La seconda metà di un articolo che approfondisce storia e politica del Montenegro e il suo posizionamento verso l’Europa, nel passato e nel presente

Il Montenegro nelle guerre jugoslave: una nazione divisa — Parte II

, di Dino Šabović

Il Montenegro nelle guerre jugoslave: una nazione divisa — Parte II
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Il Montenegro è uno dei Paesi meno conosciuti nel contesto europeo, malgrado la sua storia secolare che a più riprese si è intrecciata con i diversi Paesi all’infuori del solo contesto balcanico. Ed è proprio su questo presupposto che questo articolo si viene a formare: cioè dare una chiara visione sia storica che sociale di questo piccolo Stato che ambisce a divenire membro dell’Unione Europea. Ma anche per dare alcuni strumenti di base per comprendere perché, oggi giorno, il Montenegro sia turbato internamente da attriti etnici-religiosi. In questa seconda parte ci si concentrerà sul periodo più recente e anche sanguinoso della storia montenegrina, il rapporto con la caduta della Jugoslavia e le conseguenze delle guerre balcaniche nel paese.

Andando avanti, la morte di Tito, avvenuta il 4 maggio 1980, lascerà una Jugoslavia orfana di una figura capace di mantenere unite tutte le diverse nazionalità, dando così il via libera a comportamenti opportunistici e poco scrupolosi di diversi politici che alimenteranno i sentimenti nazionalistici. E se nelle altre Repubbliche federate il principale punto di contrasto con le altre etnie era quello etnico-religioso, in Montenegro le cose erano un po’ più complicate: oltre all’eventuale contrasto tra la maggioranza ortodossa e quella delle minoranze (slavi musulmani ed albanesi), vi era anche l’emergente attrito tra la Chiesa Ortodossa Serba (Srpska Pravoslavna Crkva) e chi era intenzionato a ricostituire la Chiesa Ortodossa di Montenegro (Crnagorska Pravoslavna Crkva) abolita nel 1918 dal Regno di Jugoslavia. Pertanto ritornava la secolare ambivalenza identitaria montenegrina: essere indipendenti od unirsi alla Serbia [1]. Di conseguenza, vi era un ritorno a quella condizione storica che ha caratterizzato il Montenegro tra la metà del XIX secolo e fino alla metà del XX secolo: cioè la lotta tra Verdi e Bianchi, ritornati in voga dopo la dipartita dei “Rossi” jugoslavi.

Come già detto, a seguito della rivoluzione antiburocratica, il Montenegro si allineerà alla posizione di Milošević e al suo progetto egemone. Anche se ciò è vero, bisogna segnalare che le proteste che vi saranno lungo questa “rivoluzione” non saranno solamente volte al sostegno di Milošević: anzi il ritratto di quest’ultimo sarà sempre accompagnato, durante le manifestazioni di piazza, dai ritratti di Tito e di diverse figure della famiglia reale montenegrina dei Njegoš [2]. Inoltre, i manifestanti non avevano sempre i medesimi obiettivi politici, ma vi era una frammentazione tipica della politica montenegrina: oltre a coloro che protestavano contro la precaria condizione economica, da dove Milošević capitalizzò il supporto montenegrino, vi era una corrente che prendeva ispirazione dai Giovani Sloveni promotori di una totale rottura con la Jugoslavia comunista; vi erano coloro che erano preoccupati della sorte dei fratelli montenegrini e serbi in Kosovo [3]; coloro che volevano una vera riforma politica ed economica e coloro che dibattevano a riguardo di un pluralismo socialista o di un multi-partitismo puro [4].

Anche se in questi anni, che vanno dal 1989-1990, i montenegrini si consideravano come dei riformatori del comunismo jugoslavo, era chiaro che mai fu tanto sbagliata tale percezione: alle prime elezioni multipartitiche del 1990 per il Parlamento, si videro stravincere i giovani montenegrini e alle elezioni presidenziali Bulatović (scegliendo Đukanović come suo Primo Ministro) che, come detto, era la massima espressione, esterna, dei progetti di Belgrado in Montenegro e in Jugoslavia ovvero le forze che si raccoglievano nell’erede del partito comunista montenegrino; il Partito Democratico dei Socialisti del Montenegro (Demokratska Partija Socijalista Crne Gore - DPS - partito che raccoglieva in sé sia montenegrini moderati che filo-serbi) [5]. Ciò condannò il Montenegro ad essere un Paese satellite della Serbia [6]. Per ironia della sorte, sarà proprio Bulatović che presiederà nel gennaio 1990 il quattordicesimo, ed ultimo, congresso della Lega dei Comunisti di Jugoslavia dove i rappresentati di Slovenia e Croazia lasceranno senza un nulla di fatto l’incontro per riformare il sistema federativo.

