La Catalogna, come era prevedibile, ha determinato il risultato delle ennesime elezioni spagnole. Il segnale è chiaro: tengono i socialisti, che hanno mostrato un atteggiamento cauto ma fermo nei confronti del secessionismo di Barcellona; avanzano i popolari, contrari ai rigurgiti indipendentisti; stravince Vox, che vorrebbe mettere al bando qualsiasi tentazione non solo secessionista ma anche indipendentista.
L’unica soluzione oggi, per non tornare alle ennesime elezioni fra qualche mese, è quella di una grande coalizione, che veda popolari e socialisti, insieme, al governo del paese. Una soluzione tuttavia che, se non sarà trovata una sintesi di buon senso, rischia di portare ad una nuova escalation nei rapporti già tesi con Barcellona.
Tre brevi commenti a questo scenario. Il primo: i popolari avevano irragionevolmente inasprito i rapporti con la Catalogna e la reazione catalana è stata esagerata. Entrambi hanno sbagliato. Adesso è sempre più difficile tornare indietro, sedersi pacatamente intorno ad un tavolo, e decidere per l’unica soluzione sensata alla vicenda: quella di una carta costituzionale sempre più a struttura federale dell’intera Spagna, che non renda la Catalogna un caso particolare, ma una regione a sovranità piena su alcune competenze, e limitata su altre; così come tutte le altre in Spagna. Così come la Spagna è (dovrebbe essere) un paese a sovranità assoluta su alcune questioni, nel quadro di una sovranità limitata su altre nel contesto europeo. Così come vale per qualsiasi altro Stato nel mondo, quantomeno per quelli europei.
La storia può essere ostacolata; ma non fermata. L’unico assetto politico-sociale compatibile con la pace, e quindi con tutti gli altri, conseguenti, valori di benessere, giustizia sociale, equità, democrazia, etc passa per una struttura federale, in cui all’individuo sia costituzionalmente riconosciuto (e tutelato con la forza) un sistema multilivello e concentrico di identità (quindi di scelta collettiva) da quella municipale a quella regionale, statale, continentale e globale. Questo (enormemente) complesso assetto costituzionale può essere adottato volontariamente, oppure essere il risultato di infinite lotte intestine per affermare la supremazia del diritto su quella della forza. Sta a noi cittadini del mondo (ma che esprimono rappresentanti politici solo nel quadro della cornice giuridica degli Stati nazionali; con l’unica eccezione del caso, ambiguo perché con poteri limitati, del Parlamento Europeo) la scelta.
Secondo elemento: nessuno in Spagna, escluso forse Sanchez, ha avuto il coraggio di esprimersi ed assumere una chiara indicazione di governo: sia nella questione catalana sia nel complesso di una politica generale per la Spagna. Attorno a lui avrebbero già dovuto coagularsi le altre forze che erano state invitate a farlo. Un’altra, l’ennesima, occasione persa per dare un governo equilibrato alla democrazia spagnola. È la politica che è pagata per assumersi le responsabilità di governo. Tornare alle elezioni per quattro volte in quattro anni non è un segno di democrazia; è l’abdicazione della politica ed il fallimento della democrazia. Perché, alla lunga, non possono che prevalere sentimenti di sfiducia in quella politica che chiama in continuazione alle urne, con (facilmente prevedibili) spostamenti verso l’estremismo e l’intolleranza, che sono nemici della democrazia.
Terza riflessione. Attenzione, perché quel che succede in Spagna può succedere da un momento all’altro nel resto d’Europa (e in effetti sta già accadendo, anche se in forme diverse): con tentazioni secessioniste che, se non ricondotte nell’alveo della dialettica politico-costituzionale, finiscono per alimentare un anacronistico ritorno all’idea monolitica di patria, antistorica e pericolosa. Se non si spiega pazientemente ai cittadini il senso e la complessità di quel che si sta vivendo; se non si danno risposte credibili ed efficaci da parte della politica; se si lasciano marcire questioni enormi ed irrisolte come quella catalana non si fa un favore al paese, ma a chi strumentalizza queste tensioni. Delineando una contrapposizione fra classi dirigenti tradizionali e cittadini che, alle urne, è destinata a portare acqua al mulino di coloro che si pongono fuori dal sistema e contro di esso (pur tuttavia senza esserlo, naturalmente). Un gioco pericoloso, per assicurarsi fette crescenti di potere nazionale, ma che rischia di acuire lo scollamento fra cittadinanza e classe politica; e che è esattamente il contrario della democrazia che, senza scomodare Gaber, in ultima analisi è (vera, continua, vigile, consapevole; non occasionalmente elettorale) ‘partecipazione’.
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