Negli ultimi anni abbiamo assistito al diffondersi dei populismi che hanno avuto vita facile nel contesto di crisi economica e sociale seguito alla Grande Recessione, confrontandosi con una classe politica fragile e incapace di offrire una risposta chiara e efficace alle sfide caratterizzate dalla crisi. L’instabilità politica che ne è derivata ha portato le legislature ad essere più corte e l’opposizione ad essere sempre più pressante e meno collaborativa. Ciò si rifletteva nell’azione dei singoli governi, più sconnessa e meno coraggiosa, colpita da logiche di breve periodo e infiammata da dibattiti superficiali e ad personam. Così, si sono preferite politiche atte a riscuotere il favore del popolo nel breve periodo, in modo da non soggiogare alla retorica dell’opposizione e garantire la sopravvivenza dei governi per qualche mese in più. Ma la ripresa economica e sociale ha bisogno di una visione coraggiosa e lungimirante, caratterizzata da obiettivi necessari ma ambiziosi.
In questo senso, la pandemia globale ha spinto sull’acceleratore, obbligandoci sull’orlo del precipizio ad ammirare l’urgenza di un’azione coordinata e coesa a livello europeo. Lo stesso Mario Draghi nella lettera sull’emergenza pandemica al Financial Times adottava termini e toni di guerra:
Faced with unforeseen circumstances, a change of mindset is as necessary in this crisis as it would be in times of war. The shock we are facing is not cyclical. The loss of income is not the fault of any of those who suffer from it. The cost of hesitation may be irreversible. The memory of the sufferings of Europeans in the 1920s is enough of a cautionary tale. (Draghi, Financial Times, Marzo 2020)
Il carattere eccezionale dell’emergenza attuale, l’equità di fronte a una minaccia comune -diversamente rispetto al passato- e il “policy learning” derivante dalla crisi finanziaria globale ha indebolito la narrativa che distingueva tra governi affidabili e governi inadempienti e ha palesato la solitudine della politica monetaria Europea. Così, l’esigenza di una manovra fiscale condivisa si è introdotta sempre più nel dibattito, grazie soprattutto all’azione della Commissione Europea, che, in un panorama dominato dalle figure nazionali, ha saputo trovare la chiave di volta che formasse insieme la ripresa dalla crisi pandemica e le fondamenta per la futura società europea.
Il 2 maggio 2018 la Commissione aveva presentato la sua proposta per il prossimo Quadro Finanziario Pluriennale per il periodo 2021-2027, in cui vengono stabilite le risorse in mano alle istituzioni europee per sviluppare gli obiettivi e le prospettive del programma. Il Next Generation EU nasce proprio a cavallo dei negoziati per la definizione del programma e delle risorse proprie della Commissione. Con il cambio strutturale della narrazione e del dibattito sulle competenze dell’UE, si è arrivati alla realizzazione del più grande piano congiunto di investimenti nella storia delle istituzioni europee. Così, il 27 maggio 2020, la Commissione ha proposto lo strumento temporaneo per la ripresa Next Generation EU, dotato di 750 miliardi di euro, in aggiunta al rafforzamento del Quadro Finanziario Pluriennale. La battaglia per l’approvazione del nuovo piano si è poi risolta nella sua approvazione da parte del Consiglio Europeo, il 17 dicembre 2020, affinché si adottasse un’azione unica e coordinata, rapida e decisa; coesa nel raggiungimento di obiettivi comuni, in linea con le nuove sfide globali.
Questo progetto storico ha segnato un altro passo fondamentale nelle tappe dell’autonomia dell’Unione Europea rispetto agli Stati Membri: per poter avere sufficiente merito creditizio l’UE deve infatti dotarsi di sufficienti risorse, da qui “La decisione sulle risorse proprie della Commissione”, che ne prevede l’aumento fino al 2% del PIL Europeo. Al momento, i singoli stati nazionali stanno presentando i loro piani e una volta che la ratifica sulle risorse proprie della Commissione sarà varata da tutti gli stati membri -ci si aspetta entro giugno- la Commissione potrà pubblicare il programma di finanziamento per i prossimi sei mesi e iniziare a stipulare prestiti per un tetto di 800 miliardi di euro. Ci si aspetta che i primi fondi arrivino entro fine estate, raggiungendo un totale di 150 miliardi entro la fine dell’anno, così da portare il piano a una fase di pieno regime nel minor tempo possibile.