Sarà così che la guerra in Jugoslavia avrà una tragica e rapida discesa in indicibili oscenità. Il Montenegro, sotto la guida di Momir Bulatović, scenderà in guerra assieme alla Serbia nel settembre 1991 oltrepassando i confini croati sotto lo slogan del presidente “difendere legittimamente la Repubblica Socialista di Jugoslavia” [7]. L’intervento in Croazia e la conseguente partecipazione all’assedio di Dubrovnik assieme ai serbi isolarono internazionalmente il Montenegro (come accaduto durante la Prima Guerra Balcanica) [8]. In questo contesto, Bulatović riuscì a guadagnarsi il supporto dei montenegrini grazie a una ferrea propaganda che accusava i croati, sotto la guida di Franjo Tuđman (ex partigiano di Tito e poi dissidente di quest’ultimo), di voler marciare sul Montenegro ed occupare la Bocca di Kotor [9]. Tale minaccia era parzialmente vera: infatti Tuđman non esitò a fare tale dichiarazione, ma questo in ottica di esasperare la situazione per poterne trarre in un futuro prossimo il necessario supporto politico sullo scacchiere internazionale per i propri scopi indipendentisti, tant’è che egli non manderà rifornimenti bellici a Dubrovnik (e alla città di Vukovar, sotto assedio serbo) per poter prolungare la situazione a suo favore [10]. Nonostante ciò, la nuova leadership montenegrina non esiterà a fare propaganda in tal senso. Vero è che l’allora Primo Ministro Đukanović farà uso del giornale di regime montenegrino, Pobjeda, per alimentare il fervore popolare per la guerra nelle ormai ex Repubbliche socialiste [11]. Celebre sarà la sua frase in riferimento allo stendardo a scacchiera della Croazia: “sbog šahovnice prestao sam da igram šah!” (per colpa dello stemma a scacchiera ho smesso di giocare a scacchi!) [12]. Si noti, anche, come in questo periodo la propaganda del regime di Bulatović designasse la Croazia e la Germania (che parteggiava per l’indipendenza croata) come nemici del socialismo jugoslavo: questo perché “le forze della Grande Germania, nutrite dal fascismo croato, stavano preparando un attacco finale sulla Jugoslavia [13].

In ogni caso, la guerra veniva descritta e vista dai montenegrini come una guerra di difesa e di nobile necessità. Infatti, diversi montenegrini si arruolarono come dobrovoljaci (volontari) nella JNA (Jugoslavenska Narodna Armija - Armata Popolare Jugoslava), ma la loro motivazione non era tanto legata alla necessità di preservare o costituire la Grande Serbia: ma piuttosto per mantenere la posizione privilegiata che il Montenegro godeva nella SFRJ e per difendere l’ideologia impartita dal titoismo [14]. Pertanto, ritornava in voga quell’istinto di preservazione e sopravvivenza tanto ricorrente nella storia del Montenegro che ha portato questo popolo a compiere scelte assai discutibili. Anche se bisogna far presente che data la piccolezza di questo Stato e la scarsità di risorse (e forza umana) disponibili, non può non sorprendere l’attitudine di questo popolo a ricorre al cosiddetto bandwagoning (salire sul carro dei vincitori): cioè legarsi a quella componente che è percepita come vincitrice per poter raggiungere o preservare i propri interessi [15].

In ogni caso, l’avanzata montenegrina in Croazia dimostrerà le bugie della propaganda del governo di Titograd: non vi fu nessuna resistenza e tanto meno si videro i presunti 30.000 croati fascisti (Ustaša) pronti ad attaccare il Montenegro. Tant’è che, quando l’opinione pubblica si rese conto delle nefandezze fatte e delle bugie di regime su Dubrovnik e sulla guerra in corso, vi fu un rapido cambio di prospettiva dei montenegrini sul ruolo del proprio Paese nella guerra: Bulatović fu sempre di più accusato di favorire il rafforzamento della linea serba nella politica domestica e di nuocere internazionalmente la reputazione dei montenegrini, spingendolo così a rivalutare (assieme a Đukanović) la sua posizione [16]. Tant’è che il Bulatović affermerà, al finire del 1991, che “noi crediamo che l’esercito non può fare nulla e che la guerra in Croazia sia inutile, perché la forza dell’esercito jugoslavo viene annullato dall’enorme pressione della comunità internazionale” [17]. Questo cambiamento di prospettiva coincideva con la graduale, ma lenta, intromissione dei Paesi Occidentali nella guerra: cioè alla fine del 1991 quando incominciò la Conferenza dell’Aja guidata dal britannico Lord Carrington [18].

Sarà in questa situazione che Milo Đukanović comincerà a rivalutare la politica di Bulatović, nonché a distanziarsi da Miloševiç, facendosi promotore in parlamento di una frangia che era risoluta sia ad interrompere il coinvolgimento di Titograd nella guerra che la vicinanza con Belgrado. Dando così inizio a uno scambio di accuse verso l’altra frangia parlamentare che era invece intenzionata a continuare la guerra e rimanere nell’orbita serba, paventando così anche la lenta rottura del DPS [19] e alimentando così, per l’ennesima volta, una significativa rottura politica in Montenegro. L’interventismo montenegrino porterà all’esodo dei croati che vivevano sulle coste del Paese e la loro sostituzione con i serbi che fuggivano dalla Croazia e dalla Bosnia-Erzegovina; senza poi contare, come già detto, le antipatie guadagnatesi dalla comunità internazionale [20].

