Visti gli orrori della guerra appena passata e la minaccia comunista che si apprestava a dominare la maggior parte del secolo breve, Londra, Parigi e i paesi del Benelux decidono di fondare nel 1948 (con il sostegno USA), con il Trattato di Bruxelles, l’Unione Occidentale (poi Unione Europea Occidentale dal 1954 -UEO-).
Si tratta di un’alleanza militare di tipo difensivo pronta ad agire in caso d’aggressione e a cooperare (in tempo di pace) nel campo della difesa, della politica, dell’economia e della cultura [1]. Anche se tale alleanza rispondeva a una logica difensiva, va appuntato che, a differenza delle alleanze passate, essa si impegnava anche nella collaborazione, da parte degli Stati, in diversi campi all’infuori della difesa. In tal senso, dimostrava “gli intenti dei Paesi europei amanti della pace di lavorare assieme per il loro interesse comune” [2].
Ciononostante, il progetto non si dimostrerà utile ai fini della salvaguardia dell’integrità territoriale e politica dei suoi membri. Tant’è che nel novembre 1948, soli due mesi dopo la creazione dell’UO, l’allora Segretario di Stato per gli Affari Esteri britannici dirà che “le forze dell’Europa Occidentale sono state disunite, non così tanto nello spirito ma sugli aspetti economici e sugli accordi di difesa” [3]. È chiaro, pertanto, che il progetto di istituire un’effettiva capacità difensiva europea non era ancora stato realizzato date le differenze sia economiche e, soprattutto, politiche che intercorrevano tra gli Stati. Senza poi contare l’ulteriore handicap dell’esclusione dei due grandi sconfitti della precedente guerra mondiale: Germania Occidentale ed Italia; due nazioni che bisognava comunque, in qualche modo, riportare a pieno regime nelle dinamiche continentali [4].
Anche se l’UO/UEO rimarrà in piedi per più di 60 anni, essa non avrà pressoché alcun ruolo nella costituzione di un’Europa coesa, prospera e pacifica. Sarà piuttosto l’iniziativa di Jean Monnet e Robert Schuman (detto Piano Schuman, con il supporto di Konrad Adenauer e di Alcide De Gasperi, a gettare le radici solide per un futuro europeo capace di garantire pace, prosperità e coesione ai diversi popoli europei, attraverso la gestione comune del carbone e dell’acciaio. Infatti, con l’istituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), nel 1951 a seguito del Trattato di Parigi, Francia, Germania, Italia e Benelux sembrano aver intrapreso la strada giusta per giungere a una prima forma d’integrazione, seppur limitata e parziale, dell’Europa Occidentale. A questo riguardo, può essere utile far notare che la messa in comunione del carbone e dell’acciaio ha limitato di molto le possibilità di far deflagrare un ulteriore conflitto armato fra questi sei Stati: cioè perché si sono unite, sotto un’unica autorità, queste risorse; permettendo così il loro controllo e la limitazione da parte di ogni singolo Stato partecipante, e in particolar modo di Parigi e Berlino e conseguentemente di aumentare, gradualmente, la loro reciproca fiducia.
Visti i risultati positivi che si stavano raggiungendo con la CECA e i sopraggiunti timori dovuti alla guerra di Corea e al graduale riarmo dell’Unione Sovietica, Winston Churchill fece forti pressioni in seno al Consiglio d’Europa [5] per la costituzione di un esercito comune europeo. Il progetto, conosciuto come Comunità Europea di Difesa (CED) e promosso inizialmente da Parigi e Roma, cominciò a prendere piede agli inizi degli anni ’50 (in contemporanea alla CECA) e veniva concepito con lo scopo di costituire una forza armata europea di circa sei divisioni (composte da forze da Francia, Italia, Germania Occidentale, Olanda, Belgio e Lussemburgo - Londra, invece, non dà la sua disponibilità a fornire sue forze al progetto continentale rifiutandosi, mutatis mutandi, anche ad aderire alla CECA). Tali divisioni sarebbero state affiancate, in caso di necessità, agli eserciti nazionali, escluso quello della Germania Occidentale (il così detto Piano Pleven - dal nome dell’allora Primo Ministro francese).