Dall’assorbimento dell’impatto economico e sociale causato dalla pandemia fino alla ristrutturazione del modello di sviluppo europeo, la strategia del Next Generation EU è ripartita in tre strumenti: il dispositivo per la ripresa e la resilienza, lo strumento di assistenza alla ripresa per la coesione e i territori d’Europa (REACT-EU), e ulteriori finanziamenti ad altri programmi o fondi europei quali Horizon 2020, InvestEU, il Fondo per lo sviluppo rurale, il Fondo per una transizione giusta. Ma il core del piano si trova nel dispositivo di ripresa e resilienza, che conta ben 672,5 miliardi, di cui 312,5 in sovvenzioni e 360 in prestiti. Il supporto finanziario è destinato a riforme e investimenti sia a livello locale, per rilanciare l’occupazione e la crescita, e contrastare emergenze sociali e ambientali del territorio, sia a livello pan-europeo, con la creazione di grandi infrastrutture e l’adozione di misure coordinate per raggiungere comuni obiettivi di sviluppo, sostenibilità e resilienza, primi tra cui la transizione verde e quella digitale. I sette obiettivi delineati, le cosiddette “flagship areas”, richiamano un approccio mission-oriented: orientare e coordinare le azioni delle strutture pubbliche e private verso un obiettivo chiaro, per vincere una sfida ben identificata. Un punto di forza di questo approccio è la capacità di mobilitare l’entusiasmo innovativo degli attori coinvolti, spesso operanti in settori diversi, ma caratterizzati da inesplorate interdipendenze e opportunità di interazioni simbiotiche. (Forum Disuguaglianze Diversità, 2019)
Tutte le flagship areas del piano europeo convergono nel paradigma emergente della recovery and resilience policy, perciò è necessario capire quali siano le caratteristiche fondamentali di un sistema resiliente e la complessità sia teorica che applicativa di un tale approccio. Il grado di resilienza di un sistema socio-economico viene definito rispetto a degli standard di sviluppo sostenibile che si vuole raggiungere. Infatti, una società ben fornita di canali di ingresso nel mercato del lavoro dopo la scuola sarà resiliente nei confronti della sicurezza occupazionale, ma non necessariamente nei confronti di altre sfide come la disuguaglianza economica. Alcuni dei principali obiettivi di sviluppo sostenibile che sono stati riconosciuti dalle istituzioni europee riguardano povertà, disuguaglianza, industria, innovazione e infrastrutture, sostenibilità urbana e comunitaria, e azione climatica. A seguito della grande globalizzazione dagli anni 70’ in poi, l’umanità ha mostrato una crescente vulnerabilità nei confronti di queste sfide e dei rischi che esse comportano. Mentre l’interconnessione e la complessità dei nostri sistemi socio-ecologici sono aumentate considerevolmente, legando in modo più intenso mercati, società e individui, la nostra capacità di comprenderne il comportamento non ha tenuto il passo. L’imprevedibilità di tali sistemi è perciò sempre più calzante; ne sono chiari esempi la crisi finanziaria e quella pandemica. Così, una maggiore incertezza a livello aggregato può portare nuove criticità sistemiche, e come l’instabilità politica e l’impatto climatico. Questi problemi hanno portato alla luce l’incapacità della narrazione politica ed economica affermatisi in Europa negli ultimi anni. Così l’ex-governatore della BCE affermava:
I modelli macroeconomici non sono riusciti a prevedere la crisi e sembravano incapaci di spiegare in modo convincente ciò che stava accadendo all’economia. In qualità di decisore politico durante la crisi, ho trovato i modelli disponibili di aiuto limitato. Anzi, andrei oltre: di fronte alla crisi ci siamo sentiti abbandonati dagli strumenti convenzionali. (Jean-Claude Trichet, Conferenza BCE di Francoforte, 18 November 2010)
Il cambiamento strutturale nella politica economica, sebbene lento e ancora incompleto, ha portato all’emergere di un nuovo paradigma nelle scienze sociali, intento a liberarsi dei limiti dei modelli tradizionali e determinato a fornirsi di apparati teorici adeguati a gestire l’incertezza del nuovo panorama ecologico sociale. In questo contesto si afferma una nuova definizione di resilienza, riassumibile in tre caratteristiche principali: diversità, modularità e ridondanza. La ridondanza e la diversità, utili a compensare tra loro debolezze e virtù delle singole parti sociali, sono proprietà fondamentali delle società, rappresentano la loro capacità di adattarsi a forti shock improvvisi e creano flessibilità sociale, politica ed economica. Si configurano con la varietà di abitudini, culture, modi di pensare e collaborare, la presenza di più