Iniziamo con la prima domanda: parliamo di te, qual è stato il tuo percorso e quello che ti ha portato così attivamente a vivere la vita del tuo quartiere.
Guarda, tutto è iniziato con me che al seguito della mia famiglia mi sono trasferito da Siena a Roma e poi in giro per i quartieri della Capitale. Veniamo da un paesino in provincia di Siena, a cui siamo ancora molto legati. Questo mi da una provenienza indefinita. Abbiamo cambiato quartieri a Roma, che quindi voleva dire quasi cambiare città, persone, conoscenze. Quando sono diventato un po’ più grande, questo mi ha portato all’esigenza di conoscere a fondo il posto in cui mi trovavo, perché mi permetteva di viverlo meglio. Dato che non riuscivo a vivere il clima politico, come molti nella mia generazione, e non ero nemmeno molto spirituale, la mia ricerca di quel qualcosa di fondamentale si era concretizzato nel cercare la relazione con gli altri, spesso anche nel quartiere. Alla fine, mi sono ritrovato qui dove mi sono sistemato.
Ovvero Torre Spaccata (Quartiere nel quadrante sud-est di Roma)
Si, esatto, Torre Spaccata. L’avevo scelto perché era tranquillo, verdeggiante, mi sembrava avere un po’ di quello che cercavo dallo spazio a me intorno. Come ho cominciato invece ad occuparmi della vita locale? Nasce mia figlia e allo stesso tempo mi accorgo che ci sono questi fumi che appestavano completamente l’area. Consideriamo che io sono arrivato lì quasi trentadue anni fa. La cosa che mi sorprese non fu tanto chi stava inquinando, ma piuttosto l’apatia e l’accettazione delle persone che vivevano il quartiere di questo problema. Cerco, e quindi trovo, un comitato di quartiere con cui cominciamo a lavorare sul capire da dove vengono i fumi e come contrastarli. È una storia durata vent’anni. Da quando ho incontrato quel comitato e le persone – con cui mi sono preso moltissimo – abbiamo cominciato a occuparci di questo problema incessantemente. Ci siamo incontrati nel 1990, il problema dei fumi è stato risolto nel 2010. Ho quindi anche imparato a conoscere il quartiere attraverso un suo peculiare aspetto, o problema, e quelle persone che per vari motivi andavano battendosi contro di esso.
Da allora, ho continuato a battermi con quelle modalità che avevo appreso in questo gruppo. Sono andato avanti, passando a problemi come il verde pubblico e alla vita di quartiere in sé per sé. Il Comitato aveva una funzione generalista, si occupava tanto del tombino che dei “massimi sistemi”.
Ho scoperto, intravisto, un problema poi in questa partecipazione locale. C’erano delle difficoltà nel riuscire a rendere più attiva la cittadinanza e a rendere il percorso aperto alle persone. Dopo qualche anno, camminando al Parco di Centocelle, mi accorsi dello sporco e dei rifiuti che inquinavano l’area. Incontrai un altro gruppo di persone con i cani, con cui cominciai a discutere di questo problema, di come a malapena dieci anni dopo l’apertura - il Parco fu inaugurato nel 2006, ed era il 2016 - fosse già in rovina.
Avevano una grande voglia di risolvere il problema ma non era ancora scattato, tranne in una signora più attiva, una reazione vera e propria. Parliamo con un assessore, che ci indirizza ad una seconda persona che aveva adottato un giardino, un quadrato di duemila metri quadrati che era stato già discarica, e che lo aveva reso un giardino – che chiamò Isola Felice. Aveva anche un’area dedicata ai bambini, per capire il tipo di iniziativa. L’assessore era titubante verso noi e i nostri progetti, e ci disse di incontrare piuttosto questa signora che aveva adottato il giardino. Incontrandoci, venne fuori che era necessario un gruppo di associazioni in qualche modo. Un terzo soggetto, rispetto a noi e a questa signora dell’Isola Felice, fu quello stesso Comitato di Quartiere di Torre Spaccata che aveva ripreso a vivere.
Il problema di Torre Spaccata con il Parco di Centocelle era la presenza di tutti questi sfascia-carrozze intorno il parco [1]. Si crea quindi un terzetto con me, un po’ ex-funzionario pubblico e un po’ conoscitore di queste dinamiche; la signora che aveva adottato l’Isola Felice e il nuovo presidente del Comitato.
Da lì, nacque l’idea che il Parco non fosse ancora capace di decollare, nonostante fosse qualcosa di bellissimo, realizzato con fondi e sostegni dal Ministero. Questo perché essendo anche in una zona periferica spesso il suo buon funzionamento veniva sancito da meccanismi esterni, il che voleva dire che dovevamo lavorare anche sulla comunità locale per potergli dare nuova vita. Scegliemmo un nome in qualche modo provocatorio, di Comitato di Fatto – anche in mezzo alle difficoltà tecniche dei comitati di fatto - dedicato proprio al Parco di Centocelle e a questa periferia che poi, oramai, periferia non è.
