Il campo profughi: fiore all’occhiello della non-accoglienza europea

, di Lorenzo Soprani

 Il campo profughi: fiore all'occhiello della non-accoglienza europea

Eurobull.it, in partnership con il Centro Einstein di Studi Internazionali, pubblica di seguito un articolo realizzato come attività di ricerca all’interno del CESI Internship Research Project, http://www.centroeinstein.eu/.

Riflessioni e testimonianze dalla conferenza “I campi di confinamento nel XXI secolo e le responsabilità dell’Unione Europea” promossa dalla rete Rivolti ai Balcani, Rete DASI Friuli Venezia Giulia e Centro di accoglienza E. Balducci.

Il tragico conflitto ucraino ha mostrato il volto accogliente dell’Europa, che si è fatta carico, quasi senza esitazione, di gran parte degli oltre 6 milioni di profughi in fuga dai bombardamenti e dagli eccidi dell’esercito russo. A questa indiscutibile esplosione di solidarietà ha fatto però eco la voce di una parte della società civile, la quale ha tenuto a sottolineare come tutto ciò rappresenti un’eccezione alle politiche migratorie Europee, che negli ultimi decenni si sono concentrate sulla sorveglianza e il controllo delle persone migranti piuttosto che sull’accoglienza. È quindi sul volto più oscuro di questa Europa del doppio standard che si è concentrata la conferenza tenutasi a Zugliano (Udine), organizzata dalle reti Rivolti ai Balcani e Diritti, Accoglienza e Solidarietà Internazionale del FVG presso la struttura ospitante del Centro E. Balducci. Il summit ha voluto riassumere lo stato dell’arte delle politiche Europee in materia di migrazione degli ultimi vent’anni in una parola: confinamento. L’emblematico titolo “I campi di confinamento nel XXI secolo e le responsabilità dell’Unione Europea” suona infatti come un j’accuse che, come discusso da un variegato panel di esperti nazionali e internazionali, sembra avere più che una ragion d’essere.

La conferenza si apre con l’intervento di Don Pierluigi Piazza, presidente del Centro Balducci, storica struttura che dell’accoglienza ha fatto anche una battaglia culturale e politica, le cui parole sono state tanto semplici quanto potenti: “Ci si interroga come mai l’umanità sia tornata ad agire in questo modo”. È un quesito interessante perché nell’emblema di queste politiche segregazioniste, la struttura-campo, è difficile non identificare la continuità storica tra quelli che furono i campi del periodo coloniale, poi nazista, e quelli che ad oggi vengono elogiati da ministri ed alti funzionari come strutture efficienti, funzionali, persino all’avanguardia. Proprio per questa apparente amnesia siamo chiamati, secondo Annalisa Comuzzi (Rete DASI FVG), a mettere in atto una vera e propria “resistenza culturale”, che sia in grado di esporre le radici che hanno portato a decisioni e pratiche disumane, come quelle in atto al CPR (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Gradisca d’Isonzo, non lontano dal luogo della conferenza. Un posto che nelle sue parole si configura come un vero e proprio “spazio concentrazionario” che ha portato alla morte di due persone in tempi recenti, detenute a causa dell’etichetta di migranti irregolari che si portavano addosso. La decisione di parlare di questi temi in Friuli non è un caso: Trieste, com’è noto, non è solo una delle ultime tappe della Rotta Balcanica, ma anche luogo che ha visto consumarsi diverse violazioni dei diritti umani. Oltre al sopracitato CPR, vengono ricordate le pratiche di riammissione a catena messe in atto dalle autorità italiane, slovene e croate - condannate dal Tribunale di Roma dopo una lunga battaglia legale - attraverso le quali chi presentava domanda d’asilo in Italia riappariva, dopo una serie di deportazioni e in violazione del principio di non refoulement, in Bosnia Erzegovina.