vie alternative nello svolgere un determinato compito e la diversità dei processi ideati per il raggiungimento di obiettivi individuali e condivisi. Invece, la modularità esprime il grado di connessione dei diversi attori sociali ed economici, ma soprattutto la loro capacità di distinguersi in gruppi non comunicanti tutte le qual volte ci si trovi di fronte a un determinato pericolo di contagio. Un sistema, infatti, non dev’essere solo diversificato e coeso ma anche tempestivo e composto da comunità potenzialmente indipendenti, la cui sopravvivenza viene garantita anche in periodi di parziale isolamento. La crisi pandemica fa riflettere da questo punto di vista ed è un esempio palese di come, in sistemi con bassa modularità sia possibile l’emergere di effetti a catena, in grado di portare al collasso in breve tempo grandi sistemi di organizzazione. Molto simile nella sostanza a ciò che successe nel mercato interbancario quando la crisi finanziaria portò alla sfiducia tra attori istituzionali del mondo finanziario.
Fornire alla nostra società queste proprietà è la sfida fondamentale per l’Europa, e, se considerate sotto questa luce, le proposte individuate dalla Commissione nel Recovery and Resilience Facility acquistano ancor più di valore, intuizione e uniformità. In particolare, La Commissione ha individuato la transizione verde e quella digitale come passi essenziali per il perseguimento degli obiettivi europei di sviluppo sostenibile.
La transizione digitale ha come obiettivo lo sviluppo, l’implementazione e la diffusione di tecnologie che fanno la differenza nella vita quotidiana delle persone, aumentano la produttività delle imprese, incentivano la connessione e la comunicazione tra i vari attori del mercato e della ricerca. La transizione digitale ha riflessi importanti anche sulla gemella, quella verde, per esempio attraverso lo sviluppo di tecnologie e componenti microelettronici per impianti di generazione e stoccaggio di energia rinnovabile, o per sistemi di gestione dell’efficienza energetica negli edifici. Gli obiettivi individuati dalle transizioni gemelle, verde e digitale, si integrano con tutta la serie di misure per la resilienza sociale, la crescita e il lavoro, e non possono prescindere da esse. Per l’attuazione di questi grandi piani infatti sarà necessario creare nuove figure professionali e lavorative e rifornire la forza lavoro di nuove skill in linea con le necessità future del mercato, soprattutto in relazione ai settori della transizione verde e quella digitale. Un miglior incontro tra le abilità della forza lavoro e le skill richieste dal mercato supporterà il pieno utilizzo del capitale umano dei singoli paesi europei e aumenterà la partecipazione nel mondo del lavoro. Se vogliamo una società che sfrutti appieno i propri talenti e che contrasti la disuguaglianza, speciale attenzione dovrà essere dedicata a quelle figure che necessitano maggiormente di formazione, con minore accesso alle opportunità d’istruzione e di lavoro, inclusi adulti poco qualificati e migranti. La condivisione di obiettivi di sviluppo sostenibile e la concomitanza in un piano d’azione globale ha i vantaggi di mobilitare molte più risorse, di farlo in modo flessibile attraverso molti canali, e di creare forti sinergie tra una varietà di attori del mondo privato e pubblico. Questo piano risponde alla necessità di obiettivi ambiziosi e virtuosi, che spazzino via logiche di potere frivole a livello nazionale, e che tirino fuori il meglio del potenziale inespresso dei cittadini e delle parti sociali in seno all’UE. Ad oggi per l’UE, è necessario fondare un nuovo modello di cooperazione basato su una governance comune europea che resista al quadro finanziario pluriennale 2021-27. Abbiamo un disperato bisogno di progetti infrastrutturali paneuropei, che coinvolgano due o più paesi e producano effetti positivi per l’intera società europea. Dovremmo iniziare a considerare la resilienza, la cooperazione, la flessibilità sociale, lo sviluppo dello stato di diritto e il multiculturalismo come esternalità positive che trainano fortemente la crescita della società, esattamente come se fossero un bene pubblico accessibile a tutti. Affinché queste caratteristiche nascano e crescano nelle nostre comunità c’è bisogno che anche l’attuazione dei piani politici sia coerente con questi bisogni e questo tipo di cooperazione e coesione. L’eterogeneità, la mobilitazione comune e la coordinazione rappresentano caratteristiche basilari di una società resiliente e forte. Perciò c’è bisogno di un cambiamento strutturale del funzionamento politico e fiscale delle istituzioni europee.