Per sfuggire da questa ingarbugliata situazione, Bulatović diede il suo appoggio al piano di Lord Carrington per la dissoluzione della SFRJ e la sua sostituzione con ben sei nuove entità indipendenti [21]. Questo a grande sorpresa dei serbi che invece erano convinti che Podgorica (ora chiamata così a seguito del cambio di nome nel 1992) avrebbe continuato ad appoggiare la linea di Belgrado e di concerto il rifiuto del piano Carrington. Non solo i serbi erano sconvolti, ma anche gli stessi partecipanti della Conferenza dell’Aja: infatti, come confermato dalle memorie dell’ultimo Presidente della SFRJ Borisav Jović, la scelta montenegrina “provocò molta perplessità e sconvolse persino gli europei” [22]. Questa improvvisa sterzata non era solo dovuta alla necessità di lavarsi di dosso il peso di Dubrovnik e della guerra: ma anche dalla promessa della Comunità Europea di un generoso pacchetto di aiuti finanziari e dall’assicurazione dell’Italia di sostenere, sia politicamente che economicamente, il percorso indipendentista del Montenegro [23].

Ricevuta la notizia della scelta di Bulatović, l’opinione pubblica montenegrina si trovò divisa tra chi supportava la decisione del presidente e chi no. Belgrado non esitò a fare pressioni su Bulatović (e Đukanović) per ritirare il sostegno al Piano o almeno di aggiungere un qualche tipo di clausola che permettesse la sopravvivenza di una Jugoslavia “storpia” [24]. Viste queste pressioni, Podgorica decise, assieme a Belgrado, di proporre un ammendamento che permettesse alle Repubbliche Federate desiderose di rimanere in una Jugoslavia che succedesse la SFRY. Ciò faceva chiaramente morire il Piano Carrington e continuare il bombardamento di Dubrovnik. La dissoluzione della SFRJ sarebbe continuata in modo sanguinoso.

In ogni caso a partire dal 1992 Slovenia, Macedonia, Croazia e Bosnia-Erzegovina furono riconosciute come paesi indipendenti dalla Comunità Europea e dagli Stati Uniti [25]. In questo anno si scatenerà la feroce guerra in Bosnia-Erzegovina (da cui il Montenegro se ne terrà a debita distanza) che spingerà Belgrado e Podgorica ad adottare una nuova costituzione per costituire la Repubblica Federale di Jugoslavia (Savezna Republika Jugoslavija - SRY) [26]. Ma è bene precisare che questa costituzione viene scritta in soli cinque giorni e quasi totalmente dal partito di Milošević, marginalizzando i rappresentanti montenegrini [27]. Inoltre, i lavori furono tenuti in grande segretezza non dando nessuna possibilità all’opinione pubblica e ai partiti d’opposizione di avere voce in capitolo; ciò andava per forza di cose a creare un sentimento d’insoddisfazione in Montenegro. Immediatamente si levarono critiche nei confronti dell’operato di Bulatović per quanto concerneva la nuova costituzione e la creazione di questo nuovo Stato. Il Presidente cercò di assopire queste critiche proponendo una confederazione con la Serbia, ma ciò fu rigettato sia dai montenegrini indipendentisti che da Belgrado e dalle forze pro-serbe in Montenegro [28]. Alla fine, per risolvere in qualche modo la situazione, si decise di sottoporre ai montenegrini il seguente quesito referendario: “Vuoi che il Montenegro, in qualità di Repubblica sovrana, continui ad esistere nello Stato comune di Jugoslavia su basi di completa uguaglianza con le altre Repubbliche che desiderino fare lo stesso? [29]. È chiaro che il quesito era alquanto equivoco e in aggiunta il dibattito su di esso fu estremamente limitato: dal momento che la nuova legge in merito ai referendum limitava a soli sette giorni il dibattito pubblico. Il quesito venne sostenuto dal 95.5%, questo nonostante il tentativo di boicottaggio degli albanesi, musulmani ed alcuni partiti d’opposizione [30]. Il risultato fu che il Montenegro a livello Federale godeva dei medesimi diritti della Serbia - teoricamente - nonostante rappresentasse solo il 6% della popolazione totale della SRY; ma a livello internazionale era Milošević che prendeva le decisioni in modo unilaterale.

Sarà in questi anni che si arriverà a una rottura pubblica tra Đukanović e Bulatović: il primo cominciava a levare toni critici nei confronti della SRY e a chiedere maggiore autonomia, soprattutto fiscale, per il Montenegro (dal momento che il Paese era sotto le sanzioni delle Nazioni Unite); il secondo invece continuava a prediligere una visione pro-unionista con Belgrado [31]. Tant’è che alle elezioni che si tennero nell’immediato dopo referendum la frangia di Đukanović in parlamento riuscì a guadagnarsi la maggioranza con il supporto dei partiti d’opposizione, scegliendo quale Ministro degli Esteri del Montenegro la figura di Miodrag Lekić (ex ambasciatore jugoslavo) molto vicino all’Occidente e critico del progetto della SRY [32]. Purtroppo, l’Occidente non riuscì a cogliere in tempo l’orientamento di Lekić, lasciandolo isolato nei circoli diplomatici. Ben presto, su pressione di Milošević, fu sostituito da Bulatović con la figura mediocre di Janko Jeknić (pilota di rally, cantante ed amatore del mondo femminile).

