Imparare dal COVID: verso un’Unione Europea della Salute

, di Juuso Järviniemi, Kalojan Hoffmeister, tradotto da Martina Pizzi

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Imparare dal COVID: verso un'Unione Europea della Salute
Some European countries took patients in need from bordering nations - but more coordination is needed at the European level. Photo: Pixabay / 1662222 / Pixabay Lizenz

Il coronavirus non conosce frontiere, ma al contrario il sistema sanitario, incaricato di gestire l’emergenza, opera a livello nazionale.Con l’insorgere della pandemia gli attori internazionali sono stati colti alla sprovvista - prima fra tutti l’Organizzazione mondiale della Sanità, -che si è limitata a fornire delle raccomandazioni che i singoli paesi hanno poi scelto di seguire o ignorare. Dal canto suo, l’UE non ha potuto fare altro che osservare i governi nazionali adottare misure drastiche quali la chiusura delle frontiere. Com’è capitato per altre crisi non molto lontane nel tempo, la pandemia di COVID-19 ha dimostrato che una risposta coordinata a livello internazionale potrebbe essere la migliore soluzione per un problema che è, per sua natura, altrettanto transnazionale. L’Europa dovrebbe fare tesoro di questa lezione e darsi un assetto proprio - creando magari un’Unione europea della salute.

Il punto della situazione: difficoltà e conquiste nel coordinamento della risposta al COVID

L’idea di un’Unione Europea della salute era già stata presentata durante gli anni ‘50 dal governo francese. Il piano prevedeva un regime comune di assicurazione sanitaria, politiche di sanità pubblica meglio organizzate e sforzi comuni nel campo della ricerca medica. Sebbene quest’idea non si sia mai concretizzata, la necessità e la volontà di avviare una cooperazione in ambito sanitarionon sono mai svanite. Ripercorrendo tutti gli eventi che hanno caratterizzato questa prima parte del 2020, il dibattito che si staglia al di sopra di tutti gli altri è stato quello inerentela scarsa reperibilità di dispositivi di protezione individuale (DPI) per il personale medico. Mentre il coronavirus iniziava a diffondersi in Europa, alcuni stati membri hanno infatti reagito imponendo il divieto di esportazione dei DPI. La Germania, per esempio, ha emanato il divieto in data 4 marzo per poi revocarlo il 19 marzo in seguito alla minaccia della Commissione Europea di agire per vie legali. L’UE, dal canto suo, ha imposto il proprio divieto suscala europea a metà marzo - per poi tornare sui propri passi il 10 giugno. La pandemia non si è conclusa, e anzi si prevedono nuove discussioni che avranno per oggetto le forniture mediche essenziali. I paesi di tutto il mondo stanno già facendo a gara per stabilire chi per primo potrà accaparrarsi il vaccino anti-Covid (quando sarà disponibile). Il fatto che gli Stati Uniti abbiano già acquistato la quasi totalità delle riserve mondiali di remdesivir, farmaco utilizzato nella terapia dei pazienti infetti dal coronavirus, la dice lunga sulla competitività che si è pronti a esprimere.

La lotta per decidere quale stato dovrà essere il primo a far vaccinare i propri cittadini non farà altro che minare la già instabile solidarietà dell’Europa. La soluzione migliore sarebbe basare ogni decisione sulla disponibilità, il bisogno e l’uguaglianza, e non sui confini nazionali. Tutti i riflettori sono ora puntati sulla Commissione Europea, l’organo al quale è stato affidato l’incarico di agire nell’interesse dell’UE. A giugno, la Commissione ha annunciato di stare intavolando con le aziende impegnate nella produzione dei vaccini degli accordi preliminari di acquisto, e ha proposto un approvvigionamento comune per l’intera Europa, in modo da evitare i battibecchi tra gli Stati membri. Questa primavera, la Commissione è riuscita a reperire DPI per 25 Stati membri, e ha inoltre finanziato la creazione di una riserva comune di attrezzature mediche a livello europeo (la cosiddetta riserva “rescEU”).

