sciita libanese Hezbollah come “terroristica”, ma che tale riconoscimento deve operare rispetto all’intero movimento e non, come è invece per l’UE, rispetto alla sola componente militare. Last but not least, la questione circa i rapporti con Israele, che si è detto essere l’unico punto di differenziazione tra i due documenti. Pertanto, mentre il Kosovo, che è a maggioranza musulmana, si impegna a riconoscere Israele (sulla base, come sempre, del principio di reciprocità), la Serbia si impegna ad aprire una propria Ambasciata a Gerusalemme entro il prossimo anno. Al di là di particolarismi e differenziazioni, ciò che conta alla fine è il riconoscimento che Belgrado e Pristina si impegnano a compiere nei confronti di Tel Aviv, con le relative conseguenze in termini di equilibrio nel Medio Oriente.

E dunque, anziché giungere al mutuo riconoscimento tra Serbia e Kosovo, si è giunti a quello con Israele, che neppure ha partecipato alle negoziazioni ma che, tuttavia, registra una nuova vittoria frutto ancora una volta dell’unilateralismo trumpiano. Conseguentemente, la questione assai delicata e complessa circa il riconoscimento del Kosovo, nonché della sua presenza sul piano internazionale, è semplicemente evitata dall’accordo o, per così dire, congelata. In altri termini, il documento introduce una moratoria dalla durata di un anno, durante il quale Belgrado sospenderà la propria de-recognition campaign nei confronti dell’ex provincia meridionale, mentre Pristina si asterrà dall’ottenere la membership presso nuove Organizzazioni internazionali. La soluzione proposta da Washington è, quindi, una non-soluzione. Il tema circa il riconoscimento del Kosovo è effettivamente complesso e dibattuto, anche all’interno della stessa UE, laddove figurano ancora cinque Stati membri (Spagna, Cipro, Grecia, Slovacchia e Romania) che negano tale riconoscimento. Al momento, il Kosovo è membro del Fondo Monetario Internazionale e del Gruppo della Banca Mondiale, a seguito dell’ammissione avvenuta il 29 giugno 2009, ma non delle Nazioni Unite. In una tale situazione, il Trattato sulla normalizzazione dei rapporti reciproci siglato a Bruxelles, nel 2013, da Belgrado e Pristina sembra essere il canale ideale lungo il quale continuare a procedere congiuntamente. In effetti, a pochi giorni dalla firma dell’accordo siglato sotto l’egida degli Stati Uniti, il Presidente serbo e il Premier kosovaro si sono nuovamente incontrati a Bruxelles, occasione nella quale si è svolto un incontro politico in presenza dell’Alto rappresentante dell’UE e il rappresentante speciale dell’UE per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák.

Considerare i risultati raggiunti durante tale round di dialogo non è però semplice, in particolar modo alla luce del fatto che, al momento, si può fare affidamento sulle sole dichiarazioni rilasciate dai rappresentanti dei rispettivi paesi. Secondo Florian Bieber, professore all’Università di Graz e membro di BiEPAG (Balkans in Europe Policy Advisory Group), il processo dell’UE proseguirà ma lentamente, tenuto conto di una serie di fattori tra cui la debolezza del governo kosovaro e le aspettative ancora assai diverse di entrambe le parti. In particolare, Bieber ha sottolineato che quanto avvenuto a inizio settembre, sia a Washington che a Bruxelles, non ha significato granché in termini di progresso verso la normalizzazione dei rapporti. [2] D’altra parte, c’è anche chi ritiene che l’aspetto positivo dell’accordo firmato alla Casa Bianca è che, essendo privo di reale sostanza, quantomeno non fa grossi danni. [3] Se dovessero generarsi delle reali conseguenze, queste verosimilmente sarebbero percepite maggiormente in Medio Oriente piuttosto che nei Balcani.

Note

[1Damnjanovic M., Trump was Real Winner from Kosovo-Serbia Deal, in Balkan Insight, 7 settembre 2020. Reperibile al link: https://balkaninsight.com/2020/09/07/trump-was-real-winner-from-kosovo-serbia-deal/

[2Maksimović S., Can We Expect Progress in the Belgrade-Pristina Dialogue?, in European Western Balkans, 10 settembre 2020. Reperibile al link: https://europeanwesternbalkans.com/2020/09/10/can-we-expect-progress-in-the-belgrade-pristina-dialogue/

[3Damnjanovic M., op. cit.

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