Ma ben presto, a causa di una prudente pressione di Washington, il piano fu abbandonato: Truman lamentava che la proposta francese era dannosa agli scopi di una reale e concreta difesa europea perché in primo luogo limitava il riarmo tedesco (questione assai spinosa per l’opinione pubblica francese) e in secondo luogo perché rischiava di duplicare i compiti della neonata NATO - rendendo pertanto quest’ultima inefficiente -. Sarà di seguito il Piano Spofford - approvato il 18 dicembre 1950 a Bruxelles durante la riunione dei Ministri degli Esteri NATO - a trovare un punto d’incontro tra Parigi e Washington: prediligendo un ridimensionamento delle forze armate da divisioni a combat teams (con dimensioni e arsenali ridotti) e la permissione di un riarmo controllato della Germania Occidentale [6]. Di seguito venne indetta, nel febbraio 1951, la Conferenza di Parigi, con la partecipazione di ben 12 Paesi: Francia, Italia, Germania Occidentale e Benelux (come Stati a partecipanti a pieno diritto) e altri sei Stati osservatori (Gran Bretagna, Portogallo, Norvegia, Danimarca, Canada e Stati Uniti).
I lavori che seguono alla Conferenza sembrano di buon auspicio per la realizzazione del progetto militare europeo; tant’è che viene istituita la CECA e si procede a dar vita ai due comitati politici e militari per l’Europa Occidentale. Ma il progetto della CED troverà i suoi primi ripensamenti già nel mese di giugno dello stesso 1951: in Francia, infatti, le elezioni videro il successo dei due partiti gollisti e comunisti, contrari al progetto di difesa comune europeo. Questo comportò un ripensamento da parte dell’amministrazione Truman sulle sue precedenti pressioni a Parigi, e l’accoglimento del Piano Pleven (considerato in precedenza troppo controverso).
Sempre nello stesso anno sarà adottato un nuovo documento per la realizzazione del progetto CED; cioè il Rapport Intérimaire (la prima bozza del Trattato per la Comunità Europea di Difesa). Esso prevedeva la creazione di ben venti divisioni sotto il comando del SACEUR (Comandante Supremo della NATO in Europa) comprendente un solo contingente tedesco. Questa bozza, però, presentava già alcuni vulnus: il comando sotto un’unica autorità sovranazionale (il SACEUR che è sempre statunitense), la non equa rappresentazione della Germania Occidentale in tale formazione - ma anche di altre forze partecipanti, quali l’Italia, che avrebbe dovuto cedere tutte le sue forze armate al progetto - e la manifesta paura di Parigi di una rinascita della Wehrmacht [7].
Nonostante queste perplessità, il 27 Maggio 1952 veniva firmato a Parigi il Trattato Istitutivo della Comunità Europea di Difesa, con la garanzia che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sarebbero intervenuti, in caso di necessità, in soccorso degli alleati continentali, come delineato dall’articolo 5 del Trattato di Washington (riguardante il sistema di mutua difesa della NATO) [8].
Una volta firmato il Trattato Istitutivo della CED, Bonn e i paesi del Benelux si attivarono in tempi rapidi per depositarne la ratifica, ma Roma e Parigi non fecero lo stesso. La prima, a causa della sua situazione politica interna, tardò la ratifica aspettando, guardingo, anche le decisioni dell’Eliseo. Mentre la seconda decise, nel 1954, di rigettare il progetto, facendo arenare così la realizzazione della CED. Le cause del rifiuto francese furono le seguenti: dopo la morte di Stalin, Parigi, ma anche altri Stati Europei Occidentali, percepivano l’URSS come meno pericolosa; inoltre, con l’arrivo dei gollisti - sostenuti in parte anche dai comunisti francesi - vi fu il ritorno degli istinti nazionali e conservatori francesi, che soppiantarono l’animo europeista e la spinta alla creazione di una forza comune europea (complice anche il conflitto francese in Vietnam). Vi fu, inoltre, un’allarmante reazione ad un’eventuale apertura dei mercati a seguito dell’adesione alla CED da parte del mondo economico francese e, infine, l’opposizione degli ambienti militari e di altre autorità diplomatiche nazionali, preoccupate per la perdita di sovranità nei confronti del proprio esercito.