Diventava così sempre più chiaro che il progetto della SRY si basava su una natura diseguale e che tale progetto era destinato a fallire. Questo era chiaro soprattutto al partito liberale di Montenegro (Liberalni Savez Crne Gore) che non smise mai di criticare la SRY, il ruolo dei serbi nel fare continuare la guerra e coloro che erano contrari all’indipendenza del Montenegro [33]. Inoltre, non mancarono i tentativi di Belgrado di agglomerare, come già tentato in passato, i montenegrini nel corpo nazionale serbo, negando ogni possibilità di riconoscimento linguistico o culturale dello stato adriatico [34]. Inoltre, era chiaro che il Montenegro non avesse ottenuto la promessa eguaglianza con la Serbia; soprattutto dal momento che Belgrado si dimostrava poco collaborativa nel fermare le incursioni delle forze paramilitari serbo-bosniache nel territorio: forze che si fecero fautori di abusi di ogni genere verso a musulmani ed albanesi in Montenegro [35]. Basti far presente, per poter comprendere la precarietà di questa unione, che in Montenegro operarono due distinte forze per la sicurezza nazionale: il cosiddetto “Settimo Battaglione” dell’esercito jugoslavo che era formato da individui fedeli a Milošević e al progetto unionistico; e la polizia montenegrina fedele a Đukanović che comincerà ad ottenere il sostegno occidentale dal 1995 in poi [36].

Ma la rottura con Belgrado passava anche per la centenaria questione tra Chiesa Ortodossa di Serbia e di Montenegro, assopita dal socialismo titino. Infatti, i liberali ed altri partiti indipendentisti si mobilitarono a partire dal 1993 per ristabilire la Chiesa Ortodossa nazionale e ciò fu raggiunto il 31 ottobre dello stesso anno [37]. Chiaramente i pope serbi non riconobbero mai, come tutt’oggi, il ritorno legittimo della Chiesa Ortodossa di Montenegro (convincendo gli altri Santi Sinodi di non riconoscerne l’esistenza), continuando a mantenere nelle loro grinfie le diverse chiese e monasteri che appartenevano, prima del 1918-1920, ai pope montenegrini nonché il monopolio delle liturgie nel Paese. Inoltre, il partito liberale faceva presente che l’identità montenegrina era perpetuamente sotto attacco dei pope serbi dal momento che, come affermato dal leader liberale Slavko Perović, “voi non potete battezzare nessun bambino in una chiesa del Montenegro se voi lo dichiarate montenegrino”, questo dal momento che i pope serbi affermano che “i montenegrini sono una razza inventata dal Comintern, Vaticano e Bolscevismo, e pertanto un’invenzione” [38]. Nonostante ciò, è chiaro che questo scontro si basa su basi più politiche che ecclesiastiche, dal momento che la tesi impugnata dai diversi partiti d’opposizione era quella di promuovere l’identità nazionale e contrastare la collaborazione politica tra l’apparato statale e religioso serbo in Montenegro.

Conclusasi la guerra in Bosnia-Erzegovina (1995) con gli accordi di Dayton, le tensioni tra Podgorica e Belgrado continuarono a crescere. Questo soprattutto da quando si paventò in Occidente, e in particolar modo negli Stati Uniti, il bisogno di diminuire l’influenza di Milošević nei Balcani Occidentali [39] visti i disordini e gli orrori degli anni prima. Conclusisi gli accordi di Dayton — che Milošević aveva discusso ed accordato con il tacito benestare di Bulatović — e rimosse le sanzioni, Đukanović, conscio del discontento montenegrino per le precarie condizioni di vita, diede inizio a una incisiva politica di distanziamento da Belgrado [40] e si avvicinò sempre di più all’Occidente. Inoltre, il giovane leader montenegrino nutriva sempre più profonde antipatie verso il leader serbo che continuava una politica autoritaria in tutta la federazione e che allo stesso tempo procurava, a livello internazionale, le antipatie delle altre nazioni. Una situazione che non permetteva l’accesso ai fondi internazionali necessari per risollevare le provate condizioni economiche del Montenegro. Inoltre, Đukanović, cominciava a palesare l’intenzione di costruire sereni e stabili legami con le nuove realtà balcaniche e il bisogno che il Paese entrasse a far parte della famiglia europea (senza poi contare il manifesto interesse a stringere legami sempre più stretti con Washington) [41].

