Perché Barkhane ha dimostrato che i vecchi metodi non funzionano, e forse non hanno mai funzionato

Il fallimento del Vietnam francese in Sahel

, di Davide Emanuele Iannace

Il fallimento del Vietnam francese in Sahel
Fonte: Wikimedia Commons, contatti con la popolazione locale del Mali, Operazione Barkhane, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Op%C3%A9ration_Barkhane.jpg

La Francia ha deciso che l’operazione Barkhane deve finire. Iniziata nel 2014, succedendo all’operazione Serval, che nel 2013 aveva visto un primo dispiegamento militare contro l’avanza jihadista in Mali, era ad oggi accompagnata nell’area del G5 Sahel – il gruppo di nazioni composte da Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso, Mauritania – dall’operazione dell’ONU MINUSMA.

Tanto MINUSMA che Barkhane hanno avuto un costo, alto, e non solo economico. MINUSMA ha visto il dispiegamento di un totale di 13.500 soldati, di cui si contano almeno duecento morti. Barkhane, nel complessivo, ha dispiegato nella regione 5000 uomini circa. L’operazione solo nel 2020 è costata un miliardo di euro e ha ucciso dall’inizio dell’operazione circa cinquanta soldati francesi. Può non essere arrivato alle orecchie italiane, ma la stampa e l’opinione pubblica francese hanno discusso e discutono ancora moltissimo del tema.

Barkhane però non è un problema esclusivamente francese, anzi. Innanzitutto, perché già di per sé la presenza di MINUSMA nella regione dà un ampio respiro internazionale alla difficile situazione nell’area del G5. Un’area delicata, di cui è inutile ricordare dettagliatamente tutti i problemi che la infestano, e che comprendono tanto problemi socioeconomici che il jihadismo estremista di Boko Haram – strettamente legati tra loro come fattori di crisi.

A Barkhane sta succedendo la Task Force Takuba, che vede non solo forze francesi sul campo, una un mix di estoni, cechi, svedesi, italiani, forze speciali greche, ucraine, ungheresi e danesi – all’appello manca la Germania, che si dice sia stata due volte invitata e per due volte abbia respinto di impegnarsi in questo Iraq tutto franco-europeo. Per molti, Takuba è un buon segno, il segno dell’Europa che va ad interagire nella politica estera con un fronte unico, in tal caso, una task force sotto un solo comando unificato che dovrebbe affrontare quello che rimane uno scenario complesso, dove diversi attori – non solo attori locali come le cinque nazioni del G5, i gruppi ribelli, eversivi o terroristici – ma anche stakeholder internazionali come compagnie commerciali e altri stati, hanno numerosi interessi nella regione. Solo se volessimo parlare della questione migratoria, potremmo dire che la zona del Sahel è importante per l’Europa e per le nazioni del Mediterraneo, tra cui proprio Francia e Italia. È uno dei tanti motivi per interessarsi a quella che rimane una delle sacche di instabilità del continente africano.

Una situazione di cui Barkhane e MINUSMA, alla luce del recente colpo di stato in Mali, non hanno ancora trovato nessuna soluzione. Perché, per come molte altre di queste situazioni, una pioggia dall’alto di soluzioni non farà nascere nessuna pianta solida, in mancanza dei giusti semi. Barkhane non si discosta dal modus operandi tipico delle grandi potenze di intervenire in aree che loro interessano. Per ora, non è stato così differente dall’Afghanistan, dall’Iraq – tanto del XX che del XIX secolo. Un approccio che dovrebbe essere a cavallo tra la politica e l’operazione militare, che non riesce però a intervenire sui motivi per i quali paesi del genere cadono in lotte simili. Non vogliamo però parlare delle specificità di Barkhane e MINUSMA, i fallimenti e anche i loro successi.

Ci interessa un pezzo del dibattito che gira intorno ad operazioni come Takuba: siamo dinanzi operazioni europee o nazionali? Di per sé, Takuba rimane un’operazione a guida nazionale, che mira a rafforzare la situazione del Sahel e del G5 tramite supporto, mentorship delle forze locali e assistenza, come riportato dal sito della Difesa italiano. L’operazione arriva anche in un momento delicato per le cinque nazioni coinvolte nell’area, che si ritrovano colpite dalla pandemia, dai jihadisti – gruppi con i quali eventuali trattative non sono del tutte escluse – e dalla mancanza cronica di un insieme di politiche e riforme allo sviluppo che ne minano la stabilità.

