Ernesto Rossi, un democratico europeo

, di Luigi Vittorio Majocchi

Ernesto Rossi, un democratico europeo

Nel Medioevo i due lati della coscienza – quello che riflette in sé il mondo esterno e quello che rende l’immagine della vita interna dell’uomo – se ne stavano come avvolti in un velo comune, come in sogno o dormiveglia. "Il velo era tessuto di fede, d’ignoranza infantile, di vane illusioni: veduti attraverso di essi, il mondo e la storia apparivano rivestiti di colori fantastici, ma l’uomo non aveva valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione, di una razza o di un’altra qualsiasi collettività (...) L’Italia è la prima a squarciare questo velo e (…) l’uomo si trasforma in individuo (…) e come tale si afferma”. Jacob Burckhardt, nel suo celebre La civiltà del Rinascimento in Italia, così illustra uno dei caratteri distintivi della rivoluzione culturale che si manifesta agli albori dell’evo moderno in quell’Italia che si trova al centro del Mediterraneo, a sua volta centro della Terra, a sua volta ancora centro dell’universo. Al centro dell’Italia c’è Firenze. Ed è proprio a Firenze che fioriscono, è sempre Burkhardt a rammentarlo, personalità poliedriche e spiccate come Leon Battista Alberti e Leonardo, ribelli come Dante, sboccate e irridenti come Boccaccio, sarcastiche e sfacciate come l’Aretino.

Ernesto Rossi era un fiorentino cui occorse l’avventura di vivere in quello che il mio professore di Diritto civile, Giuseppe Stolfi, descriveva come “il secolo dell’armento”, e fu uno dei pochi che negli anni bui del nazifascismo – e dello stalinismo ─ ebbe “il coraggio del no” e, nel dopoguerra, sbeffeggiò l’Italia dei “padroni del vapore”, il paese in cui si perpetuava il vezzo perverso di vendere “aria fritta”, un’Italia che si avvaleva dell’ombrello atomico statunitense scordando come quell’ombrello fosse fatto esclusivamente di stecche di ferro particolarmente efficaci nell’attirare i fulmini. Rossi espresse queste posizioni con un linguaggio tagliente, acre, incisivo, con lo stile del grande polemista, con un’intelligenza tipicamente illuminista: un’esemplare manifestazione fenomenica di quell’intelletto che, hegelianamente, si manifesta soprattutto come facoltà di negazione.

Di questo Rossi antifascista, bastiancontrario, mordace e beffardo, intransigente e radicale sappiamo quasi tutto. In via del tutto accidentale si dice anche che, in posizione ovviamente subalterna, concorse a concepire con Spinelli e Colorni il Manifesto di Ventotene. Ma si tratta di un’affermazione piuttosto sussurrata che proclamata.

Del suo pensiero federalista (sarebbe sufficiente ricordarsi di quel meraviglioso pamphlet Gli Stati Uniti d’Europa, pubblicato a Lugano nel 1944), del suo contributo alla lotta per la Federazione europea, della sua frenetica attività al servizio del Movimento Federalista Europeo si dice poco: svogliatamente e male. Tra gli stessi federalisti del MFE il suo ruolo è sottaciuto o, addirittura, ignorato. Che mi ricordi, solo Luciano Bolis e Andrea Chiti Batelli si sono costantemente sottratti a questa diffusa ipocrisia. Certo ha pesato non poco il fatto che, caduta la CED, Ernesto, pur reiterando la propria adesione al MFE, considerò ormai inattuale la battaglia federalista. La sua figura, a far tempo da allora, è apparsa ai federalisti quella di un estemporaneo compagno di lotta perdutosi nell’eterodossia. Son cose che sono apparse altre volte in un grande Movimento – Albertini, a ragione, ne definisce le vicende come le più belle pagine di storia nell’Italia contemporanea – un movimento che, costretto dalla natura del compito a una lotta senza le gratificazioni del potere e della notorietà, non si è mai sottratto completamente alle tentazioni della setta.