Sarà così che nel 1997 Đukanović, ormai leader indiscusso del DPS, deciderà di dare una svolta netta al Paese rispetto alle politiche di Belgrado. Questo approfittando della morte di Janko Jeknić: nel gennaio del medesimo anno morirà quest’ultimo, Ministro degli Esteri montenegrino, in un disgraziato incidente stradale. Milošević darà ordine di non mandare nessuna rappresentanza serba al funerale di Jenkić; gesto che verrà visto dalla leadership di Đukanović come una grave ed irreversibile offesa alla nazione (nonostante il fatto che al funerale parteciperanno rappresentati italiani, tedeschi, inglesi e canadesi venuti apposta da Belgrado) [42]. Aspre critiche si leveranno da Đukanović verso Milošević, non solo a livello nazionale ma anche internazionale: durante un’intervista per la televisione inglese il leader affermerà che le politiche del serbo erano anacronistiche e andava sostituito al più presto. Forti pressioni verranno da Belgrado per la sostituzione di Đukanović in qualità di vicepresidente del DPS, questo soprattutto dal momento che quest’ultimo stava lavorando per introdurre nel Paese una valuta differente da quella della federazione [43], così da diminuire ancora di più il controllo di Belgrado su Podgorica. Ma era chiaro che egli, nonostante la sua dipartita in qualità di vicepresidente del partito, aveva oramai consolidato il suo potere nel Paese: basti pensare che il vice primo ministro Slavko Drljević continuerà ad operare per ostacolare l’intromissione della polizia segreta serba in Montenegro, continuando a tenere a galla il contrabbando di sigarette in Italia per mantenere viva l’economia nazionale [44]. Era chiaro, pertanto, che l’accordo tra DPS e SPS (Partito Socialista di Serbia - Socijalistička Partija Srbije) era morto: cioè di far funzionare ad ogni costo la federazione. Ciò portava irrimediabilmente alla rottura del DPS, che era riuscito fino al 1997 a mantenere il conflitto tra gli esponenti pro ed anti-Milošević all’interno di esso. In questo modo, tralasciando interessi egoistici che venivano a scontrarsi, ritornava alla ribalta la perenne lotta per l’indipendenza montenegrina. Una lotta che non fu tanto difesa e promossa da Đukanović , anche se lui ne sarà lo strumento, ma tanto dalle grandi mobilitazioni dei montenegrini per l’indipendenza [45]. Si precisi, che il periodo post-Dayton vedrà un Milošević proporsi, nel dicembre 1995, quale nuovo Presidente della SRY: ciò significava una maggiore centralizzazione del potere a spese del Montenegro [46].

Nel luglio del 1997 si terranno le nuove elezioni presidenziali in Montenegro, che vedranno una risicata vittoria di Đukanović al secondo turno (grazie ai voti dei musulmani ed albanesi). Bulatović, che aveva condotto una campagna elettorale tradizionale con il supporto di Belgrado, contesterà le elezioni accusando brogli elettorali. Accuse che gli osservatori internazionali respingeranno e vedranno Đukanović insediarsi in qualità di Presidente, nel gennaio 1998, con la partecipazione di ben 57 ambasciatori stranieri; questo nonostante una esasperata tensione interna che rischiava di scatenare una guerra civile a causa di proteste popolari sostenute e comandate da Belgrado che si tradussero in attacchi diretti agli edifici del potere statale [47]. Cupo scenario che non si realizzerà, fortunatamente.

Il risultato fu che Bulatović e i suoi seguaci uscirono dal DPS e formarono un nuovo partito: Socijalistička Narodna Partije Crne Gore (Partito Popolare Socialista del Montenegro - SNP -). Principalmente sostenuto da diverse città del Nord Montenegro e dalle zone rurali del Paese, basandosi su un corpo elettorale d’estrazione sociale bassa e poco istruito. Terreno fertile per la diffusione dell’ideologia unionista con la Serbia e il sentimento anti-Occidente [48]. Dall’altro canto, Đukanović rimarrà cauto per quanto riguarda l’indipendenza del Montenegro continuando a sostenere blandamente il continuo della federazione, ma allo stesso tempo mantenendo una retorica pro-Occidente, di libero mercato e di tutela dei diritti umani [49].

Se da un lato il nuovo presidente del Montenegro aveva il delicato ruolo di mantenere stabile il Paese dalla divisione tra pro-indipendentisti e pro-unionisti, dall’altro doveva invece continuare l’avvicinamento al blocco Occidentale e a Washington. Vero è che la retorica progressista di Đukanović era studiata per poter guadagnarsi gli aiuti necessari per mantenere il Montenegro il più autonomo possibile da Belgrado (aiuti che supereranno persino quelli devoluti ad Israele nel medesimo anno in rapporto alla popolazione) [50]; in ogni caso anche i Paesi Occidentali trarranno beneficio delle politiche montenegrine. Tant’è che Robert Gelbard, inviato speciale nei Balcani USA, affermerà che “noi speriamo che i riformisti montenegrini e gli sforzi democratici del Montenegro non si arrestino solo al territorio del Montenegro, ma che diventino la linea politica predominante in tutta l’entità territoriale della Jugoslavia [51].

In ogni caso, l’atteggiamento progressista del Montenegro sarà premiato durante gli anni che vanno dal 1998 al 1999: cioè durante la Guerra di Kosovo. Infatti, tutti i partiti di governo, ma anche alcuni d’opposizione (come quello liberale), al comparire dei primi attriti tra kosovari albanesi e serbi dichiareranno immediatamente la neutralità del Montenegro in caso di guerra. Questo soprattutto con la triste memoria della partecipazione montenegrina nel conflitto di Croazia. Tant’è che fu subito chiaro a Belgrado che questa era una guerra solo serba e che nessun giovane circoscritto di Montenegro sarebbe stato mandato da Podgorica [52]; questo anche grazie al leader del Partito Socialista Democratico (Socijaldemokratska Partija - SDP -) Ranko Krivokapić che non esitò a richiamare il Governo alla neutralità. Scelta che sarà fatta da Đukanović e che si dimostrerà molto saggia.