Anche se fallisce il progetto della CED, bisogna rammentare che esso non ha segnato la fine degli altri progetti in ambito comunitario e di pace e prosperità europea: la CECA viene istituita e si avvia a svolgere i compiti a lei designate, nel 1955 viene risolta la questione spinosa del riarmo e della statualità tedesca dove quest’ultima viene integrata, assieme all’Italia, nell’UEO (Bonn viene inoltre accolta nella NATO nel medesimo anno) e nel 1957, con i Trattati di Roma, viene istituita la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea per l’Energia Atomica (EURATOM) [9]. È utile sottolineare come i vari paesi dell’allora CECA, CEE ed EURATOM abbiano trovato un terreno più fertile nella cooperazione economica, giuridica e finanziaria rispetto a quelli più politici e militari; ciò era possibile grazie alla coscienza diffusa che la rapida ripresa economica dell’Europa Occidentale era fondamentale per poter allontanare eventuali nuovi rigurgiti nazionali o socialnazionali, capaci di riportare il continente nella spirale bellica. Ma anche per poter dimostrare, ai vari cittadini europei, come la strada comunitaria fosse l’alternativa migliore all’utopia di benessere moscovita.
Alla fine, tutte le parti concordarono che il processo d’integrazione europea si sarebbe compiuto meglio attraverso il metodo dei piccoli passi (cioè attraverso graduali compromessi ed accordi fra i vari Stati Membri) piuttosto che attraverso forti accelerazioni destinate a brusche frenate, capaci di guastare i precedenti accordi e compromessi accettati. E infatti, questo metodo comunitario prudente porterà già nel 1967 all’entrata in vigore del Trattato della Comunità Europea (Bruxelles 1965), che armonizzerà nel contesto comunitario la CECA, la CEE e l’EURATOM, e l’istituzione della Commissione Europea e del Consiglio delle Comunità Europee.
Nel 1970, arriva poi l’istituzione della Cooperazione Politica Europea (CPE), formalizzata nell’Atto Unico Europeo nel 1987, con lo scopo di armonizzare, dove possibile, le posizioni comuni degli Stati Membri in seno ad altri organi internazionali [10]. Inoltre, il collante economico e finanziario venne ulteriormente espanso nel 1975 con l’istituzione del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale: è chiaro che l’aumento di benessere in zone fragili dell’Europa fosse un fattore cruciale, come visto in precedenza, per garantire la pace europea e il suo processo d’unione (tant’è che con il benessere e la stabilità raggiunta in Europa Occidentale, altri paesi decideranno di aggregarsi alla comunità: Danimarca, Irlanda e Regno Unito nel 1973 e molti altri nei decenni a venire).
L’esperienza della CED deve pertanto portare a una chiara riflessione su quello che sarà il futuro dell’Unione Europea e di un ipotetico esercito comune. Riprendendo in mano gli avvenimenti di cui sopra, è facile comprendere che sia il processo unionista, che quello di un esercito comune europeo, sia destinato a dilazionarsi a lungo nel tempo. Come la Francia in passato, anche oggi molti Stati Membri dell’UE, soprattutto quelli di più recente accesso, non sono ancora disposti a scendere a compromessi per quanto riguarda ulteriori cessioni di sovranità. Nel frattempo, la retorica nazionalista, meglio conosciuta oggi come sovranismo, che inonda sia i programmi politici di molti partiti politici che l’opinione pubblica, crea una narrativa della diffidenza nei confronti di ogni passo volto sia a una maggiore integrazione europea sia, a maggior ragione, ad una unione politica e militare di tutti gli Stati Membri.
Ma ritornando ai precedenti storici della CE/UE, la questione di una difesa europea ritorna agli inizi degli anni ’90. Si ricordi, ad esempio, come alla fine degli anni Ottanta e agli inizi degli anni Novanta vi sia la rapida dissoluzione del comunismo Est-europeo, che lascia presagire un’Europa (ma anche un mondo) destinato alla democratizzazione liberale. Visto il dissiparsi della minaccia comunista, gli allora membri della CE decidono di dare una rapida accelerata al processo d’integrazione, con l’ottimismo che i tempi siano maturi per l’istituzione di una concreta politica estera e di difesa europea.