Così come gli appalti pubblici garantiscono, nel mercato unico, la libera circolazione delle merci all’interno dell’Europa, in questi mesi si è assistito anche a una “libera circolazione dei pazienti”: basta ricordare quanto i cittadini europei si siano sentiti rincuorati nell’apprendere che gli ospedali tedeschi avevano accolto alcuni pazienti provenienti dall’Italia e dalle regioni frontaliere francesi. Come sottolineato da Mark Hallam Deutsche Welle’s, curare pazienti provenienti da paesi diversi potrebbe rivelarsi un contributo cruciale, soprattutto vista la distribuzione non omogenea dei cittadini positivi.

Cosa dice la legge: l’aspetto giuridico della sanità pubblica europea

All’interno dei trattati dell’UE, un provvedimento chiave per quanto riguarda la sanità è contenuto nell’articolo 168 del TFUE. Nonostante l’articolo fornisca un principio guida per le politiche dell’UE, riassunto nella frase “Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana”, la politica sanitaria è, in linea di principio, competenza degli Stati membri. L’Unione può coordinare o appoggiare le azioni degli Stati membri solo secondo quanto stabilito dall’Art. 6, comma 2, lett. a del TFUE, con riferimento all’Art. 2, comma 5 del TFUE. Questa particolare ripartizione delle competenze è andata a ripercuotersi sull’approccio dell’UE alla crisi da Coronavirus: gli Stati membri hanno implementato le rispettive misure nazionali, spesso senza consultare i propri partner europei, e la Commissione ha in qualche modo tentato (inizialmente con scarso successo) di operare da coordinatore e creare una risposta europea comune. Tuttavia, ci sono alcuni campi in cui l’Unione può legiferare. Nei trattati, queste eccezioni sono rappresentate dall’Articolo 168(4), lett. a - c del TFUE. Con questa base giuridica, in relazione al più generale “ravvicinamento delle legislazioni” dell’Articolo 114, l’UE è stata in grado di regolamentare le autorizzazioni all’immissione in commercio di prodotti come farmaci, apparecchiature mediche, sangue, tessuti cellulari, organi, disinfettanti e tabacco. Eppure, nessuno di questi sembra avere avuto un particolare impatto sulla risposta comune al COVID-19. Applicando un’altra base giuridica, però, l’UE investe delle ingenti somme di denaro nella ricerca medica: Horizon 2020 (programma quadro dell’UE per la ricerca e l’innovazione), il Third Health Programme, il fondo europeo per gli investimenti strategici e la politica di coesione sono tutte iniziative che, negli ultimi anni, hanno permesso di investire nell’ambito sanitario.

In un sistema federale, le competenze sanitarie possono essere ripartite in modo diverso. In Germania, per esempio (vedere l’Articolo 74 (1) Nr. 19, 19a e Nr. 7 della Grundgesetz), Berlino può legiferare o regolamentare sull’assicurazione sanitaria obbligatoria e su quella contro l’assistenza di lungo periodo, può regolamentare la tutela della salute pubblica, l’accesso alle professioni sanitarie, ai farmaci e alle apparecchiature mediche. Nel frattempo, i sedici stati si concentrano soprattutto sulla pianificazione ospedaliera, gli investimenti per gli ospedali (edifici e grandi macchinari) e la sanità pubblica (per esempio, la prevenzione di malattie infettive). In altre parole, mentre le autorità nazionali hanno a loro disposizione tutti gli strumenti necessari per gestire lo scoppio di una pandemia, anche all’interno dei sistemi federali, lo stesso non si può dire a livello di Unione Europa. Non c’è infatti da sorprendersi se sono davvero in pochi a sapere che esiste un Commissario Europeo per la Salute.

Verso il futuro: idee per una riforma della sanità pubblica europea attraverso un approccio collettivo più forte

Se l’obiettivo è ottenere una cooperazione più efficace e una risposta collettiva alle future crisi sanitarie, è necessario rivedere il modo in cui l’UE interviene in talcampo. Per ovvie ragioni, questo è stato un argomento particolarmente scottante durante la primavera; di seguito abbiamo raccolto alcune idee chiave. Il centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e l’agenzia europea per i medicinali (EMA) sono organi europei che operano nel campo della sanità. Entrambi, proprio come il meccanismo “rescEU”, dovrebbero poter usufruire di maggiori competenze, finanziamenti e lavoratori in modo da poter rispondere a crisi globali simili a quella attuale. In effetti, questi due organi potrebbero fondersi per creare un’Agenzia Sanitaria Europea che, secondo le dichiarazioni di Guy Verhofstadt, deputato liberale, dovrebbe essere “composta dai massimi esperti del continente, e non da 27 team di esperti (nazionali) che abbiamo ora”.

