Dopo anni di trattative noiose, frustranti e sempre prossime al fallimento, l’accordo sulla Brexit è finalmente entrato in vigore all’inizio del 2021.
Sebbene le questioni non siano del tutto concluse e la quantità di nuovi accordi che dovrà essere varata o modificata è immane, almeno a livello simbolico le norme bilaterali regolanti l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sono una realtà.
Andiamo a vedere nella sostanza quello che comporterà per i cittadini e le imprese britannici ed europei e alcune immediate conseguenze.
Al di là delle minuzie, l’accordo si può dividere in tre macrocategorie principali: commercio, movimento delle persone e autonomia giudiziaria. Correlate a tutte e tre, ma trattate in maniera di fatto parallela, vi sono le questioni di Irlanda del Nord e Gibilterra.
Per quanto riguarda il primo punto, UE e UK essenzialmente sono entrati in un trattato di libero scambio, con la totale assenza di tariffe e quote sulle importazioni dei rispettivi prodotti.
La differenza con la situazione pre-Brexit è però considerevole ed è rappresentata dall’immenso ammontare di burocrazia ora richiesta per consentire l’accesso fisico dei beni importati alle dogane.
Questo tipo di procedure sta causando al momento considerevoli ritardi nella consegna delle merci, con le foto dei supermercati con reparti di frutta e verdura svuotati che stanno facendo il giro del mondo.
Volendo avere un punto di vista ottimistico, tuttavia, tali procedure sono sorgente di rallentamenti di questa portata perché sono affrontate per la prima volta dalla maggior parte delle parti coinvolte. È facile aspettarsi che, con il passare del tempo, l’accrescere di esperienze e know-how dovrebbe renderle più rapide.
D’altro canto però, anche un rallentamento di poche ore può significare la morte di un’industria se si parla di prodotti estremamente deperibili, come il pescato. È infatti questo uno dei motivi che ha portato alle recenti proteste dei pescatori scozzesi a Londra, insieme con il disappunto per i termini dell’accordo per quanto concerne lo sfruttamento delle acque territoriali britanniche.
L’industria ittica rappresenta in questo scenario un elemento politico particolarmente interessante, a dispetto del ruolo economico parecchio limitato: da decenni l’influenza che ha sul governo del Regno Unito è elevata (basti pensare a quando ha quasi portato alla guerra con l’Islanda) ed era tra i principali sostenitori dell’uscita dall’Unione Europea, divenendo ora però una delle maggiori forze di opposizione all’attuale stato dell’accordo (che, va precisato, per quanto riguarda la questione delle acque territoriali verrà rivisitato annualmente a partire dal 2026).
Detto del commercio, cosa è cambiato da questo primo gennaio 2021 per coloro che hanno cittadinanza europea o britannica?
Innanzitutto, con il venir meno della libera circolazione delle persone, significa che è richiesto un visto per poter avere una permanenza superiore ai 90 giorni.
In altre parole, per il turismo non vi è, sostanzialmente, nessuna differenza. Un altro discorso è però vero per coloro che lavorano, studiano o aspirano a farlo dall’altro lato della Manica rispetto a quello in cui sono nati, per i quali la situazione può essere parecchio diversa a seconda dei casi.
Per quanto riguarda gli studenti poi, il Regno Unito, con l’eccezione dell’Irlanda del Nord, è uscito dal programma Erasmus e ha in programma di farne uno proprio, senza blackjack e tutto il resto, ma dedicato a Turing.
Anche per chi lavora vi è un cambiamento rilevante, che è quello che concerne il riconoscimento delle certificazioni per svolgere determinate professioni, come il medico o l’architetto, che era automatico prima e non lo è più ora.
Infine, com’è facile immaginare, l’assicurazione sanitaria europea, vale a dire quella rappresentata dalla tessera sanitaria, smetterà di essere valida per i cittadini britannici al momento della scadenza della tessera stessa.
Il terzo punto principale e uno particolarmente caro ai pro-Brexit è quello dell’autonoma giudiziaria. Infatti, dall’inizio del 2021 il Regno Unito non è più soggetto alle sentenze della Corte di Giustizia Europea e ogni disputa che sorgesse con parti europee dovrà essere risolta da un arbitrato indipendente.
Cosa comporterà questo è difficile da dire al momento, visto che si sta entrando in un campo minato senza la guida di una giurisprudenza già esistente, se non nel paragone con quanto avviene nei confronti tra differenti nazioni extra-europee.
Quei conflitti sono però utilizzabili sono in maniera limitata come esempi di ciò che potrebbe avvenire, visto che il Regno Unito era soggetto alla legislazione europea fino a poco tempo fa (laddove, per fare un esempio, gli Stati Uniti non lo sono mai stati).
Gli esiti di questa conquista del Brexit saranno quindi pienamente giudicabili solo tra parecchi anni, quando un numero cospicuo di casi sarà stato risolto.
Le altre due spinose questioni dell’accordo sull’uscita erano la situazione di Gibilterra e quella dell’Irlanda del Nord.
Per quanto riguarda la prima, almeno per il momento, non solo il confine con la Spagna rimarrà aperto e all’interno dell’Area Schengen, ma membri del corpo europeo Frontex continueranno a operare all’interno della città sullo Stretto omonimo.
La questione dell’Irlanda del Nord è immensamente più complicata, dal punto di vista politico, sociale e legislativo.
L’intenzione dall’inizio è stata quella di evitare un “confine duro” tra le due Irlande, per evitare il riaccendersi di tensioni mai sopite e creare problemi considerevoli a tutti i lavoratori transfrontalieri.
Vi era però la questione doganale: infatti, l’assenza di un confine vero rendeva di fatto impossibile controllare l’ingresso di merci che adesso di fatto sarebbero state importate dall’UE al UK o viceversa.
Tra le varie soluzioni proposte, alla fine quella che l’ha spuntata è stata quella di separare i confini politici e quelli commerciali, creando una sorta di linea all’interno del Mare d’Irlanda, per cui tutti i prodotti che arrivano dalla minore delle Isole Britanniche alla maggiore, a prescindere che vengano da territori amministrati da Dublino o da Belfast, sono considerati come importati.
Varie fazioni politiche, per ragioni diverse, considerano questa decisione come un’estromissione dell’Ulster dal gruppo di nazioni che governano il Regno Unito. Ciò che si oppone, per motivazioni variegate, è che con questa soluzione si stia ponendo l’Irlanda del Nord in una situazione in cui sarebbe ancora soggetta alle legislazioni europee (incluse le sentenze della Corte di Giustizia), legislazioni che invece non sono più valide in Galles, Scozia e Inghilterra, nonostante una totale assenza di rappresentazione dei cittadini irlandesi all’interno delle istituzioni che emanano e giudicano quelle stesse legislazioni.
Non è un caso che alcuni vedano questo come l’inizio dell’inevitabile secessione di Belfast, una possibilità che, a giudicare da alcuni sondaggi del Telegraph, potrebbe divenire realtà, nonché un domino che potrebbe portare al crollo del Regno Unito come lo conosciamo ora se dovesse finire per coinvolgere anche la Scozia.
Ovviamente però, è prestissimo per fare valutazioni di questo tipo. Alla fin fine, nella quotidianità degli abitanti dell’Irlanda del Nord cambierà così poco che è difficile dire se e quando si creerà l’entusiasmo politico necessario per una tale decisione epocale.
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