Ma questo ottimismo si infrangerà dinanzi a dei lavori preparatori intensi e convulsi, che porteranno nel 1992, a seguito dei vertici di Dublino e di Roma, all’adozione del Trattato di Maastricht (Trattato dell’Unione Europea), “composto da 252 articoli di nuova formulazione, 17 protocolli e 31 dichiarazioni (200 pagine di testo e 100 di protocollo)” [11]. Pertanto, viene raggiunto un trattato estremamente complesso e pieno di compromessi. Ma, tralasciando questo aspetto, si dica che esso darà vita al cosiddetto sistema dei “tre pilastri”: Comunità Europea (CE), Politica di Sicurezza e Cooperazione Europea (PESC) e Cooperazione di Polizia e Giudiziaria in Materia Penale (CGAI). Entrato in vigore nel 1993, esso fa nascere l’Unione Europea e segna la chiusura formale dell’esperienza comunitaria precedente, ponendo l’UE come un baluardo di speranza e prosperità per le nuove realtà Est-europee che stavano nascendo.
Volgendo l’attenzione al “secondo pilastro”, cioè la PESC, si possono trarre alcune considerazioni, od insegnamenti, per chi invoca con convinzione ed esuberante ottimismo una rapida accelerazione del progetto d’integrazione dell’UE.
Anche se Maastricht dà vita all’UE, si è ancora ben lontani da un sistema comunitario vero e proprio, e ci si “comunitarizza” solo in parte: cioè per quanto concerne il primo e il terzo pilastro. Ma la PESC, anche se all’interno del Trattato dell’Unione Europea, rimane un corpo estraneo alle dinamiche comunitarie, dato il fatto che esso viene lasciato in balia del metodo intergovernativo: cioè in mano dei singoli Stati Membri del Consiglio Europeo e del Consiglio dei Ministri (oggi dell’UE). Pertanto, per poter adottare le Azioni Comuni o Posizioni Comuni bisogna passare per il voto unanime degli Stati, escludendo ogni tentativo d’inclusione, o almeno di co-partecipazione, del Parlamento Europeo, della Commissione Europea e, senza nemmeno dirlo, della stessa Corte di Giustizia Europea [12].
Senza ripercorrere i retroscena di questa impostazione intergovernativa della PESC, basti dire che è chiaro che anche allora, quando vi erano solo 12 Paesi membri con sistemi politici e ideali simili, fu impraticabile dare vita a un sistema di sicurezza e ad un’azione esterna comune. Ciò perché ogni Stato si guardava bene dal cedere questi ambiti d’interesse ad un’autorità sovranazionale, prediligendo un sistema di coordinazione comune di facciata lasciando, come tutt’oggi, la questione esterna e di sicurezza in mano alle singole capitali. Anche con la successiva adozione del Trattato di Amsterdam nel 1999, dove l’UE viene dotata di un Alto Rappresentante per la PESC e si dà vita alla Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD), continua a prevalere il sistema intergovernativo per quanto concerne la difesa e l’azione esterna. Insomma, anche se nel ’99 sembra che gli Stati Membri vogliano dotare l’UE di un suo braccio armato, tale intento non trova realizzazione perché la PESD deve appoggiarsi alle risorse della NATO, dell’UE e dell’UEO. Inoltre, viene ribadito dai vertici del Patto Atlantico (dove siedono diversi membri UE) che “la NATO e l’Unione Europea condividono i medesimi interessi strategici” [13]. Si dà così per scontato che la sicurezza dell’Europa, e pertanto dell’UE, passa per la NATO, che è considerata pur sempre il mezzo di deterrenza e di difesa più idoneo a garantire la sicurezza UE. Inoltre, l’azione intrapresa a livello europeo mette in allarme Washington, che precisa “che occorre evitare duplicazioni con la NATO, divisioni nelle strategie difensive Euro-Atlantiche, e discriminazioni verso gli Stati della NATO che non sono membri dell’UE (Turchia, ecc.)” [14] che potrebbero sia portare all’uscita di alcuni Paesi dalla NATO che ostacolare il processo d’integrazione europeo. Ad ogni modo, questi problemi “saranno risolti con la dichiarazione congiunta NATO-UE” [15] del 2002 [16] e con i successivi accordi Berlin Plus del 2003 in favore di un migliore coordinamento tra le due organizzazioni internazionali [17].
