Parliamo ancora di Patrick Zaki e della sua detenzione in Egitto ancora in attesa di un regolare processo

Il caso Zaki è (anche) un caso europeo

, di Davide Emanuele Iannace

Il caso Zaki è (anche) un caso europeo
Fonte: Una immagine di Patrick Zaki da eipr.org, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Patrick_Zaki.jpg

Ciò che è successo e sta ancora succedendo a Patrick Zaki non è solo un problema di diritti umani e di riflessione sui rapporti tra l’Italia e il suo ruolo nel Mediterraneo. È, anche, un problema di Europa, di Unione che riflette su sé stessa e su quale approccio vorrà avere rispetto il tema dei diritti fondamentali lì dove sono violati ripetutamente.

Il 7 febbraio 2021 è stato un anno in carcere. Il 16 giugno fa trent’anni di vita. Patrick Zaki è ancora in prigione, in Egitto. A nulla son valsi gli appelli portati avanti dalla società civile italiana e oltre. Il 6 aprile è stato rinnovato di 45 giorni, per l’ennesima volta, la sua prigionia. Ricercatore e attivista, le accuse del governo egiziano sono state quelle di propaganda sovversiva. Mai provate, il dottorando presso l’università di Bologna attende ancora un vero processo, che non si è mai tenuto davvero.

Patrick Zaki, come la triste memoria di Giulio Regeni ci ricorda, non è un caso isolato. Un articolo di Al-Jazeera ha coperto ampiamente il caso delle tante detenzioni illegali, in condizioni igienico-sanitarie misere e in presenza di violenze da parte dei carcerieri contro i detenuti al limite della tortura, se non ben oltre. Il caso Mahmoud Hussein è emblematico: giornalista dell’emittente qatariana, è da quattro incarcerato arbitrariamente, senza nessuna reale accusa portata dal regime del generale al-Sīsī e dai suoi rappresentanti.

Un Egitto, quello di al-Sīsī, platealmente traditore dei principi lanciati dalla primavera araba del 2011 che aveva sovvertito il regime preesistente di Hosni Mubārak. La via delle elezioni e di un processo di crescita democratico si bloccò dopo la destituzione di Muḥammad Mursī nel 2013, a cui è seguita la salita al potere di al-Sīsī.

Un Egitto, quello di al-Sīsī, complicato, frammentato, che ha vissuto anni turbolenti. Nel Sinai si trascinano ancora gli scontri con cellule qaediste e affiliate al vecchio Califfato islamico. Le dispute tra Egitto e i suoi vicini meridionali per i nuovi progetti di dighe sul fiume Nilo sono costanti, come costante è la rivalità con i vicini paesi della Penisola arabica. L’epidemia di Sars-Cov-2 ha inflitto inoltre un altro pesante colpo alla già fragile economia egiziana, come nel resto del pianeta. Questi problemi hanno concorso a peggiorare una situazione sociale e culturale già fragile, che aveva trovato nel 2011 il suo momento di espressione e di rivolta contro l’anziano, vecchio regime di Mubārak.

Patrick Zaki si ritrova nelle stesse condizioni delle centinaia, se non migliaia, di persone che sono state registrate come minacce da parte del regime del generalissimo egiziano. Persone che si ritrovano come messo in luce dalle più diverse organizzazioni non-governative locali e internazionali, in condizioni deplorevoli. A livello sanitario – condizione più che mai peggiorata dalla pandemia globale tutt’ora in corso – ma soprattutto a livello umano. Da più parti sono state mosse accuse al regime di torturare i prigionieri.

Nonostante le inesistenti qualità democratiche della repubblica egiziana contemporanea, rimane uno dei principali partner italiani nel Mediterraneo. Non solo nel campo energetico, come dimostrano le iniziative ENI nella regione. Sul lato dell’export della difesa, rimane esemplare il caso delle FREMM, con cui il governo italiano ha ceduto alcuni dei modelli inizialmente previsti per la Marina militare all’Egitto.

Il problema sul posizionamento egiziano rispetto all’Italia è un problema non nuovo. Se n’è parlato in precedenza moltissimo, rispetto alla tragica vicenda, ancora irrisolta, di Giulio Regeni. Anche in quel caso molte sono state le critiche, in particolare rivolte alle carenze messe in luce dai diversi attori politici che si sono ritrovati a trattare all’Egitto, che hanno posto anno dopo anno gli scambi commerciali e tecnologici ben al di sopra del valore delle singole vite umane.

Qui ruota il vulnus di tutta la questione, anche quella di Patrick Zaki. Dipende dalla priorità che determina la propria azione politica. Se l’idea è essere un partner commerciale dell’Egitto, se l’Egitto è un mercato e l’Italia uno dei maratoneti che vuole conquistarlo prima di altre nazioni e rispettive compagnie, l’azione italiana appare sensata. Una vita o due sacrificate sull’altare delle possibilità geopolitiche.

Forse sul breve termine questa visione ha una sua coerenza in seno a queste priorità. Sono queste però le priorità] che dovremmo darci? Vogliamo portare avanti un certo punto di vista, per cui una vita umana non vale meno di una fregata da circa mezzo miliardo di valore o poco sopra. No, al contrario, una sola vita umana vale di più, deve valere di più. Deve perché non è possibile continuare a ragionare nel XXI secolo ancora e ancora con le medesime logiche con cui abbiamo ragionato e portato avanti il globo lentamente verso il disastro ambientale, economico e culturale.