Durante il corso della pandemia, la Commissione ha creato, a livello europeo, un comitato di esperti del COVID-19 che ha contribuito alla stesura di linee guida comuni per tamponare l’emergenza. Questa iniziativa potrebbe trasformarsi in un comitato permanente e indipendente in grado di sviluppare norme, formulare raccomandazioni e progettare protocolli comuni per gli Stati membri. Inoltre, come evidenziato in Parlamento dal Gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici, non esiste un equivalente europeo del BARDA, l’autorità americana per lo sviluppo e la ricerca biomedica avanzata il cui ruolo è sviluppare contromisure atte ad affrontare pandemie, patologie emergenti, bioterrorismo e minacce chimiche, nucleari e radiologiche. La nuova Agenzia Sanitaria Europea potrebbe rivelarsi il luogo ideale per ospitare l’omologo europeo di questa istituzione americana.

Il meccanismo di protezione civile dell’Unione Europea è stato potenziato nel 2019 con l’aggiunta del già citato “rescEU”, progetto che permette di unire le riserve di risorse europee. A parte le scorte sanitarie create in risposta al COVID-19, queste riserve includono ospedali da campo che potrebbero essere sfruttati in caso di disastri nucleari, chimici, radiologici o biologici. Nonostante gli sforzi, la crisi provocata dal Coronavirus ha dimostrato chiaramente che l’Europa non possiede risorse sufficienti in nessuno degli ambiti fondamentali: è stato infatti necessario l’intervento della Cina per la fornitura di dispositivi base come le mascherine. Imparando da questi errori, l’UE dovrebbe assicurare la massima autonomia per quanto riguarda le scorte di forniture fondamentali, e aumentare, ove necessario, la capienza delle riserve comuni. A proposito della “libera circolazione dei pazienti”, accennata in precedenza, le prime dimostrazioni di solidarietà sono comparse solo a distanza di settimane dallo scoppio della crisi, e comunque solo in seguito all’adozione di misure drastiche come la chiusura delle frontiere. Nondimeno, a prescindere dall’aspetto simbolico di tali dimostrazioni, esse hanno contribuito a salvare vite umane. Sarebbe logico, quindi, invece di dipendere dalle decisioni politiche dei singoli stati, istituzionalizzare questo tipo di cooperazione. La direttiva europea sulla mobilità dei pazienti del 2011 segue più o meno questa direzione: ai pazienti è infatti garantito il diritto di cercare assistenza medica in un altro Stato membro, e sono circa 200.000 gli europei che ogni anno ne usufruiscono. Ad ogni modo, la ridistribuzione dei pazienti nel caso di sovraffollamento delle strutture sanitarie richiederebbe un approccio diverso - la responsabilità non dovrebbe più ricadere sulle scelte del singolo e sulla consapevolezza dei propri diritti, ma su tutti gli Stati membri. Se il settore sanitario di uno di questi si rivelasse impreparato ad affrontare una crisi improvvisa e senza precedenti, una buona soluzione sarebbe l’aggiunta di un articolo simile alla clausola di solidarietà contenuta nell’Art. 222 del TFUE o alla clausola di protezione civile contenuta nell’Art. 196 del TFUE, entrambi parte del capitolo dedicato alla politica sanitaria. Questo garantirebbe non solo l’aiuto dell’Unione, ma anche un’assistenza reciproca degli Stati membri regolamentata dalla legge europea. Allo stesso tempo, si assicurerebbe l’applicazione del principio di sussidiarietà al campo della sanità pubblica anche in tempi normali. Per fare questo bisognerebbe rivedere i trattati, o, in alternativa, approfondire la clausola di flessibilità dell’Articolo 352 del TFUE, che consente al Consiglio di adottare atti necessari a raggiungere gli obiettivi fissati dal trattato, anche nel caso in cui tali poteri non siano previsti dagli accordi.