Con il successivo Trattato di Nizza (2001) si decide di assegnare all’UEO il compito di aiutare l’UE nelle sue missioni umanitarie e di poter potenziare le sue capacità operative; ciò è possibile anche con il graduale trasferimento delle strutture UEO dentro al sistema comunitario. Però come detto all’inizio, tale organizzazione difensiva non darà mai i frutti sperati e sarà un eterno assonnato. Anche quando fu chiamata ad agire, durante la crisi bosniaca, si dimostrerà mediocre ed incapace di svolgere un ruolo concreto di sicurezza e risoluzione.
Anche se l’UE viene dotata della PESC e della PESD, ci si rende ben presto conto che la strada di un’azione comunitaria e di una forza comune è impraticabile. Questo anche alla luce del primo documento strategico dell’UE adottato nel 2003 [18]. O ancora, della guerra in Iraq (2003) e dell’intervento dei cosiddetti “volenterosi”, col quale ci si rende conto che l’Unione non è in grado di trovare una linea comune sulla questione irachena a causa degli interessi contrastanti di Stati che appartengono sia all’UE che alla NATO, e che preferiscono ricercare garanzie di sicurezza all’infuori dei meccanismi UE [19].
Bisogna tener presente inoltre che, con gli ingressi di nuovi Stati Membri nell’UE, i punti di vista all’interno della stessa si dilatano ancora di più: soprattutto se si considera che vi sono alcuni membri storici che prediligono una certa visione sulla questione irachena e il ruolo dell’UE, accanto a membri nuovi che preferiscono accreditarsi positivamente agli occhi di Washington, prediligendo così il sistema di sicurezza NATO.
Sarà in questo clima che il Consiglio Europeo deciderà di incaricare il suo Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza UE Javier Solana – già Segretario Generale NATO dal 1995-1999 – di scrivere la prima bozza di un concetto strategico europeo da presentare alla riunione del Consiglio Europeo a Salonicco il 19 giugno 2002 [20]. Durante i suoi lavori, Solana dichiarerà che questo documento strategico per l’Unione Europea si pone l’obiettivo di non replicare la dottrina del “pre-svuotamento” [21] come intesa da Washington, ma di dare un fondamento più dettagliato per le azioni di sicurezza dell’ambito dell’Unione Europea [22]. Ma è chiaro che questo documento, che prenderà il nome di “Un’Europa sicura in un mondo migliore”, sia una risposta alle strategie di Washington, che sono poco gradite a Parigi e Berlino. Tanto è vero che Christoph Heusgen – figura in vista delle relazioni estere tedesche – affermerà che “era chiaro fin dall’inizio che noi [UE] volessimo produrre un documento che rispondesse al NSS degli Stati Uniti del 2002” [23].
Senza approfondire ulteriormente questo documento (pur riconoscendo la sua importanza e il suo elevato interesse), si dica che esso ha il merito di porre una distinzione tra minacce e sfide [24], di mettere in risalto l’utilità delle risorse economiche per creare un ambiente più sicuro e di prevedere l’accresciuta importanza dei rapporti multilaterali. Insomma, l’UE vuole sì mettere in chiaro che essa è un “attore globale” [25] cruciale, pur senza il bisogno di assumere toni troppo militareschi. E infatti, il documento comunitario prevede che l’UE possa affrontare le diverse sfide e minacce con una giusta commistione di mezzi diplomatici, di sviluppo economico, di aiuti umanitari e di strumenti militari. Si dica, inoltre, che nella prima versione del documento strategico europeo, era stato inserito il concetto di “pre-emption”, che aveva attratto una certa attenzione dei media e sollevato alcune critiche. Per ovviare a ciò, come fa notare il libro bianco del Ministro della Difesa inglese, il termine fu sostituito con il termine di “preventive strategy” (strategia preventiva) su spinta di Germania e Francia [26] e fu precisato che le armi di distruzione di massa sono potenzialmente il pericolo più grande alla sicurezza comunitaria [27]. Questa precisazione è cruciale: sta ad indicare che l’UE non è intenzionata a seguire la strada percorsa dagli Stati Uniti, incentrando la propria politica estera su altri mezzi.