L’interesse puramente geopolitico, questo tipo di approccio che viene spesso portato avanti dai teorici più vari – e anche da coloro che commentano questi affari da più lati – non è un dato oggettivo, ma è figlio di un costrutto e di un portato storico-culturale che si è trascinato nel XX secolo fino al ventennio contemporaneo. Questo modo di leggere le entità nazionali come spiriti a sé in perenne competizione per la propria letterale sopravvivenza, e che permea intorno il vantaggio economico-politico tutta l’azione statale, porta a considerazioni come quelle che relegano Zaki in prigione e nessuna voce istituzionale attiva per evitarlo.

Delle proteste sono esplose e hanno preso la forma di proposte, come quella nel Parlamento italiano per dare la cittadinanza italiana a Patrick Zaki, così come nel ruolo dei diplomatici stranieri a Il Cairo che hanno tentato di fare dei passi nella rete della giustizia egiziana per arrivare a capo di questa storia. Proposta che poi ha trovato per fortuna sua una attuazione quasi bipartisan, eccetto pochi franchi tiratori.

Storia che si inserisce non tanto nel mero caso giudiziario – di per sé importante, ma sintomo di un più grande problema legato da un lato alle difficoltà interne dello stato mediterraneo di trovare il suo spazio e la sua realtà regionale, dall’altro anche gli stessi stati europei che stanno venendo a patto col loro passato coloniale e con un mondo che non ruota più intorno il Vecchio mondo.

Forse in questo caso, proprio nel loro movimento alla ricerca di una identità e di un nuovo modo di stare in questo nuovo mondo contemporaneo, il caso Zaki assume la valenza di un caso internazionale tra Egitto e Italia che si va a inserire nella più larga partita mediterranea, ma anche un caso etico e morale che ci porta a confrontarci col dilemma sullo scegliere tra profitto e posizione strategica e quelli che consideriamo i nostri valori.

Vero, non si può sopravvivere nel mondo senza anche un certo pragmatismo politico. Dopotutto, siamo circondati da attori nazionali e non che ragionano seguendo degli schemi valoriali opposti, se non a volte ostili, ai nostri. Ciò è assolutamente vero, ma questo non vuol dire non decidere di piantare il piede e mantenere una posizione costante. Il caso Zaki non è solo un’occasione di mettere i puntini sulle “i”, per salvare letteralmente la vita a un giovane ricercatore non ancora trentenne – farà gli anni, infatti, il 16 giugno prossimo venturo – e rappresentare un caso che, chissà, forse potrà estendersi anche a tanti altri prigionieri politici incarcerati senza motivo

Cosa c’entra l’Europa? Per il suo peso relativo decisamente maggiore dell’Italia, l’Europa ha la possibilità di esercitare da un lato maggiori pressioni rispetto al singolo paese europeo, ma d’altro canto, ha anche la possibilità di innestare un processo virtuoso di cultural policy. Con tutti i suoi difetti, il continente europeo rimane la patria di un pensiero liberale che ha posto su un piedistallo i diritti politici, sociali e civili. Un piedistallo che – nonostante le critiche che vengono mosse, a volte anche giustamente ad una certa impostazione ideologica – è più che un punto d’arrivo, una rampa di lancio per fare passi in avanti verso l’estensione di questo insieme valoriale.

L’Unione europea ha la chance di influenzare attivamente le nazioni intorno lei e non solo. Questo non tramite gli strumenti post-coloniali della dominazione culturale ed economica, ma piuttosto tramite l’incontro e il confronto continuo, come avviene ad esempio all’interno dei network sostenuti e finanziati dall’Unione – come nel caso di MEDICITIES.

Nel caso egiziano, l’Unione europea ha dalla sua parte la possibilità di influenzare le decisioni del governo di al-Sīsī grazie al ruolo delle molte compagnie europee nel territorio egiziano. Questo potrebbe costarci, economicamente? Si, ma vorrebbe dire mandare un forte segnale, a sostegno di quanti, come Patrick Zaki, sono ingiustamente incarcerati in totale assenza di accuse. Un segnale non solo ai prigionieri egiziani, ma anche per chi, sia nella zona mediterranea che non, viene vessato, torturato, ucciso, per aver espresso una posizione diversa da quella degli autocrati.

Eticamente, è la scelta migliore che si possa fare per rimanere fedeli agli ideali ascritti nei testi fondamentali dell’Unione. Pragmaticamente, se vogliamo trovarvi anche un motivo pragmatico, è anche il miglior modo per esercitare una nuova forma di soft power che porti l’Unione al divenire un simbolo visibile dei propri ideali, ma non solo. La possibilità rinnovata di agire potrebbe aprire le porte a nuove possibilità per l’UE di diventare un attore internazionale tanto più credibile quanto attivo, sostituto agli occhi delle élite non al potere in tanti paesi delle relazioni con nazioni come Russia e Cina, che spesso prediligono governi autoritari ma con cui ritrovano più facilmente occasioni di incontro e di discussione.

L’Unione europea, se vuole sopravvivere ai turbolenti anni ’20 del XXI secolo, deve trovare il suo spazio nel mondo. Uno spazio che non deve per forza essere un derivato pedissequo del mondo moderno che ci ha trascinati in due guerre mondiali e in un caos mai conosciuto prima. Casi come quelli di Patrick Zaki offrono la chance di mostrare che non è più il mero calcolo economico-politico la priorità – piuttosto, un derivato – ma che è la vita e il suo rispetto a guidare l’azione verso il caotico, complesso ma pur sempre futuro prossimo.

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