Il mezzo giustifica il fine

, di Davide Emanuele Iannace

Il mezzo giustifica il fine

Una delle discussioni più comuni nel mio gruppo di amici, amabili appassionati di veicoli a quattro ruote per lo più, è quale sia il futuro papabile del mercato automobilistico. Considerato come uno dei principali responsabili dell’inquinamento, tanto nella fase produttrice che di utilizzo dei veicoli, è un mercato sotto la costante lente di ambientalisti, policy maker e ovviamente investitori e innovatori.

La discussa news che il Parlamento Europeo avrebbe approvato un ban delle immatricolazioni delle auto a combustione interna dal 2035 ci ha dato agio di discutere e litigare. Come si può pensare di sostituire un intero mercato automobilistico in quelli che sono semplicemente sette anni? Ancora, la stessa decisione del Parlamento prevede la possibilità di rivedere alcune limitazioni in corso d’opera, per osservare con sguardo attento anche all’evoluzione del mercato e dell’industria, che conta solo in Europa quasi 13 milioni di addetti.

Come può un settore industriale programmare e investire in presenza di così tanta incertezza da parte del regolatore pubblico?

Ovviamente la discussione sul futuro dell’industria automobilistica europea gira intorno dei macro-temi che si intersecano strettamente tra di loro. Da un lato, vi è l’evoluzione stessa del concetto di automobile, il cambiamento dai motori puramente a combustione interna verso nuovi modelli che dovrebbero essere full electric, così come la creazione di pratiche di sharing economy anche nell’uso dell’automobile stessa. Proprio sul primo punto, il ruolo dei carburanti green, quelli che provengono da fonti sostenibili e su cui l’industria va investendo sempre di più, che potrebbero attutire in parte l’impatto di una così drastica riforma, sembrano non essere stati presi in considerazione da parte dell’attore europeo.

D’altro canto, vi è una profonda riflessione su un cambiamento più infrastrutturale della mobilità in Europa. Le auto saranno ancora in circolazione o si sta tendendo a un modello che eroda il concetto di mobilità privata in favore di quella pubblica? Al contempo, tale cambiamento è un cambiamento che è di per sé trans-sociale o è in realtà una nuova polarizzazione di classe in cui il povero dovrà fare affidamento sul mezzo pubblico e il ricco potrà investire in avanzati veicoli di mobilità “sostenibile”?

Non meno rilevante, parliamo sempre di infrastrutture quando dobbiamo ragionare su cosa voglia dire sostenere una società che si muove su ruote elettriche. Ad oggi, la copertura di colonnine di ricarica non si aggira su livelli ottimali per garantire una mobilità piena. Se anche le autostrade vanno in qualche modo aggiornandosi, e le grandi città seguono o aprono la strada, rimane – e questo è particolarmente vero per le nazioni ad ampie aree rurali – aree profondamente scoperte.

Un punto fermo lo abbiamo sicuramente. Il mondo di oggi non è pienamente sostenibile e, che piaccia o meno, il mercato automobilistico è parte del problema, come tutte le restanti azioni umane. Al contempo, come affrontare quello che si presuppone essere un radicale cambiamento nel comportamento umano? L’automobile è una invenzione relativamente giovane, ma al contempo è responsabile di grandi cambiamenti nella strutturazione delle relazioni e delle forme umane che oggi diamo per scontate. La periferia stessa esiste in virtù della presenza di mezzi di trasporto, tanto pubblici che privati, che permettono di connettere l’anello urbano al suo cuore pulsante, tendenzialmente uffici e attività economiche.

Non solo, l’automobile è responsabile della possibilità degli individui di muoversi al di fuori dei loro naturali confini, nonché di quelli dettati dalla società stessa. L’auto è stata, per quanto oggi appaia decisamente scontata, una rivoluzione nel concetto di libertà personale.

Nonostante ciò, l’auto contemporanea così come viene normalmente intesa non è sopportabile. Le risorse fossili iniziano a essere sempre di minori consistenza e maggior costo, e l’inquinamento prodotto deve essere necessariamente tagliato se si vuole sperare di evitare lo scenario peggiore di innalzamento delle temperature.

Cosa fare quindi con l’automobile? Decisamente, la virtù sembra stare nel mezzo. L’elettrificazione potrebbe essere una buona scelta per le quattro – ma anche due – ruote del futuro. Rimangono però forti dubbi su come evitare che la soluzione diventi a sua volta un problema. L’elettricità non cresce sugli alberi ma ha bisogno di essere prodotta, trasferita e contenuta. La produzione non può non presentare, tra le possibilità, quella del nucleare.