Per quanto riguarda, invece, la doppia appartenenza di molti Stati sia alla NATO che all’UE viene precisato che “la NATO stessa e i rapporti transatlantici non devono servire soltanto a “interessi bilaterali” ma rafforzare nel suo insieme la comunità dei popoli” [28], pur se “l’asse portante dell’intero sistema resta [...] un rapporto ‘efficace ed equilibrato’ con Washington” [29], perché l’UE e gli USA costituiscono una forza formidabile per un futuro globale più sicuro. Questo documento, inoltre, verrà adottato poco prima dell’allargamento del 2004, dimostrando come fosse opportuno mettere in chiaro alcuni aspetti con una presenza maggioritaria di Stati Membri ideologicamente e politicamente simili.
È chiaro che gli Stati Membri (tra il 1995 e 2004) si rendano conto di come l’UE sia più efficace a perseguire i suoi scopi di sicurezza attraverso la stretta cooperazione con la NATO (e pertanto gli alleati di Washington e di Ottawa) piuttosto che perseguire una strada “autonoma”. Alla fine dei conti sia la CE che l’UE si sono poi dimostrate molto più predisposte e preparate in azioni di tipo civile e diplomatico. Le esperienze maturate nel corso degli anni della CECA e della CEE si sono dimostrate cruciali per la realizzazione di una sempre migliore integrazione del continente. Campi, questi, dove i diversi Stati Membri sono particolarmente inclini a cedere le loro prerogative nazionali e che, di converso, aiutano a far apparire l’UE come un solido baluardo per la crescita e la prosperità dei popoli d’Europa. Come lo fu per l’allora Europa Occidentale anche oggi, forse con più importanza, l’UE e i suoi organi (nonché gli Stati fondatori) devono lavorare per acquisire la fiducia di tutti quegli Stati (nonché diversi popoli) di nuova appartenenza che tutt’oggi non riescono a concepire o meglio ad apprendere l’importanza di una migliore Unione Europea.
Anche dopo il Trattato di Lisbona (2007/2009) non vi saranno grosse differenze per quanto concerne la PESC e la PESD - fa eccezione l’introduzione, agli articoli 42 e 46 del TUE, di una forma di cooperazione militare detta PESCO - che però rimarrà “dormiente” per quasi dieci anni prima di essere posta in essere - che rimarrà sempre in mano al metodo intergovernativo e che pertanto sancisce, ancora, una quasi impraticabilità di un’azione esterna comune di difesa. Si continua così ad affidarsi alla consolidata esperienza militare della NATO, prevedendo, in aggiunta, la Clausola di Solidarietà (art. 222 TFUE): su richiesta delle autorità politiche, gli Stati membri decidono quali mezzi mettere a disposizione dell’Unione, inclusi mezzi militari, e intervengono sul territorio nazionale per prestare assistenza, in caso di calamità naturale o di attacco terroristico. La clausola viene deliberata dal Consiglio Europeo, con la quasi totale esclusione degli altri organi europei [30], a seguito degli attentati terroristici di Madrid del 2004.
Gli anni che seguono il Trattato di Lisbona sono segnati da un graduale assorbimento dell’UEO da parte dell’UE, portando l’alleanza nata nel ’48 a perdere ogni tipo di utilità e ad essere sciolta nel 2011. Dal 2010, poi, l’UE, in stretta collaborazione con la BCE, è chiamata a rispondere alla grave crisi economica che colpisce l’eurozona. Inoltre, crescono le pressioni nazionali per una risposta comunitaria alla galoppante crisi migratoria che interessa l’Unione (riformando pertanto il sistema del FRONTEX e del VIS). E ancora nel 2013 USA e UE firmano l’accordo TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) per investimenti e scambi liberi tra le due sponde, segnando così una ripresa positiva dei rapporti tra Bruxelles e Washington.