La questione kosovara incrinerà ancora di più, chiaramente, i rapporti tra Belgrado e Podgorica, questo soprattutto quando Đukanović mise il veto montenegrino nel Consiglio Supremo di Sicurezza della Federazione per fermare la guerra, un diritto costituzionale riconosciuto al Montenegro che però non fu rispettato da Milošević [53]. Per controbilanciare l’offesa ricevuta, Podgorica diede rifugio al leader progressista d’opposizione Zoran Djindić (futuro Presidente della Serbia): quest’ultimo e Đukanović erano stretti amici e possibili soci in affari. La loro vicinanza politica avrebbe potuto segnare un diverso percorso della Federazione, anche se Djindić era contrario all’indipendenza di Podgorica, ma ciò non si potrà mai sapere dal momento che Djindić fu assassinato nel 2003 quando era già Presidente della Serbia [54].

In ogni caso, la guerra in Kosovo aveva messo in allerta Podgorica, che temeva un colpo di mano militare di Belgrado nel Paese. Pertanto, per evitare che il Montenegro si trovasse impreparato, Đukanović si adoperò per potenziare la polizia nazionale (sotto il suo comando) armandola bene ed addestrandola (non si sa tutt’ora di che provenienza erano tali armi, ma è chiaro che l’Occidente sostenesse Podgorica dal momento che le forze di polizia furono addestrate da Londra) [55]. Ciò era necessario dal momento che in Montenegro stazionavano ben 14.000 truppe dall’esercito militare federato e il famigerato Settimo Battaglione formato da poco più di mille personalità paramilitari.

Nonostante ciò, non vi fu un attacco di Milošević al Montenegro (anche se cercò di ottenere il controllo della polizia montenegrina e delle reti di comunicazioni del Paese). Questo anche grazie all’avvertimento della NATO che un attacco a Podgorica avrebbe fatto degenerare ancora di più la situazione nei Balcani Meridionali. Tale endorsement dell’Alleanza era stato possibile grazie alle politiche di Đukanović: apprezzate dalle diverse potenze Occidentali. Infatti, quest’ultimi, avevano ben pensato di localizzare i futuri bombardamenti NATO principalmente in Serbia e di colpire solo alcuni siti militari nel Nord del Montenegro e l’aeroporto di Podgorica [56] (anche se vi sarà la triste uccisione di quattro bambini a Murino - Nord Montenegro - a seguito di un errato calcolo militare NATO). Tutto sommato, però, il Montenegro rimarrà quasi intatto dai bombardamenti dell’Alleanza Transatlantica [57].

Anche se il Paese voleva rimanere fuori dalla crisi kosovara, esso si ritrovò a far i conti con le conseguenze del conflitto: infatti Podgorica si era dovuta fare carico delle decine di migliaia di rifugiati che fuggivano dal Kosovo. Cioè più di 80.000 individui (kosovari albanesi) che rappresentavano un immenso fardello economico per il Paese. Nonostante ciò, questi rifugiati furono lo stesso aiutati al meglio del possibile [58]. Ciò portò però un grande apprezzamento del Montenegro da parte della comunità internazionale: aveva dimostrato che esso rispettava le “regole del gioco” e i valori della comunità internazionale [59].

Con il proseguire del conflitto e l’inizio dei bombardamenti NATO del 24 marzo, lo scontro tra Zelenaši e Bijelaši precipitò: dividendo ancora di più il Paese e le stesse famiglie tra chi patteggiava per Milošević e chi invece era per la neutralità di Podgorica. Vista la grave situazione, che poteva nuovamente mettere a repentaglio la stabilità del Paese, Đukanović, per evitare che il Paese degenerasse in un conflitto civile, si incontrerà il primo aprile con i capi religiosi delle tre maggiori fedi in Montenegro (ortodossi, musulmani e cattolici) per chiedergli di mandare un messaggio congiunto di calma e pace al popolo [60]. Essi accetteranno la richiesta del Presidente e con un comunicato comune pubblicato sul giornale della Pobjeda implorarono i montenegrini delle diverse fedi di rimanere uniti per preservare la pace civile, etnica e la tolleranza religiosa in Montenegro e in Jugoslavia [61]. Anche se ad ogni bomba che cadeva sul territorio si rischiava l’esplosione di un conflitto civile, alla fine il Paese riuscì a sopravvivere alle continue tensioni e a preservare una rispettabile reputazione sul contesto internazionale, nonostante le provocazioni dell’esercito federale per scatenare una rivolta nel Paese e rovesciare il Governo montenegrino [62].

Visti i bombardamenti della NATO, Belgrado si rese conto di non avere né le forze né le risorse necessarie per continuare le ostilità nella provincia di Kosovo. Si dimostrò disponibile ad un accordo con le forze occidentali, arrivando il 10 giugno all’interruzione dei bombardamenti e alla contemporanea firma di un accordo di pace: il “Military Technical Agreement”. A seguito dell’accordo, vi sarà il graduale ritorno degli albanesi-kosovari in Kosovo sostituiti dai serbi e montenegrini di Kosovo: la maggior parte dei rifugiati si stabiliranno nelle città di Berane ed Andrijevica [63]. Queste ultime due tutt’oggi rappresentano gli insediamenti a maggioranza serba in Montenegro e principali luoghi di sostegno sia per Belgrado che per la Chiesa Ortodossa Serba.