Eolico e solare sono due fonti di energia rinnovabile e pulita che potrebbero non bastare per una transizione di massa anche automobilistica. Fissione, e futura fusione, meritano ancora di essere considerate come potenziali fonti. La riflessione ambientalista pecca di oscurantismo ancora oggi sul considerare la fissione come un rischio con zero vantaggi. Le contemporanee strutture di produzione nucleare non sono Chernobyl e le stesse fonti eoliche e solari necessitano di minerali – terre rare – che non son sempre di estrazione pulita. Il trade-off potrebbe essere più a vantaggio del nucleare di quanto si pensi comunemente.

Qualunque sia la scelta su come produrre l’energia necessaria, rimangono il problema del trasferimento e al contempo del contenimento. Perché tutti abbiano l’auto elettrica, diventa necessario che tutti possano ricaricarla, a costi contenuti. Questo vuol dire ripensare i processi di trasporto d’energia – o puntare sull’auto-produzione di massa, come nel caso delle comunità energetiche – e anche al come contenere e conservare l’energia. Le batterie, a meno di breaktrough, ad oggi inquinano. L’Unione, all’interno di ESFRI (di cui abbiamo parlato qui), sta investendo sull’innovazione e il passaggio a nuove generazioni di batterie che siano meno inquinanti e meno basate sulle terre rare. Ma, di nuovo, è un investimento sul futuro che mal si concilia con la necessità contemporanea di rapida transizione.

L’elettrificazione rimane quindi, in potenza, al netto che tutte le innovazioni entrino in gioco in maniera simultanea ed estemporanea, una potenziale efficace soluzione al problema di mantenere l’automobile, senza che essa sia quella del passato.

Ma, con la tecnologia a nostra disposizione oggi, questo sembra improbabile nel breve termine. E sette anni sono non molti. Le soluzioni intermedie appaiono ad oggi credibili e soprattutto impattanti. I motori ibridi – che cioè uniscono componenti a combustione interna ed elettrificato – sono un utile strumento di transizione. Così come, al contempo, lo sono anche le fonti di combustile di derivazione non fossile.

Questo certamente vuol dire mantenere in giro i motori a combustione ancora per un po’, ma chiaramente con un molto minore impatto ambientale – al netto di produzione sostenibile anche dei carburanti. Sulla questione automobilistica si combatte però quella che sembra però una battaglia non tanto puramente ambientale, quanto ideologica.

Lo stesso movimento ambientalista sembra un po’ in preda ad una curiosa disforia. Diversi cavalli di battaglia come il no alle auto e al nucleare si schiantano contro le naturali necessità sociali e, al contempo, sembrano non riuscire a tenere in considerazione il progresso tecnico alle spalle degli strumenti oggi a disposizione della società. Al contempo, il supporto incondizionato a certi strumenti – come la produzione energetica su base solare – non sembrano tenere a mente gli impatti devastanti che i materiali necessari estratti in Africa hanno sulle comunità locali.

Certamente, se vogliamo ragionare su innovazione in campo di mobilità in Europa, tenendo a mente che l’automobile rimane oggi uno degli strumenti preferiti dagli utenti e che non si può demonizzare completamente al netto dei vantaggi che offre, bisognerà ragionare in un’ottica che tenga conto tanto degli interessi – anche economici – dei diversi attori sul campo, a partire dai produttori e dalle loro fabbriche, nonché della necessità di andare oltre i semplici slogan e affrontare in maniera pragmatica la transizione.

Chiaramente, l’ampliamento della rete pubblica di mobilità, specialmente quella su rotaia – che però in parte si ricollega ai problemi di produzione d’energia, a cui si aggiunge la necessità di ripensare l’infrastruttura su rotaia – è un’altra grande necessità su cui l’UE dovrebbe spendere risorse. Non meno rilevante, non si può discernere la riflessione sulla transizione ecologica da una sugli aspetti sociali di tale transizione.

Le auto più inquinanti sono le più vecchie, e chi possiede le auto più vecchie sono spesso i ceti meno abbienti della società. Le auto cosiddette Euro 6 tendono ad avere costi più elevati, così come quelle elettriche, e diventano quindi una commodity delle classi più ricche. Il che, aggiunge ironia sull’ironia. Se pensiamo alle città, altro luogo sempre più costoso ed esclusivo, chi vive vicino i luoghi di lavoro nei centri direzionali sono spesso i più abbienti. Chi vive più lontano è chi deve usare le auto o i non sempre affidabili mezzi pubblici, auto più inquinanti.

Una transizione sarà possibile, sostenibile, e giusta soprattutto, se e solo se eviteremo di far pesare tutto il costo della transizione su alcune classi sociali ed economiche. I poveri, già svantaggiati, non possono esserlo ulteriormente solo perché le battaglie ideologiche stanno prendendo piede su quelle pragmatiche che devono essere necessariamente affrontate.

Non è con le illusioni che, insomma, affronteremo in maniera seria la transizione al futuro. Se mai un futuro ci sarà tout court.

L’articolo è stato completato entro il 10 aprile. Non tiene conto di eventuali novità in merito alla decisione del PE.

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