Mandiamo in giro questo nome, Comitato di Gestione del Parco di Centocelle, che scandalizza un po’ di persone - dalle istituzioni ai gruppi un po’ che ci tenevano a forme di cogestione. Chi venne da noi fu la LUISS, che in quel momento stava studiando i processi dal basso e cercava qualcuno proprio come il nostro gruppo. Ci individuarono come un nucleo che voleva fare il proprio e che rientrava nel loro schema d’azione e di teoria. Parliamo, ci confrontiamo con il loro modello di collaborazione civica e ci ritroviamo d’accordo. Al municipio chiediamo un po’ gli indirizzi di tutte le associazioni, per riunirci in una ventina di associazioni, sessanta persone, che diventa un po’ un Laboratorio d’associazione partecipata, in cui ognuno ha però un punto diverso e noi non riusciamo purtroppo a creare una meta-associazione come si voleva. Con quel terzetto di cui ti ho detto prima, decidiamo comunque di creare una associazione ad hoc.
Il gruppo della LUISS decide di supportarci anche in questo. Da lì una lunga storia di impegno che dà vita poi a una Cooperativa, che servirà a colmare anche quel vuoto un po’ lavorativo in cui si trovano alcuni dei volontari. Ci si accorge che comunque i risultati non arrivano tutti come sperato. Gli autodemolitori sono inamovibili. I finanziamenti per il parco, milioni di euro, non partono mai. Tre blocchi compongono il parco e solo uno ne è realizzato, un altro è invece completamente bloccato. Questo fatto che le associazioni non riescono poi ad associarsi tra di loro mi lascia un po’ così.
Mi chiedo, come si può lavorare in positivo? Abbiamo dei problemi critici del Parco di Centocelle che non riusciamo a risolvere. Ma, dall’altro lato della Togliatti, ci sono sessanta ettari del Pratone di Torre Spaccata che è stato lasciato in disuso. Nel 2019 chiediamo di unire le due aree, anche dopo la pubblicazione degli studi condotti sugli scavi archeologici nell’area.
La pubblicazione delle archeologhe Patrizia Gioia e Rita Volpe
Esatto. Proponiamo quindi di mettere insieme le due aree, da cui poi si arriva al Comitato del Pratone di Torre Spaccata, cercando di superare l’impasse dell’area di Centocelle. Ci sono state indecisioni, comunque, nel lato burocratico e politico che non hanno permesso alla cosa di procedere perfettamente. La Soprintendenza di Stato, per esempio, ha preso prima tempo nel 2019 e poi è sparita nel 2020, anche dalle riunioni pubbliche dedicate a queste due aree. Si muoveranno per un altro sopralluogo, per poi sparire di nuovo, poco dopo.
Nel 2021, si riescono ad ottenere tre risoluzioni dai tre municipi intorno il Pratone e dalle forze politiche. Di fatto, cercano di andare oltre la Soprintendenza chiedendo nuovi vincoli. Prendendo però atto della mancanza dei vincoli da parte dell’ente addetto, in qualche modo cercano di crearne di nuovi ma legati alle aree verdi, che sono competenza locale. Poi esplode il grande problema di Cinecittà Studios.
Perché ho fatto tutto questo alla fine? Nel 2010, mi ricordo, partecipai a una riunione a tema proprio partecipazione, con un gruppo di acquisto solidale che faceva anche diverse attività culturali. Io diedi un titolo al mio intervento, ovvero “Le meraviglie della partecipazione”. Al di là di raccontare i risultati che i cittadini ottengono con le azioni di tipo civilistico - che pagano nel momento in cui ci si attiva e si comprendono anche i meccanismi - ecco, chiedendo anche in giro all’evento, capivi che in fondo ci si attiva perché si incontrano persone affini. Secondo me è una grande verità questa.
Sono stato un po’ nomade, cercando quel gruppo di miei simili. È un gruppo non circoscritto e definibile, ma di persone che come me sono appassionate - per passione politica, civica, culturale - e prese da questi problemi. Si finisce col fare cose reali, pratiche, fino a finire a parlare con i decisori politici stessi.
Si è in qualche modo così cittadini, come dice la Convenzione di Faro, eredi del proprio patrimonio culturale. Il cittadino ha un ruolo attivo in tale senso. Tutto ciò voleva dire incontrare persone come me e che, come me, avevano a cuore cose che anche io amavo.
Beh, questo ha coperto gran parte già delle mie domande. Mi hai detto di come avete collaborato con LUISS – e se non erro, c’erano anche Roma Tre ed ENEA. Come avete vissuto questa relazione con questi attori non locali e che erano orientati da interessi spesso diversi, di logiche diverse. Come avete interagito con loro?