Fortunatamente l’opera di Antonella Braga Un federalista giacobino. Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d’Europa (Il Mulino 2007) fa giustizia di questa clamorosa ingiustizia. Nella gran copia di documenti che il nipote prediletto di Ernesto, il professor Pucci, ha religiosamente conservato presso la sua abitazione fiorentina e messo paternamente a sua disposizione, Braga, adottato il punto di vista federalista, va alla ricerca di quegli elementi che, nella giovinezza, negli studi, nell’esperienza della guerra, nelle mutilazioni, nell’incontro con Salvemini, nel rifiuto del fascismo, nel processo di fronte al Tribunale speciale, nella lunga detenzione carceraria e nel confino, hanno condotto Rossi alla scelta radicale di battersi interamente, con le sue ormai esigue forze, per la Federazione europea. Utilizzando la nota metafora che Hegel propone per illustrare che “il vero è l’intero” ma esiste già, seppur allo stato di mera virtualità, nel cominciamento, quella cioè che afferma come il vero della quercia sia la pianta nella sua compiutezza, ma si trova già, seppur come “concetto semplice dell’intero” nella ghianda, l’Ernesto del Manifesto e della febbrile attività al servizio del Movimento Federalista Europeo si trova già in tutti quei fatti pregressi della sua vita. Dal che risulta poi facile comprendere come l’insegnamento di Salvemini e l’intrinsichezza con Einaudi avessero portato Rossi alla cultura del federalismo molto tempo prima di Spinelli, come il suo contributo alla redazione del Manifesto fosse ben più sostanzioso di quanto non gli riconosca lo stesso Spinelli, come la sua attività al servizio del MFE durante l’esilio in terra elvetica sia stata superiore rispetto a quella di qualsiasi altro, come sia stato lui a riportare Spinelli alla testa del MFE al Congresso di Milano (1948) quando entrambi, dopo aver lasciato il Movimento nell’immediato dopoguerra, decisero di rientrare nella mischia al dischiudersi delle nuove prospettive di lotta per la Federazione europea apertesi con il Piano Marshall. Ma soprattutto l’analisi di Braga mostra, con fatti documenti eloquenti e argomenti decisivi, come Rossi abbia considerato, dai tempi di Ventotene e per tutto il periodo dell’esilio, la battaglia federalista come di gran lunga prioritaria rispetto a qualsiasi lotta da condurre sul piano nazionale. Infine - ed è forse questo il punto decisivo nella requisitoria che Braga conduce contro la plateale rimozione della cultura storica italiana e, ahimé, dei federalisti – si comprende il perché Rossi si sia ritirato da quella lotta dopo la caduta della CED. Se Albertini e Spinelli avessero potuto leggere le pagine di Braga, non avrebbero certamente potuto vantarsi per quanto hanno detto o, ancor peggio, scritto di Ernesto.

Il ripiegarsi di Rossi su posizioni di riformismo nazionale – qui sta il punto nevralgico per una sua corretta collocazione all’interno della storia del federalismo e, in particolare, del MFE - è tema che non può essere trascurato e che, ancora una volta, trova le sue appropriate chiavi di lettura nel racconto di un lungo percorso concluso con una scelta che Ernesto non esitò a considerare tragica. È presto detto. Rossi era convinto che la Federazione europea fosse possibile solo al compiersi di quell’immane sovvertimento che fu il secondo conflitto mondiale. Distrutti gli Stati nazionali, disarticolate le loro strutture militari, amministrative, politiche, con i partiti ancora allo stato magmatico, sarebbe stato possibile, grazie al sostegno degli alleati - a cominciare da quello britannico -, ricostruire nell’unità anziché nella divisione. Ciò era nell’interesse delle forze democratiche che, con il superamento dello Stato nazionale fomite della degenerazione autocratica, avrebbero trovato spazi idonei alla realizzazione delle loro idealità. Ed era pure nell’interesse degli alleati anglosassoni, al di là e al di qua dell’Atlantico, i quali avrebbero, con quel superamento, visto scomparire la causa profonda dei due conflitti mondiali che, scatenatisi sul Continente, avevano finito fatalmente per coinvolgerli con immense perdite di uomini e risorse. Questo era lapidariamente scritto nel Manifesto.

Le cose sono andate differentemente. A mano a mano che gli eserciti alleati, sia a ovest che a est, avanzavano, ricostruivano strutture esili e fragili, mere coperture formali di un fenomeno, però, sostanziale e decisivo: quello del potere dominante delle potenze vincitrici. Rossi, come del resto Spinelli, avvertì immediatamente - a differenza della generalità degli osservatori politici, a cominciare dagli azionisti e dai sognatori della “terza forza” - che il mondo s’andava organizzando in zone d’influenza e che, con la cortina di ferro, avrebbe assunto i connotati dell’equilibrio bipolare. Come ebbe a dire Spinelli nel giugno del ’45, sperare in un rivolgimento statuale in Europa prescindendo dall’atteggiamento delle grandi potenze avrebbe significato null’altro che cercar di “scatenare una tempesta in un bicchier d’acqua” (“L’Italia libera”, giugno 1945). Non fu, dunque, un caso se Rossi, così come Spinelli, abbandonò la guida del MFE e, con questo atto, la lotta per la Federazione europea.

Il lancio del Piano Marshall sembrò costituire per Rossi e Spinelli il segnale di quell’atteggiamento favorevole delle potenze egemoniche che riattualizzava la lotta per la Federazione europea. Certo Rossi riteneva che l’occasione fosse assai meno cogente di quanto non lo sarebbe stata se si fosse presentata al termine del conflitto, come auspicato a Ventotene. Ma, fedele alle matrici mazziniane del suo pensiero e all’insegnamento salveminiano, decise d’impegnarsi. E lo fece con il medesimo spirito con cui aveva condotto la sua azione negli anni esaltanti dell’attesa rivoluzionaria in terra elvetica. Mancava l’entusiasmo del successo vicino, ma lo sorreggeva ancora l’imperativo della ragione.

