Vi consigliamo di leggere questo breve commento in chiave federalista, redatto da Mario Leone (Vicedirettore dell’Istituto «Altiero Spinelli»), dell’ultimo libro di Wu Ming «La Macchina del Vento».
Nel romanzo è posto al centro il confino di Ventotene, ma non può passar inosservata anche una forte critica al «Manifesto per un’Europa libera ed unita», svuotato del suo significato storico e rivoluzionario, che ci lascia la sensazione di vederlo retrospettivamente appiattito sulla difesa dello status quo di un’Unione europea imperfetta e in fieri. Una narrazione che non ci convince.
Sono quattordici anni che questa storia accompagna l’autore, Wu Ming 1, oggi ne “La macchina del vento” (ed. Einaudi, 2019). Nel 2005 c’è l’idea di ambientare un romanzo a Ventotene che traesse però spunto da tante storie, dall’Odissea alla scomparsa di Majorana, all’arrivo sull’isola di confino politico negli anni ‘30 del secolo scorso di un fisico e una fantomatica macchina del tempo persa in fase di collaudo. Un libro che andrebbe letto dalla fine, da quelle riflessioni che l’autore inserisce nei “titoli di coda”. Perché questo lavoro è una concessione a due livelli: il primo è rappresentato da un cerchio di storie di personaggi che hanno animato il confino di Ventotene negli anni bui del secondo conflitto mondiale, dove Mussolini (Pasta-e-fagioli, come lo chiamano) relegava gli oppositori; il secondo è la fantasia, anzi la “fantasticheria”, di verghiana memoria dove si fa lo sforzo di comprendere la visione del confinato, un confinato in particolare che di nome fa Erminio Squarzanti.
Con ordine. “La colonia di confino del mio romanzo si discosta per molti versi dalla colonia di confino dei documenti”. Tra personaggi “inventati” e “episodi” assenti nella storia reale, forzature nei rapporti tra i confinati, questo lavoro lascia spiazzato il lettore. L’autore chiede scusa ai “cultori della materia, ai familiari dei personaggi realmente esistiti” per questo suo lavoro. E queste scuse giungono solo in fondo al libro (pag, 332-333). Ma avrebbero dovuto essere la premessa per una sana, lineare e più attenta lettura.
Erminio Squarzanti, giovane studente universitario socialista, è lo strumento che l’autore utilizza per centrare la sua visione critica del confino, con attenzione ai rapporti tra i confinati di primo piano come Pertini e Spinelli, Rossi e Colorni, Scoccimarro e Terracini. Squarzanti è mostrato come la vera scintilla dell’analisi politica; in punta di piedi all’inizio, nei suoi rapporti nascenti, ma poi addirittura padre di un’opposizione all’elaborazione intellettuale uscita dalle fucine di quella “università dell’antifascismo” e impressa nelle cartine vergate di inchiostro, il “Manifesto per un’Europa libera e unita”.
Preferiamo soffermarci proprio sui rapporti che l’autore costruisce intorno alla nascita del Manifesto. Squarzanti si inserisce nei discorsi tra gli autori dove, con accennata ingenuità, si colloca in semplice ascolto (pag. 102) per ribattere: “per far crollare una città, qualunque città, non serve un assedio… basta abbandonarla alla sua insufficienza, al suo stato di dipendenza. E maggiori saranno i progressi della tecnica, maggiore sarà la dipendenza”. Discorsi che i tre fondatori del Movimento federalista stavano già affrontando perché – è Altiero Spinelli a parlare – “non solo ogni città, ma ogni Stato nazionale è come Ventotene” – e ancora Colorni: “Abbattere i fascismi non basta. Liberare le nazioni occupate dai tedeschi non basta. Se non vogliamo più guerre, dobbiamo superare gli stati nazionali”.
Per Squarzanti però l’incontro determinante è con un altro personaggio di finzione, Giacomo Pontecorboli, giellista, che piano piano lo introduce in una misteriosa suggestione da “La macchina del tempo” di Herbert George Wells. Già, il tempo, segnato a Ventotene dall’orologio in piazza Castello, funzionante a modo suo, in un astruso campo gravitazionale, diremmo fuori dal tempo, anzi con un tempo accelerato, il proprio, quello di Ventotene. Perché è in quel tempo – quasi irreale - che sta l’analisi di coloro, Rossi, Spinelli e Colorni, che andavano elaborando il superamento del reale nell’inverno del 1941. Squarzanti è tra coloro che non sono convinti del testo del Manifesto che circolava e cercava adesioni tra i confinati. E le sue idee (inventate) s’inseriscono tra i dialoghi filosofici (questi veri!) di Severo (Spinelli), Commodo (Colorni) e Ritroso (Rossi), con una controlettura che – stimolato in fantasia da Fundo e anche da Pertini che non firma il testo proprio grazie a Squarzanti!* – prendono forma nella notte con la firma pseudonimo “Acribio”. Questi accusa il testo perché le masse sono relegate a “soggetto passivo e privo di coscienza” perché mostra “sfiducia nelle classi popolari” e il proletariato è associato “a piccolezze, particolarismi e vedute anguste”. Accusa il Manifesto perché affermerebbe che solo da “un nucleo di illuminati” che definisce un “partito rivoluzionario”, unico capace di calare dall’alto l’azione, che può passare anche attraverso l’accantonamento dell’illusione democratica, per raggiungere l’obiettivo della Federazione europea.; obiettivo interrotto dal fascismo, nel processo illuminista, quasi un “incidente di percorso” (pag. 270-273).