La Commissione Europea rilancia la sua revisione della governance economica nel 2021 e molti vedono in questa occasione la possibilità di un cambio di paradigma del quadro fiscale, ma la nascita di una nuova era dell’integrazione europea sarà dettata dal successo del piano e dalla capacità di coordinamento dei singoli stati rispetto agli obiettivi individuati dalla Commissione. Al contempo è bene ricordarsi che, sebbene gli investimenti e le riforme nazionali saranno basate su linee guida delineate dalla Commissione, sarà il Consiglio a dare l’ultima parola sull’approvazione dei singoli piani di ripresa e saranno i singoli stati ad implementare le misure in modo isolato. Questo approccio, si dice, ha una ragione macroeconomica… io aggiungerei spiccatamente politica, e ad ogni modo resta soggetto a molti rischi.
Il valore aggiunto del piano potrebbe risultare limitato laddove i singoli paesi utilizzassero le risorse per finanziare progetti già in corso d’opera; la capacità di assorbimento degli stati nei confronti delle risorse e della visione del piano europeo potrebbe essere limitata, a fronte di un’incapacità delle organizzazioni nazionali di utilizzare le risorse a propria disposizione; il rischio che una distribuzione troppo esigua dei fondi su piccoli progetti senza una strategia comune potrebbe portare a un’allocazione errata delle risorse, che potrebbe finire per finanziare spesa corrente o piani di respiro nazionale. Sprecare le opportunità di crescita e coesione a nostra disposizione è adesso più rischioso che mai per la sostenibilità del debito futuro e soprattutto per la capacità di affrontare incombenti problematiche e rischi di ordine globale.
In quest’ottica, fornire alla Commissione maggiore indipendenza e risorse per il budget delle riforme e degli investimenti, in modo che possa agire su grandi infrastrutture e progetti europei in modo autonomo, è necessario. Non solo se ne avrebbe un vantaggio in termini di merito del credito, molto basso grazie alla fiducia riposta dai mercati finanziari nei piani della Commissione, e di flessibilità finanziaria, data dalla vasta diversificazione dei finanziamenti e dall’ottima strategia di reperimento dei fondi attuata dalla Commissione; ma anche in termini di competenze, accresciute dagli spillover tecnologici e conoscitivi, dall’integrazione delle soft sciences e delle hard sciences; sotto il profilo della crescita, data dal dislocamento di grandi energie e risorse sui progetti maggiormente innovativi e produttivi individuati dalla Commissione; e infine sotto il profilo della resilienza sociale, migliorando la mobilità dei cittadini e delle imprese tra i vari stati UE e lo sfruttamento di migliori condizioni lavorative e di vita, più adatte alla propria persona e al proprio sviluppo individuale e familiare.
Le ragioni per l’abbandono del modello di cooperazione vigente tra i singoli stati membri sono numerose, ma le frizioni politiche date dai governi sembrano ancora troppe per l’ardire di un processo costituente e di formazione diretto del potere politico in seno all’UE. La battaglia federalista in questo momento deve fondarsi sulla necessità di nuovi strumenti d’integrazione, di maggiore rappresentanza, di maggiore trasparenza da parte delle istituzioni. Viviamo in tempi interessanti, direbbe Žižek, la maledizione di vivere in periodi storici particolarmente complessi, di grandi cambiamenti. Adesso sta a noi decidere se preferiamo lasciare il cambiamento in balia degli eventi, oppure se vogliamo provare a indirizzarlo in una direzione più virtuosa.
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