Uno dei temi all’ordine del giorno è costituito dalla gestione della campagna vaccinale. Tutta Europa, infatti, è impegnata nella lotta al Covid-19 e ogni Stato sta affrontando l’emergenza secondo le sue possibilità. Ciò che ha, però, destato scalpore è rappresentato dagli accordi presi dall’Unione con le case farmaceutiche, produttrici e distributrici degli unici strumenti, attualmente a nostra disposizione, per combattere il Coronavirus.
Basti pensare al fatto che l’EMA, l’European Medicines Agency, non è autorizzata a seguire procedure di emergenza e che la Commissione negozia per i Paesi membri senza un apparato esperto e un’autorità specifica. Gli accordi stipulati prevedono, inoltre, che l’Unione partecipi al rischio di impresa con 2,8 miliardi di euro e che gli effetti collaterali dei vaccini siano a carico dei singoli Stati. Non sono, poi, previste penali in caso di ritardi nella consegna di questi antidoti. Un piano poco efficiente ed efficace, dunque.
Ma la vera domanda è: la colpa è da attribuire davvero all’Europa? E soprattutto, come fare per ottenere una migliore gestione della crisi sanitaria, in cui il nostro ordinamento – non da solo – versa?
Approntare una soluzione a tali quesiti non è semplice, ma sicuramente vi possono essere degli elementi che debbono essere considerati ai fini di una risoluzione di tali problematiche.
Se è vero, da una parte, che il motto dell’Europa è “uniti nella diversità”, dall’altra non si può fare a meno di considerare che su talune materie – e in taluni settori – vi dovrebbe essere una certa uniformità.
Sicuramente la materia sanitaria è una di quelle che, a mio avviso, dovrebbe essere interessata da tale comune impostazione, in modo da evitare – per quanto ciò sia possibile – discriminazioni e diseguaglianze tra i cittadini dell’Unione.
L’individuazione, infatti, delle categorie da vaccinare è stata assegnata ai singoli Paesi, così come la definizione degli strumenti e delle strategie per limitare la libera circolazione delle persone. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è risultato di centrale importanza e si è rivelato un terreno scivoloso su cui operare. Il Trattato di Schengen, infatti, sancisce il diritto, per tutto il popolo europeo e non solo, di spostarsi liberamente sul territorio degli Stati che aderiscono a tale patto internazionale. Costituisce, dunque, un’importante deroga la limitazione imposta dai membri dell’Unione, che si ritrovano, così, a dover istituire nuove barriere e frontiere, in un mondo ormai globalizzato e multiculturale, che quasi aveva dimenticato tali parole.
Ciò è stato fatto in nome della tutela della salute e della sicurezza pubblica, ma le differenze esistenti tra le nazioni europee si fanno sentire.
Troppe sono state le incertezze e i cambi di passo nell’ambito della campagna vaccinale e troppi sono stati gli “scivoloni” dei governanti dell’Unione, che si sono ritrovati a fronteggiare situazioni a dir poco paradossali. Basti pensare alle continue e più disparate dichiarazioni dell’EMA riguardo all’efficacia dei vaccini. La sospensione della somministrazione di Astrazeneca e le voci ricorrenti in merito agli effetti collaterali di questi farmaci hanno creato confusione e sconforto in una popolazione già provata dalla pandemia e dai problemi economici e relazioni che ne sono derivati. L’ansia e la preoccupazione hanno, dunque, animato ancor di più noi cittadini, che ci siamo sentiti presi in giro e poco protetti da una politica – nazionale ed europea – che fatica ad assumersi le sue responsabilità.
Si pensi, poi, alla scelta del Governo italiano di impedire – durante le festività pasquali – spostamenti tra Regioni, senza imporre, almeno all’inizio, un similare divieto per i viaggi compiuti da e per l’estero. Solo in un secondo momento si è intervenuti sul punto, ma certamente, ormai, il “danno” era fatto.
È proprio questa progettualità, in fondo, che manca. Manca al nostro Paese, ma anche all’Unione europea, che, forse, si è ritrovata, per la prima volta dopo tanto tempo, a dover gestire un problema più grande delle sue possibilità e facoltà.
In molti, non a caso, argomentano che l’Europa non sia dotata degli strumenti operativi per far fronte ad una situazione del genere: non sussiste un protocollo unico per le emergenze e la materia sanitaria è, da sempre, assegnata alla potestà degli Stati e – nel caso italiano – anche delle Regioni.
Difficile, quindi, se non impossibile, trovare regole uguali per tutti, ma forse necessario. Costituisce, infatti, un segnale positivo, a mio parere, la proposta di Regolamento formulata dal Parlamento europeo “su un quadro per il rilascio, la verifica e l’accettazione di certificati interoperabili relativi alla vaccinazione, ai test e alla guarigione per agevolare la libera circolazione durante la pandemia”.
Tale progetto, ora sottoposto all’attenzione delle Camere del nostro Paese, si pone come obiettivo quello di eliminare – o quantomeno ridurre – le disparità di trattamento esistenti in merito alla gestione della crisi pandemica nei vari Stati membri. Lo scopo dichiarato nelle premesse del Regolamento è espresso nei seguenti termini: “È necessario evitare la discriminazione di persone che non sono vaccinate, ad esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino è attualmente raccomandato, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate”. Si accenna, inoltre, ai problemi in tema di libera circolazione che molti soggetti hanno incontrato e stanno incontrando in questi mesi. È la storia delle famiglie divise, degli amici separati, degli impegni di lavoro mancati. È la storia di chi si sposta da un punto all’altro dell’Unione senza poter essere sicuro – e ciò lo testimoniano anche i firmatari della proposta del Parlamento europeo – che il proprio test antigenico valga o possa essere utilizzato oltre le frontiere nazionali.
La debolezza del sistema è lampante. E di tale circostanza ne sono – tristemente – consapevoli anche gli Stati membri e i loro rappresentanti presso le istituzioni del nostro continente.
Per queste ragioni, la finalità di quest’ambizioso progetto è quella di giungere all’approvazione di un “certificato verde digitale”, che consenta ai cittadini europei maggiore serenità nei loro spostamenti sui territori dell’Unione. Non si tratta, infatti, di una mera questione di formule, vuote ed astratte, bensì di mutamenti sostanziali, che influiscono concretamente sulla vita di ognuno di noi.
E, forse, costituiscono il primo passo verso una maggiore libertà. Una libertà che avrà il sapore della valigia, dei biglietti di un aereo, del rumore delle navi sulle onde. Una libertà che saprà di “generazione Erasmus”, non più intrappolata, ma lasciata alla mercé del destino. E tutto ciò nel rispetto di un diritto come quello alla salute.
È, in definitiva, necessario ripensare la stessa Unione europea come ordinamento plurale ed unico al tempo stesso, come comunità che deve ripartire da sé medesima e dai suoi cittadini. Sono questi ultimi il sale del processo di integrazione che lega i Paesi un tempo nemici fra loro. Sono loro gli artefici della pace perpetua di kantiana memoria, dando vita e forma al concetto di democrazia.
Solo, infatti, decidendo tutti insieme delle sorti dell’Europa si potrà giungere alla riduzione o all’eliminazione delle disparità esistenti ed alla tanto agognata solidarietà. Solidarietà invocata, annunciata, descritta, pretesa, sognata. Solidarietà che ancora non esiste, almeno non pienamente.
Solidarietà che sta a noi, cittadini consapevoli, cogliere e comporre, sulle note dell’“Inno alla gioia” del maestro Beethoven.
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