Si potrebbero inoltre prevedere degli standard minimi per tutti gli ospedali sul territorio europeo. A maggio, il Gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici ha avanzato la proposta di una direttiva che fornirebbe direttive comuni per i letti ospedalieri, il numero di dottori e infermiere assegnati a ogni paziente, l’importo delle spese ospedaliere, e “l’accesso e la disponibilità del sistema sanitario per tutti, inclusa la popolazione più vulnerabile”. È però abbastanza improbabile che gli Articoli 168 e 114 del TFUE possano fornire una base giuridica sufficiente affinché questa legislazione entri in vigore. Insomma, la strada verso l’applicabilità di questi standard minimi non può prescindere dalla revisione dei trattati. Un’altra idea del Gruppo S&D, più immediata e realizzabile, è quella di sottoporre i sistemi sanitari nazionali a degli “stress test” simili a quelli usati nel settore bancario ed energetico - un modo efficace per verificare se i sistemi sanitari nazionali siano pronti ad affrontare le eventuali crisi future. In questo discorso non si può non menzionare che il campo della sanità è uno dei più costosi per i governi, il che contrasta con le risorse economiche terribilmente basse dell’UE. Secondo i dati della Banca mondiale, l’intero budget dell’UE non corrisponde che all’1% del PIL dell’Unione, mentre gli Stati membri spendono tra il 5% e l’11% del proprio PIL solo per la sanità. In altre parole, l’assistenza medica dev’essere garantita dai singoli Stati membri, e l’unico modo in cui l’UE può intervenire è fornendo loro norme e istruzioni. Dall’altro lato, inoltre, se l’UE fornisse degli standard minimi da rispettare per quanto riguarda il livello dei servizi offerti, si solleverebbe tutta una serie di dubbi sugli aiuti che l’UE potrebbe fornire ai paesi in piena crisi finanziaria - il che sposta il discorso da un’Unione Sanitaria Europea a quello di un’unione fiscale vera e propria.

Infine, anche la condivisione di dati sanitari tra gli Stati membri potrebbe essere un incentivo per la circolazione dei pazienti. La Commissione Europea sostiene che la maggior parte dei cittadini europei “non ha la possibilità di accedere facilmente ai propri dati sanitari quando non si trova nel proprio paese”. Lo scorso anno, la soluzione proposta dalla Commissione è stata l’istituzione di un formato comune per lo scambio elettronico dei dati sanitari, con la garanzia che tale metodo non si limiterebbe a migliorare la qualità delle cure ricevute dai pazienti, ma, permettendo al paziente di non sottoporsi agli stessi test per più di una volta e in più paesi, consentirebbe anche la riduzione dei costi. Alcune iniziative simili sono già in opera: nel 2018, per esempio, tredici paesi europei hanno firmato una dichiarazione concernente lo scambio internazionale di informazioni genetiche al fine di migliorare la prevenzione e lo studio delle malattie grazie a un’ampia banca dati condivisa. In breve, lo scambio di informazioni tra paesi è una risorsa di fondamentale importanza che, nel rispetto dell’RGPD e delle altre leggi sulla privacy, potrebbe implementare la nostra conoscenza di molte problematiche sanitarie.

Cogliere l’attimo: dalla crisi al progresso

La storia dell’integrazione europea è caratterizzata dalla collaborazione nei momenti di crisi e nella risoluzione dei problemi che li avevano scatenati. L’imminente Conferenza sul Futuro dell’Europa, che, con un po’ di fortuna, si svolgerà in autunno, sarà l’occasione ideale per intavolare un dibattito sull’Unione Sanitaria Europea – tenendo sempre a mente il principio di sussidiarietà: fornire assistenza medica è stato per decenni uno dei compiti principali dei governi nazionali, che continua a essere svolto in maniera migliore a livello nazionale e regionale. Allo stesso tempo, una coordinazione a livello europeo potrebbe migliorare la qualità delle cure in tanti modi diversi. Con la pandemia di COVID ancora in corso, una più forte cooperazione nell’ambito della salute potrebbe essere la risposta più in linea con lo spirito del tempo che il mondo sta vivendo.

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