Nel periodo successivo, Đukanović si adoperò per rendere ancora più autonomo il Montenegro dalla Serbia: nel 1999 il Paese adottò il marco tedesco come valuta nazionale, inoltre si fece promotore di una riforma costituzionale che avrebbe garantito al Paese un autonomo Ministero degli Esteri e un apparato militare nazionale; raggiungendo così una confederazione di Stati eguali de facto [64]. La stampa di regime serba incominciò immediatamente ad attaccare il progetto, ma ormai era chiaro che in Montenegro cominciava a crescere sempre di più il desiderio per l’indipendenza. Anche se quest’ultima tarderà di ben sei anni prima di avverarsi, a seguito del referendum del 2006.

In aggiunta, Podgorica nel medesimo periodo modificò anche la legge a riguardo della cittadinanza: sancendo che la cittadinanza del Paese spettasse a chi era nato in Montenegro e chi aveva vissuto per dieci anni nel Paese [65]. Inoltre, veniva definito lo status di rifugiato in modo dubbio: si tenga presente che in questo periodo la maggior parte di rifugiati erano serbi che provenivano dalla Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo. Questo cambio di legge, oltre che a negare il potere di Belgrado di definire la cittadinanza della Repubblica Federata, indispettiva i serbi di Montenegro che si sentirono sotto attacco.

Per quanto riguarda la reazione della comunità internazionale: essa era favorevole all’opposizione di Đukanović a Milošević, ma allo stesso tempo non approvava il crescente sentimento indipendentistico del Montenegro. Chiaro era invece, visto l’arrivo di migliaia di serbi, che il cambio della legge sulla cittadinanza era anche funzionale per evitare che i serbi guadagnassero maggiore peso elettorale all’interno del Paese, capace di far retrocedere di decenni il percorso del Montenegro.

In ogni caso, il Montenegro, nonostante l’opposizione di alcune potenze sia occidentali che no, continuerà il suo percorso verso l’indipendenza e verso l’integrazione euro-atlantica. Infatti, Podgorica ammetterà, come segno di buona volontà, gli errori fatti durante la guerra degli anni Novanta. Altre azioni saranno inoltre compiute, come, ad esempio, la cattura e la condanna di ben quattro criminali di guerra nel 2013 [66]. Come anche l’attacco a Dubrovnik: la maggioranza dei cittadini montenegrini è convinto e sostiene che l’attacco alla città sia stato un gravissimo errore che non andava commesso, ma è anche vero che tutt’oggi persista un comportamento blando di alcune frange politiche, soprattutto politici, nell’ammettere l’errore (anche se sarebbe più opportuno definirlo crimine contro l’umanità) [67]. Ed ancora, il Montenegro riconoscerà quasi immediatamente la dichiarazione d’indipendenza unilaterale del Kosovo nell’ottobre 2008 [68]: oltre che per ovvi motivi legati alla lotta di Podgorica per la propria indipendenza, il riconoscimento era anche necessario per guadagnarsi la fiducia dell’Occidente per poter far proseguire il percorso euro-atlantico: tante’ che nel 2017 il Paese diverrà un membro della NATO.

In conclusione, vista questa trattazione sia storica che sociale, si può ben comprendere perché ancora tutt’oggi il Montenegro, nonostante sia uno Stato indipendente, sia turbato da disordini interni tra chi si rifà ancora a quel sentimento di appartenenza di Belgrado e chi invece percepisce la sua esistenza quale montenegrino. Ma ciò è forse anche naturale vista la recente indipendenza di Podgorica (che risale a poco più di 15 anni fa) e le ferite ancora aperte dai due conflitti precedenti. È vero infatti che tutt’oggi, nel Paese, persista una retorica costante sulla “vergogna” montenegrina per aver voltato le spalle alla Serbia e di aver fraternizzato con coloro che hanno attaccato entrambi (cioè l’Occidente). Prevalentemente sostenuta dalla Chiesa Ortodossa di Serbia in Montenegro. Ma è anche vero che l’attuale precarietà del Paese è anche dovuta alla trentennale guida del DPS del Paese che ha esasperato i montenegrini a seguito di continui scandali relativi a corruzione e nepotismo; crimini ripresi sia dai pope serbi che da Belgrado per indurre i montenegrini, sia apertamente che velatamente, a credere che l’indipendenza sia stata una scelta errata. Ma anche altre realtà occidentali hanno criticato il Montenegro per questo “dominio” del DPS di Đukanović. Ma è curioso far presente, per concludere, come nessuno di questi non abbia mai messo in risalto come anche altre realtà balcaniche od europee hanno o abbiano avuto governi, decennali, a guida di un solo partito (dove alcuni di questi partiti si rifanno ad ideologie o tesi difficilmente compatibili con i valori democratici ed umanitari sia delle Nazioni Unite che, soprattutto, dell’Unione Europea). In ogni caso, è chiaro che il Paese in questione, nonostante i recenti scompigli, abbia il desiderio e la volontà di divenire a tutti gli effetti un membro della famiglia europea e di voler sostenere e far avanzare i diritti e le libertà dei suoi cittadini. Ma questo non potrà avvenire solamente con le sole forze dei montenegrini, ma vi è la necessità che tutte le forze democratiche in Europa e non solo abbiano la buona volontà di aiutare in tale senso questo popolo, nonostante le complicazioni. Dal momento che il Montenegro ha ammesso i suoi errori storici e ha dimostrato di voler stare “alle regole del gioco”; perché, come affermato da Cicerone, summum ius summa iniura (il sommo diritto è somma ingiustizia).