La caduta della CED e del conseguente progetto di fondare la Comunità politica segnò per Rossi la fine di ogni illusione. La ricostruzione della sovranità militare tedesca - e quindi la soluzione nazionale del problema tedesco, quello a partire dal quale era nata l’iniziativa monnetiana di fondare la Comunità - ma, soprattutto, il profilarsi all’orizzonte di una nuova stagione delle relazioni internazionali - quella della coesistenza pacifica che superava la fase della guerra fredda e assegnava stabilmente il mondo alle due potenze egemoniche e all’equilibrio del terrore nucleare - rendevano ormai illusoria qualsiasi prospettiva di fondare una nuova statualità in Europa. Solo un sovvertimento radicale come un nuovo conflitto mondiale avrebbe reso possibile un evento politico di rilievo epocale come la nascita della Federazione europea sulle ceneri dello Stato nazionale ottocentesco. Rossi rimaneva fermamente convinto di ciò. Ma un nuovo conflitto mondiale dopo Hiroshima – qui sta il punto - significava nient’altro che l’autodistruzione del genere umano.

Che fare, dunque? Il “federalista giacobino” è ormai un deluso, irrimediabilmente sconfitto. Da ciò la scelta del neutralismo e il disbrigo di questioni di piccolo cabotaggio come quelle che concernevano il riformismo nazionale. Nulla più dell’entusiasmo rivoluzionario di Ventotene e della Svizzera. Solo la motivazione etica di chi sa di non potersene stare con le mani in mano.

La posizione di Rossi non era la sola possibile. Spinelli escogitò “il nuovo corso della politica federalista”, avendo considerato conclusa la fase storica in cui i federalisti potevano giocare il ruolo del “suggeritore del principe” (un ruolo che, forse, Rossi interpretò ancor più efficacemente di lui nel rapporto con De Gasperi), e promosse, sulla scorta del precedente indiano, il Congresso del Popolo europeo che rivendicasse il riconoscimento del suo potere costituente. Albertini si dedicò, invece, al compito di costruire l’avanguardia rivoluzionaria in vista di un’occasione che la contraddizione tra la natura soprannazionale dei problemi della sicurezza e dello sviluppo economico, da un lato, e la dimensione dello stato nazionale, dall’altro, avrebbe necessariamente prima o poi offerto. Spinelli abbandonò poi quella posizione, ma rimase fedele al principio della costituente e si batté sino alla sua scomparsa per la costruzione del potere europeo. In termini metaforici – l’immagine è di Albertini – Spinelli per l’intera vita si comportò come quei cacciatori che nel delta del Po’ rimangono nascosti in una sorta di botti galleggianti con la pallottola in canna in attesa che passi la folaga. Albertini fu, viceversa, il Mao Tse Tung della ‘lunga marcia nel deserto’, sorretto da una filosofia della storia e della politica assai più sostanziosa di quella propria del grande condottiero cinese. Rossi, a differenza di Spinelli, aveva la fretta dei giacobini e, rispetto ad Albertini, non credeva a quelle che ha sempre considerato “filosofesserie”. Di questo convincimento si può bonariamente sorridere. Del resto, anche Popper - che di filosofia s’intendeva certo più di quanto non se n’intendesse un Rossi portato a prediligere l’economia, la sociologia e la scienza politica - ha potuto, su aspetti della cultura hegelo-marxiana, scrivere, senza soverchio pregiudizio per la sua reputazione, tesi alquanto discutibili come quelle che si trovano nel suo Miserie dello storicismo.

Anche in questo atteggiamento - il rifiuto di rincorrer le nuvole, l’aperto abbandono del sogno di costruire il paradiso terrestre passando per il diluvio universale -, un atteggiamento che in ogni caso può forse considerarsi un errore dal punto di vista politico, ma giammai una menda morale, Rossi rimaneva incrollabilmente il fiorentino descritto da Burkhardt.

A mio giudizio Rossi aveva torto. Ma l’ammiro ugualmente. E considero la sua figura come quella di un grande federalista che gli europei, un giorno o l’altro, - i latini avrebbero fatto ricorso alla preposizione “utinam”! - riconosceranno come un padre del nostro Rinascimento politico. Sempre che non abbia visto giusto Spengler il quale, nella sua profezia di sventura, ha avuto almeno il merito di volare un po’ più alto degli incorreggibili nazionalisti, dei patetici sognatori del riformismo nazionale e degli sprovveduti euroscettici dei giorni nostri.

Fonte immagine: Wikipedia.

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