Ma che cos’è lo spazio-campo e perché può definirsi un luogo di confinamento? Gianfranco Schiavone, esperto di diritto d’asilo, cerca di delinearne alcune caratteristiche. Questo spazio, che purtroppo da decenni rappresenta una realtà quotidiana per migliaia di persone in Africa e Medio Oriente (si pensi al Libano, al Sahara Occidentale, al Kenya), si sta oggi moltiplicando anche lungo le frontiere europee. Allestiti in vecchi edifici militari o creati ex-novo, la loro vulnerabilità strutturale e l’inadeguatezza dei servizi è giustificata da una retorica che li vuole come misura emergenziale e temporanea. Anche solo considerando che dalla cosiddetta “crisi” dei rifugiati siriani sono passati oltre 7 anni, tale retorica appare totalmente infondata, così come appare ingiustificato il loro posizionamento: costruiti quasi sempre in luoghi remoti e difficilmente raggiungibili, rendono difficile l’accesso ai servizi base e all’interazione sociale che offrono i centri urbani. I regolamenti interni vietano spesso qualsivoglia tipo di visita all’interno del campo, esercitando un controllo totale sulla vita dei residenti, costretti a vivere in condizioni di para-detenzione che costituiscono una violazione de facto della libertà individuale.

Lo Stato simbolo della politica dei campi in Europa è stato a lungo tempo la Grecia, considerata vero e proprio laboratorio delle policy europee e quindi meritevole di attenzione per intercettare i futuri trend in materia di governance delle migrazioni. Come l’Italia, anche la Grecia ha perseguito il cosiddetto approccio hotspot proposto dall’UE, che ha trasformato i principali porti d’ingresso in hub tecnico-umanitari per la gestione degli arrivi. Ma se il nostro Paese ha progressivamente adottato un sistema di ripartizione territoriale, le isole greche sono state invece esposte a un processo di campizzazione. Diventando un una sorta di limbo per i richiedenti asilo (si può arrivare ad attendere per anni l’inizio della procedura), isole come Lesbo e Chios hanno visto la nascita di quelli che da accampamenti informali si sono trasformati, grazie a consistenti finanziamenti UE, in strutture ufficiali, ipertecnologiche e iper-sorvegliate. È proprio questa la descrizione che viene portata dal movimento Europe Must Act del nuovo “Centro Chiuso ad Accesso Controllato” dell’isola di Samos, una struttura di accoglienza che di accogliente ha poco o niente. Circondata da recinzioni e filo spinato, videocamere e droni, prevede perquisizioni all’ingresso, tornelli con badge identificativo e restrizioni alla libertà di movimento in base all’andamento della propria procedura di asilo.

Investendo su misure securitarie, che la pandemia ha dato l’opportunità di ampliare notevolmente, si lasciano indietro, forse volutamente, i servizi di base. Lasciando le isole, Jacopo Rui (One Bridge to Idomeni) racconta come l’assistenza legale, psicologica e sanitaria nei campi del mainland greco esista solo sulla carta, mentre le ONG come la sua, che pure tentano di sopperire a queste colpevoli mancanze, sono costantemente ostacolate attraverso l’imposizione di barriere burocratiche e una retorica criminalizzante. Chi vive la dura realtà del campo, tuttavia, non resta semplicemente a guardare mentre il governo Mitzotakis continua imperterrito a erodere i propri diritti. Nell’ultimo anno, ci ricorda Martina Tazzioli (Goldsmiths, University of London), i tagli al supporto economico e alla distribuzione di alimenti hanno scatenato proteste massicce da parte di persone richiedenti asilo, che hanno abbracciato temi ben più ampi rivendicando, ad esempio, il diritto all’istruzione, e affermando la propria volontà a costruire una vita dignitosa.

Sono però diversi i livelli su cui questa politica, che alcuni autori hanno paragonato a quella di apartheid, agisce. Non solo scogli nel mediterraneo o altopiani sui monti del continente, gli spazi del confinamento diventano talvolta interi stati. Gli interventi delle ricercatrici e attiviste di Border Violence Monitoring Network ci ricordano come i respingimenti estremamente violenti della polizia croata al confine con la Bosnia ed Erzegovina consentano di mantenere fisicamente le persone al di fuori dell’Europa, così che non possano godere dei diritti che l’accesso al territorio dovrebbe garantirgli. Queste violazioni ormai sono innegabili, ma i risultati ottenuti dopo anni di denunce sono esigui: il meccanismo di monitoraggio voluto dall’UE non solo sembra essere gestito dallo stesso accusato (il Ministero dell’interno croato) ma sembra addirittura inesistente, coperto da accordi e scambi di favori tra burocrati interni e funzionari europei. Un nodo fondamentale, ribadiscono gli oratori, resta la strategia di esternalizzazione delle frontiere, perseguita attraverso accordi multi- e bilaterali che UE e stati membri stipulano con Paesi terzi. Se il pensiero degli italiani non può che correre alla Libia, Adriana Tidona (Amnesty International) ci parla invece di Turchia, la prima a rivoltare contro l’Europa stessa il suo obiettivo di confinamento spaziale utilizzando, nel febbraio-marzo 2020, i corpi delle persone migranti al confine greco come strumento di pressione politica, in una guerra ibrida dalle conseguenze inumane simile a quella cui abbiamo assistito al confine tra Polonia e Bielorussia. A seguito dell’escalation raggiunta, la distensione politica non ha certo garantito più diritti ai richiedenti asilo nel Paese, ci tiene a sottolineare l’avvocato Mahmud Kacan. Il blocco sostanziale del sistema d’asilo turco si traduce in deportazioni di persone verso Siria e Afghanistan, costringendo chi tenta di fuggire a vivere in clandestinità e facendo fiorire l’economia dei trafficanti di uomini – mentre il sostegno economico dell’Unione è stato da poco rinnovato.