In questi anni, dunque, l’impellenza di un esercito comune europeo sembra essere di secondaria importanza nell’agenda dell’UE (anche se non se ne nascondono le aspirazioni), prediligendo saggiamente un percorso più cauto attraverso un’effettiva integrazione delle aree più critiche d’Europa. Ciò attraverso i mezzi civili, economici e diplomatici che la realtà europea ha imparato a sfruttare. Eppure, a seguito della vittoria di Donald J. Trump alle elezioni per la Casa Bianca e alla vittoria del referendum sulla Brexit in Inghilterra, torna a riemergere la graduale necessità di dotare l’UE di un proprio braccio armato. Senza ripercorre per filo e per segno questi due avvenimenti, basti dire che Trump non avrà un ruolo virtuoso nei rapporti tra Washington e Bruxelles e nemmeno riuscirà a giocare un ruolo decisivo nella NATO (definendo quest’ultima, in un primo momento, obsoleta - posizione poi ritrattata -, o affermando che gli USA avrebbero perseguito rapporti bilaterali autonomi con Mosca) [31]. Anche Londra non è da meno: essa ritira ampi contingenti dall’Europa Continentale, e la sua uscita dall’UE lascia il sistema comunitario orfano della preziosa forza sia militare che diplomatica del Regno Unito [32] (anche se c’è da dire che Londra mantiene ancora l’impegno di stanziare proprie forze nei Baltici e in Polonia per mantenere la Enhanced Forward Presence, come deciso al Summit NATO di Varsavia nel 2016) [33].
Visti questi sviluppi nel contesto Occidentale, ma non solo [34], sarà nel dicembre 2017 che 23 Stati Membri degli allora 28 (oggi 27 dopo l’ufficializzazione della Brexit) istituiranno solennemente la PESCO. In questo riquadro sembra rivivere, a distanza di quasi 70 anni, un fac-simile della CED. Ma guardando più attentamente agli impegni che gli Stati devono assumere, si evince immediatamente che la partecipazione rimane pur sempre a titolo volontario e pertanto all’infuori, ancora una volta, del metodo comunitario. Infatti, ogni atto della PESCO viene adottato all’unanimità dal Consiglio Europeo (il voto è chiaramente riservato ai soli aderenti). Anche in questo caso, gli Stati si guardano ancora bene dal cedere queste loro prerogative in ambito militare e prediligono il mettere in atto diversi progetti per la cooperazione ed integrazione in specifici campi della sicurezza e della difesa. In base all’ultimo report della PESCO vi sono in corso ben 43 progetti [35].
Anche se la PESCO sembra ancora lontana dal dar vita a un corpo d’armata unico europeo, bisogna però osservare come il metodo intergovernativo fatto di tanti progetti nel campo della difesa e della sicurezza sia il metodo più propenso per raggiungere, nel lungo periodo, un progetto alla CED. Infatti, la PESCO ha il merito di mettere tutti gli Stati dinanzi a un ben preciso impegno: cioè quello dell’aumento reale dei bilanci per la difesa con l’obiettivo di recuperare il gap con Washington. E in base ai dati conosciuti (presentati dall’ex Alto Rappresentante PESC Federica Mogherini nel 2019), nell’arco del biennio 2017-2019 gli incrementi dei bilanci aggregati per la difesa sono stati pari al 3,3% nel 2018 e al 4,6% nel 2019 [36]. In questo modo vi è una “costrizione volontaria” degli Stati ad impegnarsi a rendere sempre più efficiente le proprie forze che rispondono a una decisione presa a livello di Unione Europea.
Anche in questo caso bisogna, però, contenere gli animi esuberanti ed ottimisti per la realizzazione per il così sofferto esercito UE: si ricordi sempre che è il sistema della PESCO arriva dopo più 70 anni di confronto sul destino di un’eventuale forza europea e tutt’oggi, se non peggio, è soggetto a un confronto fragile fra ben 25 Stati Membri della PESCO che rendono di difficile realizzazione il progetto armato. Inoltre, bisogna constatare come il sistema di sicurezza euro-atlantico non possa passare da un’eventuale decisione “autonomista” dell’UE: in fin dei conti UE e NATO condividono medesimi obiettivi e ideali, ma soprattutto molti membri dell’una e dell’altra. Accelerare il processo d’integrazione armata metterebbe a rischio la cooperazione che esiste tra queste due organizzazioni e le stesse relazioni diplomatiche nazionali che intercorrono in esse. Il rischio, se mai si dovesse riprendere in mano il metodo entusiasta e precipitoso che ha dominato Maastricht, sarebbe quello di portare a una maggiore divisione all’interno del mondo euro-atlantico, segnando battute d’arresto ben più peggiori rispetto a una mancata integrazione militare europea. Ma è buona cosa constatare, avviandoci alle conclusioni, come attraverso il metodo del compromesso e dell’accordo (e anche grazie a situazioni di contingenza preoccupanti per il destino dell’UE) si sia raggiunto il risultato della PESCO.