L’approccio di Takuba non sembra voler cambiare quello di Barkhane. Diluisce a più nazioni europee il ruolo di svolgere ciò che in parte i francesi in autonomia facevano con Barkhane, meno sembra le operazioni militari dirette – seppure quel vago “assistenza” non ne suggerisce la totale esclusioni - appoggiandosi anche alla decisione del Consiglio di sicurezza ONU del 2017 sul Sahel – la numero 2359, che ha supportato l’impiego di una task force al fine di combattere i gruppi terroristici presenti nell’area. Mancano però due elementi fondamentali a Takuba. Da un lato manca un approccio integrato che anche le nazioni stesse del Sahel richiedono, un approccio che non sia un mero schieramento di mezzi e forze armate – che sia anche questo – ma che cerchi di colpire gli estremisti alla radice, ovvero alla mancanza cronica di cibo, accesso alle risorse idriche, servizi fondamentali, corruzione. Dall’altro non tiene in considerazione che l’Unione europea è già schierata nella regione con diverse operazioni quali Eutm Mali, Eucap Sahel Mali ed Eucap Sahel Niger e a cui partecipa anche l’Italia stessa.

Perché quindi sdoppiare lo sforzo, far succedere a Barkhane un’altra operazione che vede impegnate le nazioni, in prima linea, anche se con un impegno che vagamente ricorda una sorta di sforzo comune europeo? Verrebbe da pensare che, semplicemente, diverse nazioni abbiano seguito direttamente l’operato francese nell’area, in una missione che rispetto Barkhane promette ben poco.

Manca un approccio che sia tanto sistemico che innestato su delle nuove logiche, logiche che siano veramente europee e che soprattutto escano da un’ottica puramente militare. Per quanto questo tipo di supporto sia quantomeno necessario per frenare gli estremisti e la loro violenza – quella di Boko Haram e degli eredi dell’ISIS soprattutto – allo stesso tempo l’UE deve lavorare in sincronia con i paesi locali per poter sconfiggere le cause, profonde, che stimolano le attività illegali locali e che portano legna al fuoco degli estremisti stessi. Il secondo fattore che quindi possiamo dire manchi a Takuba è la presenza di un comando unificato, di un comando unificato che sia però inserito all’interno dell’organizzazione europea, più che semplicemente multinazionale. Vogliamo essere propositivi: perché non impiegare un European Battlegroup, all’interno della logica della politica di sicurezza comune? O perché non impegnare il Military Planning and Conduct Capability per la missione di addestramento? Gli strumenti non bisogna inventarli del tutto da zero, ma molti sono già a disposizione. In particolare, alla luce del fatto che a Takuba partecipano già molte nazioni europee con piccoli contingenti. Perché non lo si è organizzati sotto una forma più direttamente europea?

Un approccio sistemico che vuol dire sia una strategia a lungo termine, che un uso non indifferente di risorse umane, politiche, ed economiche, che sono quelle che ad oggi le nazioni stati-membro non hanno ancora fornito all’Unione stessa, la cui stessa struttura impedisce di trovare un accordo in politica estera che sia davvero comunee non figlio delle contingenze o della politica estera delle singole nazioni, come della Francia.

Se c’è qualcosa che Barkhane ci ha lasciato insieme all’inizio di Takuba, è che ancora troppo la politica estera europea e i suoi interventi seguano una logica nazionale. Piuttosto, la crisi del Sahel e del G5 ci dice che un approccio strategico, che sia capace di stimolare alla cooperazione tra le nazioni e nelle nazioni coinvolte, è quanto mai necessario. È impensabile, ad esempio, non trattare nel Sahel senza coinvolgere anche la stessa Unione africana, un’altra entità che in un contesto – diverso e molto più complesso sotto taluni punti di vista – sta cercando una sua forma anche d’azione.

Il Sahel, se vogliamo renderlo campo di prova della politica estera europea, non può affidarsi ad operazioni come Barkhane e Takuba, ma piuttosto deve vedere un dispiegamento europeo, sulla falsa riga delle operazioni già presenti. Continuare con operazioni il cui comando non è europeo ma nazionale, brandendole però come token di una fantomatica politica estera europea, è controproducente.

Di certo soluzioni solo militari non funzioneranno. Non hanno funzionato negli scorsi anni, non hanno funzionato in contesti simili nel corso delle passate decadi. C’è bisogno di interfacciarsi con i governi locali, quelli ancora in piedi e mediamente stabili, cercando di sostenere il loro operato prima che altri casi, come quello del Mali, possano avvenire di nuovo e con conseguenze ben peggiori. C’è tanto da fare, tante sfide – estremisti, ma anche il cambiamento climatico, la lotta ala fame e alla povertà, l’ottenimento di un sistema economico più sostenibile – che richiedono uno sforzo globale, ottenibile solo tramite la cooperazione e la collaborazione. L’UE ha già fatto molto, ma può fare sia di più che meglio. E lo può fare solo in partnership con quelle nazioni che saranno e sono colpite dai disastri che l’abuso indiscriminato del pianeta ha generato – come le nazioni del Sahel.

Trasformare operazioni come Takuba in operazioni europee, a guida europea, che rispondono a esigenze e al comando europeo, inserite in un approccio strategico e una politica estera coerente e a lungo termine, è solo il primo passo non solo per un passo ulteriore rispetto l’Unione – e noi sappiamo benissimo quale, la Federazione – ma anche per un contrasto più efficiente alle crisi del domani.

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