Una risposta europea alla crisi climatica
Nell’ultimo anno abbiamo assistito all’aggravarsi della crisi climatica, una crisi che, in realtà, ci portiamo dietro da quasi un secolo, ovvero dall’inizio di quello che viene definito Antropocene. Sebbene dal 2018 e, in particolare, dalla pubblicazione in quell’anno del report del IPCC, l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica su questi temi sia stata pressoché costante, la politica e le istituzioni a livello internazionale fanno ancora fatica ad agire in maniera coesa mentre, dall’altro lato, aumenta sempre di più la diffusione della sensibilità ecologica tra le nuove generazioni.
Stabilire l’inizio della crisi climatica è complesso, ma rimane fondamentale riconoscere l’importanza dell’antropocene per poter inquadrare il dibattito su cosa fare per limitarne i danni e per capire la portata reale di una crisi che non ha precedenti nella storia. Infatti, per capirne la portata e, di conseguenza, cosa davvero potremo fare come comunità globale per arginarla, bisogna entrare nell’ottica secondo la quale possiamo solo limitare le conseguenze più drammatiche di cambiamenti già in atto da decenni per gran parte irreversibili che, in un certo senso, hanno già cambiato il nostro modo di vivere.
La battaglia per la tutela del clima riguarda un fenomeno che non po’ essere per sua natura circoscritto all’interno dei confini nazionali e, tra tutte le problematiche che caratterizzano il tempo della globalizzazione, questa è sicuramente quella più emblematica quanto urgente. Infatti, dovrebbe ormai essere chiaro che non si può rispondere a questa crisi con strumenti nazionali ma, allo stesso tempo, sono necessari sforzi su tutti i livelli, dal locale al globale, per rendere qualsiasi sforzo realmente efficace. In una situazione del genere, più la comunità internazionale non riesce ad agire in maniera coesa e senza strumenti sovranazionali, più gli Stati nazionali si avvicinano al fallimento nel momento in cui potrebbero non essere più in grado di garantire il diritto alla vita.
Tra gli strumenti messi in capo abbiamo, da un lato, le varie Conferenze delle Parti (COP), di natura intergovernativa e che si sono rivelate spesso inefficaci poiché hanno lasciato alla volontà dei singoli Stati la possibilità di perseguire gli obiettivi proposti, come è successo per la COP21 di Parigi. Stessa sorte spetta ai report dell’IPCC i cui appelli, nonostante l’attenzione dei media e da parte dell’opinione pubblica a partire dal 2018, rimangono pressoché inascoltati dalla politica mondiale la quale, forse con qualche eccezione, ha lungamente ignorato gli appelli della comunità scientifica sul clima. Il meccanismo delle COP, insieme con l’IPCC in seno all’UNO, sono gli unici strumenti a disposizione per far convergere la comunità internazionale sul clima, ma per la natura intergovernativa dei loro processi decisionali e per i loro esiti non-binding, non hanno prodotto molti cambiamenti strutturali e continuano a tenere in stallo i possibili avanzamenti nel coinvolgimento di paesi come Cina e Russia sulle questioni climatiche.
In Europa la strada è ancora lunga ma sembra essere meno complessa rispetto ad altre aree del mondo. Questo è possibile grazie al sistema ETS, ormai attivo dal 2005. Tuttavia, urge ancora un ampliamento dei settori di competenza del meccanismo e l’affiancamento ad esso di una Carbon Tax che, insieme al Carbon Border Adjustement Mechanism stabilito dal NextGenEU, potrebbe dare risultati concreti già in tempi brevi in termini di riduzione di emissioni. A questa si aggiunge l’ultima Climate Law che stabilisce per legge il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050, insieme alla riduzione delle emissioni del 55% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. Il raggiungimento della neutralità climatica stabilito da questa legge implicherà il divenire “emissioni zero” per tutti gli stati membri diminuendo le emissioni e, al contempo, investendo nella tecnologia verde e la protezione dell’ambiente.