Ma, quando l’evidenza sembra puntare il dito contro le istituzioni, alla conferenza viene ribadita l’importanza di cercare il dialogo con esse. A dimostrarlo è la presenza degli Europarlamentari Pierfrancesco Majorino e Tineke Strike, che riconoscono il fallimento delle attuali politiche europee e rintracciano la tendenza nociva che, spesso a prescindere dal campo politico di appartenenza, definisce la migrazione come un problema da risolvere e non come la storia di donne e uomini portatrici di diritti. La crisi ucraina potrebbe offrire un’opportunità per ripensare il sistema, ma il dialogo politico attorno al nuovo Migration Pact e alla riforma Schengen sembra nuovamente trovare il proprio baricentro grazie ad un condiviso approccio securitario. Uno dei problemi evidenziati risulta essere il dialogo asimmetrico, talvolta polarizzato, tra Parlamento e Commissione. “Il sistema europeo è uno dei più efficienti nel produrre decisioni, il problema è la qualità delle decisioni” afferma Emilio de Capitani (per 14 anni segretario della Commissione LIBE), che traccia un breve excursus storico delle criticità interne alla macchina politica europea. A suo parere, le ricadute pratiche dei regolamenti non sono assolutamente percepite a livello decisionale, mentre la sicurezza è diventata una vera e propria ossessione all’interno del Consiglio, grazie al ruolo preponderante dei Ministri dell’interno che trovano una sponda, all’interno della Commissione, in una sempre più incisiva DG Affari Interni. Importante anche il ruolo e l’autonomia che viene concessa ai funzionari delle agenzie europee come Frontex, EASO ed Europol nel definire gli orientamenti di policy attraverso i propri strumenti (già oggetto della lucida analisi di Jane Kilpatrick, Statewatch). Nonostante una società civile sempre più coordinata ed incisiva, il Parlamento, pur dimostrandosi recettivo in materia di diritti, è destinato a rimanere poco rilevante se non trova la coesione e il coraggio per usare gli strumenti che ha a disposizione.

La politica del confinamento si configura quindi come una pratica di gestione dello spazio altamente lesiva dei diritti umani e delle libertà fondamentali di individui che, a volte sembra quasi che lo si dimentichi, non hanno commesso nessun reato. È quasi inevitabile, ascoltando queste parole, tracciare un parallelismo con quella che fu, in epoca fascista, la pratica del confino. Sono quasi le stesse isole mediterranee e gli stessi paesini sperduti, una volta carceri a cielo aperto dei prigionieri politici del regime, a trasformarsi in luoghi in cui il tempo si ferma e la vita, privata della sua linfa sociale, rischia di esaurirsi. Se quindi è giusto insistere sull’implementazione di canali di accesso legale e facilitazioni alla libertà di movimento, è altresì fondamentale riflettere sulla valenza politica e culturale della figura del rifugiato, in grado di mettere in crisi, come già notava Hannah Arendt in tempi meno sospetti, il sistema degli stati-nazione. Allo stesso tempo, sembra rendersi necessario demigrantizzare il discorso che ruota attorno a queste politiche disumane per analizzarle con rinnovata lucidità, come incita la sociologa Monica Massari (Università di Milano), interrogandoci sulla “sostanza oscura della nostra vergogna”, ovvero del contesto sociale e culturale nel quale le pratiche di cui abbiamo parlato si definiscono fino a diventare un’anestetica normalità. I familiari delle vittime stanno già chiedendo conto delle migliaia di morti di cui si è macchiata l’Europa: che cosa risponderemo?

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