Come già detto, negli ultimi anni che coincidono con la passata amministrazione Trump, il progetto di un esercito comune europeo ha ricominciato a prendere piede. Oltre alla già vista iniziativa PESCO, si avrà nel 2019 l’accordo franco-tedesco di Aquisgrana su una migliore cooperazione tra i due Paesi su diversi ambiti di tipo politico-militare e per accelerare il processo d’integrazione europeo [37]. Anche se questi ultimi due Paesi sono i più in sintonia nell’UE bisogna pur segnalare che entrambi non sono ancora in grado di esprimere una medesima linea comune d’azione per quanto concerne sia la difesa che lo snellimento dei processi UE: è infatti vero che entrambi hanno punti di vista differenti tra chi spinge per una comune ricerca e spesa in ambito militare a livello europeo rimanendo sempre legati in stretto contatto con la NATO, Berlino in questo caso, e chi invece, come Parigi, invoca una sovranità europea in ambito militare [38]; tale divergenza tra i due è meglio riassunta dalle reazione di Berlino assai ferma e critica sulla frase del Presidente francese Emmanuel Macron, detta durante un’intervista rilasciata al The Economist nel 2019, dove dichiarò che gli alleati stanno “vivendo la morte cerebrale della NATO” [39]. Inoltre, la realtà dei fatti consta anche altri 25 Stati Membri che faticano a trovare un accordo per poter sbloccare tutti quegli impedimenti che ostacolano il processo d’integrazione. È infatti vero che non tutti (soprattutto il gruppo Visegrád) sono disposti a cambiare il sistema del voto all’unanimità in seno al Consiglio Europeo. Inoltre, il processo sia d’integrazione UE che soprattutto per la creazione di un esercito comune, oltre a subire rallentamenti a causa delle precedenti divergenze, sarà ulteriormente rallentato dalla decisione del neoeletto Presidente Joe Biden di congelare il ritiro delle forze USA dal continente europeo [40], placando di conseguenza il malumore europeo causati dall’amministrazione USA precedente.
È chiaro che il percorso verso un’Unione più solida e con un proprio esercito comune è ancora ostacolato da differenti prospettive, ma è vero anche che la strada rimane sempre quella di un processo d’integrazione sempre più sostanziale dei Paesi europei. Fino ad arrivare a poter costituire una vera e propria azione comune ed unica di tutti gli Stati Membri sia presenti che futuri, ciò con il chiaro ed imprescindibile obiettivo di costituire quella forza europea capace di rispondere alle sfide odierne e future di un mondo in rapido mutamento. Perché nessuno dei singoli Stati europei può pretendere di affrontarle da sole. Ma per poter realizzare tutto ciò l’UE deve continuare a perseguire una politica europea cauta e capace di diminuire le divergenze fra i suoi membri. Non è un facile obiettivo, ma è la strada più praticabile visti gli eventi che si sono susseguiti dal dopoguerra ad oggi. In questo senso l’UE deve continuare a potenziare la sua struttura politica, sociale e diplomatica per poter avvicinare tutti i popoli d’Europa e farli convergere verso il grande spirito della grande famiglia europea, mantenendo fissi i suoi ideali di democrazia, libertà, integrazione sociale e fratellanza. Se possibile, senza lasciare nessuno indietro, soprattutto chi, nelle contingenze attuali, fatica a contrastare la pandemia globale e che finisce per affidarsi a forze esterne all’Unione, o meglio dal circuito euro-atlantico, vanificando i passi fatti negli anni passati. Quando l’UE si sarà dimostrata un baluardo solido per tutti i popoli d’Europa, realizzando anche un esercito comune, vi sarà infine la possibilità di raggiungere un progetto federalista compiuto.
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