Provando a dare uno sguardo più ampio e più a lungo termine, rimane il problema della competenza, ovvero a chi compete, sia a livello europeo che a livello mondiale, le misure per la tutela del clima. Come già anticipato, è chiaro che la natura del fenomeno non permette che siano gli Stati nazionali a dover esercitare questa tutela, che invece dovrebbe spettare agli organi sovranazionali. Questo è dovuto anche alla necessità di agire, in maniera constante e continuata, nel lungo o lunghissimo termine, seguendo il principio della tutela delle generazioni future e rendendo la tutela del clima un obiettivo politico strutturale. Obiettivo difficilissimo da raggiungere in un momento storico in cui i governi democratici sono sempre più instabili davanti alle sfide della globalizzazione e che hanno come orizzonte politico solo le tornate elettorali. Al tal fine, a prescindere da quali misure o combinazioni di misure verranno attuate al fine di preservare alti livelli di sostenibilità sociale e ambientale, è necessaria la creazione di una nuova istruzione a livello europeo in primis, sperando che questa possa fare da modello per una controparte analoga a livello mondiale.
Il raggiungimento di questi obiettivi in Europa è possibile solo attraverso il completamento del processo di integrazione dell’Unione Europea e la creazione di istituzioni federali, al fine di tutelare il clima e prevenire le possibili disuguaglianze causate dall’emergenza climatica. Tuttavia, questi passi in avanti serviranno a poco se rimarranno circoscritti solo all’Europa. Ci sarà bisogno, quindi, di misure analoghe, per quanto possibile, a livello mondiale, attraverso una riforma delle istituzioni multilaterali.
La battaglia per il clima ci accompagna oramai da un secolo e si sta chiudendo sempre più velocemente la finestra per poter prevenire dei risvolti talmente drammatici da poter cambiare il nostro modo di vivere nel pianeta per sempre. Sebbene le nuove generazioni siano in prima linea in questa battaglia e facciano ben sperare, non è accettabile lasciare loro il fardello di un pianeta “in fiamme” e di dover fare i conti con danni irreversibili. Per questo motivo, il ruolo dell’Europa è chiaro e deve fare il suo dovere per dotarsi il prima possibile di istituzioni federali in modo da essere in prima fila a livello mondiale per chiedere un cambio radicale di passo nella tutela del clima. In particolare, solo attraverso l’integrazione a livello mondiale e la creazione di un governo mondiale dell’ambiente si potrà davvero evitare la catastrofe.
Migrazioni e politiche migratorie
Quello delle migrazioni è il più antico tra i temi di attualità. Per svariate ragioni, necessità di materie prime, condizioni territoriali, guerre o potere, l’essere umano si è sempre spostato in tutta quanta la sua storia, incontrando le difficoltà di ogni periodo. Oggi - burocrazia permettendo - trasferirsi in un’altra città, un altro Stato, un altro continente, in una realtà completamente diversa da quella in cui si è nati, non è più una chimera come lo è stata fino al secondo dopoguerra, o almeno, non lo è per chi può permetterselo a livello di diritti e di benessere economico. Se gli europei, da secoli instancabili migranti, non trovano grossi problemi nello spostamento all’interno dell’Unione, grazie agli accordi di Schengen, o nel resto del mondo, attraverso i visti, lo stesso non si può dire per nordafricani, centrafricani o mediorientali, i più bisognosi di una condizione di vita migliore, o almeno, decente.
Tra proclami di porti chiusi, propagande follemente xenofobe e intralci a revisioni di accordi precedentemente sottoscritti, i sovranismi, negli ultimi anni, hanno padroneggiato l’argomento. Di conseguenza, l’Europa non è stata in grado di rispondere con un’efficace politica migratoria a una crisi umanitaria sotto gli occhi di tutti, non tanto per i sensazionalismi della stampa, quanto per ciò che riporta il database di UNHCR, aggiornato pressoché quotidianamente. Il risultato a questa inazione è catastrofico: rapporti bilaterali ed esternalizzanti stretti con controparti che si trovano spesso a ignorare la tutela dei diritti umani, com’è accaduto tra Italia e Libia, episodi di police brutality sui migranti, si pensi a quanto è successo e - in silenzio - ancora accade sulla Balkan Route, tra Bosnia-Erzegovina, Croazia, Slovenia, Polonia e Ungheria, situazioni di ghettizzazione, Grecia e Danimarca, o di superficialità nell’accoglienza ai rifugiati, Francia.