La lettura che ne fa Squarzanti è, purtroppo per l’autore, parziale ed eterodiretta. Basti leggere un semplice passo del vero Manifesto: «Il lento processo, grazie al quale enormi masse di uomini si lasciavano modellare passivamente dal nuovo regime, vi si adeguavano e contribuivano così a consolidarlo, è arrestato; si è invece iniziato il processo contrario. In questa immensa ondata che lentamente si solleva, si ritrovano tutte le forze progressive, le parti più illuminate delle classi lavoratrici che non si sono lasciate distogliere dal terrore e dalle lusinghe nella loro aspirazione ad una superiore forma di vita … A tutte queste forze è oggi affidata la salvezza della nostra civiltà.»
E poi ancora quel fascismo che solo nella visione di Squarzanti è rappresentato come “incidente”. Anche qui basta una più attenta lettura del Manifesto: «La sconfitta della Germania non porterebbe però automaticamente al riordinamento dell’Europa secondo il nostro ideale di civiltà. Nel breve intenso periodo di crisi generale […], i ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali, cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l’ondata dei sentimenti e delle passioni internazionaliste, e si daranno ostentatamente a ricostituire i vecchi organismi statali.» E ancora Squarzanti che presuppone l’assenza di un vero “patriottismo europeo” nelle righe del Manifesto. Accidenti! Ma anche qui una più puntuale lettura invece ci ricorda che «Il punto sul quale esse (le forze reazionarie, ndr) cercheranno di far leva sarà sulla restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico […] Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani.» Questo superamento è la base del progetto federativo e con la coniugazione della patria Europa garantisce l’altro passaggio – che nella visione internazionalista e poco istituzionale di Squarzanti purtroppo è assente – il collocamento degli Stati Uniti d’Europa come interlocutore di equilibrio dei rapporti internazionali: «la Federazione Europea è l’unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo».
Già, caro Squarzanti, solo asiatici e americani, perché il Manifesto aveva individuato non altri popoli capaci di scatenare una terza guerra mondiale (e non gli africani, non per subalterna importanza!). Mentre a colpo d’occhio Squarzanti riconosce la mano dello “scomunista” (Spinelli) e del liberale Ritroso, non riconosce quella di Commodo. Peccato, perché Colorni ha firmato convintamente il Manifesto ne ha curato la stampa e la diffusione. E visto che all’autore piace utilizzare strumenti di analisi storica a “senno di poi”, Colorni ha scritto la prefazione all’edizione del 1944 e ha avuto un ruolo nella elaborazione del Manifesto dal punto di vista più alto, ed è lo stesso Spinelli a riconoscerglielo: «il mio modo di pensare non sarebbe quello che è se non avessi avuto quei due anni […] di quasi quotidiano dialogo dissacrante, indagante e ricostituente con lui».
*Nota: Sul rifiuto di firmare il Manifesto da parte di Pertini c’è la sua stessa testimonianza da Presidente della Repubblica. Il 7 ottobre 1982 Pertini ricevette i parlamentari europei italiani e nel suo discorso disse: «Farò una confessione in pubblico come certi personaggi di Dostoevskij. Ricorderai (rivolgendosi a Spinelli, ndr) che quando hai scritto il Manifesto di Ventotene, io avevo dato la mia adesione, e poi l’avevo ritirata. Ne seguirono polemiche tra noi, nelle quali non ti ho detto la vera ragione dell’essermi tirato indietro. Io ero completamente d’accordo con te, ma quando a Parigi i miei compagni seppero che avevo firmato il Manifesto, mi fecero sapere che non erano d’accordo con questo mio gesto che complicava i rapporti del PSI con gli altri. E io, per restare fedele al partito, ho obbedito. Oggi non lo farei più. Tu mi capisci perché anche tu hai saputo non obbedire. Ma allora non me la sentii, e sbagliai […]» (da “Diario Europeo” di Altiero Spinelli, 1976- 1986, Il Mulino, 1992).
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