Note

[1Ivi, p. 429.

[2Ivi, p. 434.

[3Si veda: MacDonald D. B., 2001, “Balkan holocausts? Comparing genocide myths and historical revisionism in Serbian and Croatian nationalist writing: 1986-1999”, Londra, London School of Economics and Political Science. Consultabile: https://www.proquest.com/openview/e15c5f1f27f9dcee7f865529ee4086bf/1?pq-origsite=gscholar&cbl=51922&diss=y.

[4Si veda: Morrison K., “Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro”.

[5Ivi, p. 39.

[6Lukić R., 2000, “Constitutional Crisis in the Federal Republic of Yugoslavia (FRY) (1998-2001)”, Croatian International Relations Review, Vol. 6, No. 20/21, Consultabile: https://hrcak.srce.hr/7108.

[7Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 91.

[8MacDonald D. B., 2002, “Balkan Holocausts? Serbian and Croatian victim-centered propaganda and the war in Yugoslavia”, Manchester, Manchester University Press, p. 104.

[9Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 92.

[10MacDonald D. B., 2002, “Balkan Holocausts? Serbian and Croatian victim-centered propaganda and the war in Yugoslavia”, pp. 104-105.

[11Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 93.

[13Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 93.

[14Ivi, p. 94.

[15Schmitt‐Beck R., 2015, “Bandwagon effect”, The international encyclopedia of political communication, pp. 1-5, Consultabile: https://doi.org/10.1002/9781118541555.wbiepc015.

[16Morrison K., “Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro”, p. 47.

[17Silber L., Little A., 1995, “The Death of Yugoslavia”, Londra, Penguin Group and BBC Worldwide Ltd, p. 214.

[18Ivi, pp. 209-225.

[19Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 96.

[20Ibidem.

[21Silber L., Little A., “The Death of Yugoslavia”, pp. 209-225.

[22Jović B., 1995, “Posljedni Dani SFRJ”, Belgrado, Politika, p. 229.

[23Morrison K., “Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro”, p. 48.

[24Ivi, p. 49.

[25Ivi, p.50.

[26Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 103.

[27Cohen L. J., 2001, “Serpent in the Bosom: The Rise and Fall of Slobodan Milošević”, Colorado, Westview Press, Boulder, p. 163.

[28Roberts E., “Realm of the Black Mountain. A History of Montenegro”, p. 443.

[29Roberts E., “Realm of the Black Mountain. A History of Montenegro”, p. 443.

[30Ibidem.

[31Ivi, pp. 446-447.

[32Ibidem.

[33Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, pp. 107-111.

[34Ivi, pp. 111-114.

[35Ivi, pp. 114-127.

[36Morrison K., “Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro”, p. 101.

[37Ičević D., 2015, Seconda Edizione, “Crnogorska Nacija”, Belgrado, Forum za etničke odnose, p. 224.

[38Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 129.

[39Ivi, pp. 142-143.

[40Roberts E., “Realm of the Black Mountain. A History of Montenegro”, p. 449.

[41Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 146.

[42Roberts E., “Realm of the Black Mountain. A History of Montenegro”, p. 451.

[43Ivi, p. 452.

[44Ivi, p. 453.

[45Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 148.

[46Ivi, p. 150.

[47Roberts E., “Realm of the Black Mountain. A History of Montenegro”, p. 454.

[48Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 163.

[49Ivi, p. 164.

[50Ivi, p. 166.

[51[1] Ibidem.

[52Ivi, p. 167.

[53Roberts E., “Realm of the Black Mountain. A History of Montenegro”, p. 455.

[54Ibidem.

[55Ivi, p. 456.

[56Darmanovic S., 1999, “Montenegro Survives the War”, East European Constitutional Review, Vol. 8, No. 3, pp. 66-67. Consultabile: https://heinonline.org/HOL/P?h=hein.journals/eeurcr8&i=182.

[57Ibidem.

[58Si veda: Bieber F., 2003, “Montenegrin politics since the disintegration of Yugoslavia”, pp. 11-42. Consultabile: https://www.academia.edu/3108046/Montenegrin_politics_since_the_disintegration_of_Yugoslavia.

[59Darmanovic S., “Montenegro Survives the War”, pp. 66-67.

[60Morrison K., “Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro”, p. 96.

[61Ibidem.

[62Ivi, p. 98.

[63Morrison K., “Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro”, p. 99.

[64Ramet S. P., 2002, “Balkan Babel. The Disintegration of Yugoslavia from the Death of Tito to the Fall of Milošević”, Quarta edizione, Boulder, Westview Press, p. 348.

[65orrison K., “Montenegro. A Modern History”, pp. 173-174.

[66Morrison K., “Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro”, p. 53.

[67Morrison K., “Montenegro. A Modern History”, p. 97.

[68Morrison K., “Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro”, p. 138.

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