In questo polverone, già alimentato nell’ultimo anno dai profughi provenienti dall’Afghanistan, dove il ritiro delle truppe statunitensi e NATO ha favorito il ritorno del regime talebano, e dal sempre crescente numero di migranti climatici, costretti - talvolta nemmeno per colpa delle proprie Istituzioni, ma di quelle di altri Stati - a cambiare aria perché la loro non più respirabile, ha fatto prepotentemente ingresso un nuovo soggetto: l’Ucraina. Dalla data simbolo dell’invasione russa ai danni del Paese di Kiev, quella del 24 febbraio, più di cinque milioni di cittadini ucraini, per lo più donne e bambini, ha lasciato il Paese dirigendosi verso ovest, principalmente in Polonia e Romania. Un numero senza precedenti che ha, ovviamente, lasciato spiazzata l’Unione europea, tanto che in Polonia, fino a metà marzo, la prima accoglienza è stata quasi completamente affidata alle ONG.
L’inadeguatezza delle politiche migratorie nazionali e dei fragili accordi internazionali, come il Patto mondiale per una migrazione sicura, ordinata e regolare (GCM) pianificato dalle Nazioni Unite, e sovranazionali, come il Regolamento di Dublino stipulato dall’Unione europea, sono sempre più lampanti. Riformare le odierne strategie in senso federalista appare l’unico mezzo per rispondere a una crisi che, oltre a lasciarsi dietro - via mare e via terra - una terribile striscia di sangue, a valle favorisce fenomeni di isolamento, di disuguaglianze e di criminalità.
Il citato Regolamento di Dublino ha le carte in regola per funzionare, fintanto che sia rivisto con una più equa distribuzione del numero di migranti di primo approdo sul territorio di tutti i Paesi aderenti. Ogni qualvolta si sia discusso nelle Istituzioni un cambiamento simile, alcuni Governi e partiti politici hanno fatto in modo di affossarlo, malgrado la solidarietà sia un valore fondante dell’Unione europea e malgrado gli stessi cittadini europei, sulla base di quanto appare sulla piattaforma della Conferenza sul futuro dell’Europa, siano pienamente convinti di esso. Non è più il momento di esitare e di dirsi soddisfatti di soluzioni pigre e limitate come il nuovo Patto sull’immigrazione e l’asilo presentato dalla Commissione europea nel tardo 2019, serve un piano completo e dettagliato.
Allo stesso tempo, serve che l’Unione europea guardi oltre il proprio naso, o meglio, oltre i propri confini. Accordi e disaccordi con i Paesi che violano i diritti umani non sono più possibili, la diplomazia lo è sempre. Per questo, l’auspicio è che l’UE ampli la costruzione di una seria e concreta politica migratoria non solo attraverso un dialogo costante e fitto con gli Stati limitrofi, ma anche attraverso un rapporto positivo con i Paesi africani, approfondendo i progetti di partenariato euro-africani, basati sui principi dell’unità africana e dello sviluppo sostenibile.
Infine, l’Europa deve tornare a osservare le pietre su cui è stata costruita. L’Europa si è sempre detta una casa comune, eppure oggi vediamo tante Europe diverse all’interno dello stesso spazio. Il fatto che una determinata categoria riscontri difficoltà, spesso insormontabili, in ambiti base della vita quotidiana è impensabile. Eppure ciò è molto frequente nei migranti, che trovano più difficoltà rispetto ad altri cittadini nell’accesso a settori quali l’istruzione, il lavoro e l’associazionismo. Una politica migratoria seria prende in considerazione anche questo aspetto. Il benessere di tutti gli abitanti deve essere curato a livello istituzionale, delegare a ONG o a singoli cittadini la gestione di una fetta di essi non è solo un controsenso valoriale, ma anche un fattore che compromette la credibilità politica.
Il Manifesto di Ventotene indicava una strada né facile né sicura ma da percorrere, quella verso la federazione europea. Ecco, sulle migrazioni ci troviamo da anni su un tratto sterrato dove il rischio di inciampare è decisamente alto. Da federalisti sappiamo quali sono gli strumenti adatti a dargli una battuta, e crediamo che già da tempo sia arrivata l’ora che le Istituzioni li sfoderino.
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