Prima cosa, credo sia giusto dire che a loro dobbiamo molto. Altrettanto importante è dire che non è stato facile. Nel senso, dobbiamo loro molto perché hanno investito su di noi. Hanno cercato di renderci dei facilitatori di un certo livello. Vivevamo purtroppo di scarsa partecipazione, in quanto anche non ancorati alla politica locale. Loro hanno provato a darci una grande mano. Avevano, in qualche modo, bisogno che però fossimo qualcosa in più, per essere ripagati di questo investimento.
Quando ne sono uscito, l’ho fatto pensando che questo è un lavoro importante che va fatto. Le università le desideriamo sempre, ma c’è bisogno che tra loro e i cittadini esista un rapporto metodico anche con cui il secondo si ritrovi stimolato da questo incontro, e che gli sia concesso di dettare il tempo. Perché se ci sono fughe in avanti, si crea un distacco dal territorio.
Il problema può essere che quindi arrivano anche con idee che combaciano, che hanno la stessa logica, ma si investe su un gruppo, si scatta in avanti forse in maniera troppo veloce, e ci si perdono dei pezzi dietro, che spesso è la vita del quartiere.
Secondo me, tornando indietro, porrei l’attenzione non solo sul quartiere ma anche sul gruppo. Si arriva in un quartiere che si sceglie perché ha delle arretratezze, problemi di degrado o di disagio. Se conosci il quartiere per quel che è, non puoi aspettarti di trovarvi le avanguardie culturali. Trovi un nucleo sicuramente pronto al cambiamento, ma questo diventa difficile comunque poi da espandere. Bisogna lavorare su questo gruppo iniziale.
Hanno provato a fare formazione per noi ed aggregare gli altri, ma forse avremmo dovuto distinguere le due fasi. Le persone attive andavano rese facilitatori in maniera circoscritta, e da lì poi sperimentare per aumentare l’aggregazione verso il suo esterno. Non so se mi spiego.
Loro si sono rivolti, con le loro azioni, non al gruppo in sé – su cui lavorare e poi spingerlo nel quartiere. È stato un lavoro sulla comunità direttamente.
Hanno forse spinto troppo sull’acceleratore e portare un risultato chiaro subito, cercando di generare lo scatto subito.
Hanno accelerato molto, e presumo che sia stato proprio per riuscire ad ottenere qualcosa di percepibile o tangibile anche all’esterno. Le risorse che erano in campo andavano calcolate meglio, decidendo di investire più sull’iniziale innesto o qualcosa di diverso. Io l’ho vissuta bene, perché anche se quando si affacciarono mi misi sulla difensiva - perché volevo qualcosa di nostro - mi resi poi conto che tale apporto esterno, al netto della conservazione della nostra radice unica, era vitale.
C’era bisogno che fosse chiaro anche che, nel momento in cui entravano in scena, fosse evidente. Laddove non potevamo noi, che fosse chiaro che c’era un esterno – come l’università o il gruppo di ricercatori. Un po’ la scelta dei restauri: quando lo fai e non nascondi che è stato fatto.
Fa parte della sperimentazione ovviamente. Io parto dal mio centro e vado verso l’orizzonte. Certamente, qualcuno dall’orizzonte va verso altri centri teorici. È una questione soprattutto di tempi e di velocità.
Non ha dato i risultati sperati, perché si sono manifestate esigenze sui tempi diversi tra i vari attori coinvolti. Certo, è rimasta un’esperienza preziosa.
Sempre a proposito, per esempio, della Convenzione di Faro – atto internazionale che ricade sul cittadino. La vostra azione ha spesso intravisto l’ambito internazionale o, al di là di Faro, si è vissuto il locale in qualche modo in maniera prioritaria, privilegiando la prossimità?
La cosa desiderabile è che il rapporto esterno sussista. Mentre col Parco di Centocelle c’era già un’intenzione del mondo locale di realizzare il Parco, il Pratone ha una situazione diversa. Il gruppo di cittadinanza attiva vedeva prioritario la salvaguardia degli aspetti ambientali e culturali, lo vede tuttora ed è un obiettivo molto avanzato in qualche modo. La ricerca in tal caso di alleanze esterne è diventato necessario. Vi è un obiettivo definito che quindi ci permette di ragionare in tal senso.
La petizione non è legata per esempio ai cittadini esclusivamente romani. È venuto per esempio Giacomo Castana, che ha una rete di circa ventimila persone, giardiniere che concentra la sua attenzione sul problema del verde, urbano e non. Ha una sua audience e quindi, nel momento in cui è coinvolto, porta con sé una certa attenzione. Sul Pratone è stato così. Sul Parco di Centocelle è diverso, perché non è un gioco culturale, ma anche istituzionale. C’è un comune con i soldi che si deve sbloccare.
Contatti con l’esterno li abbiamo avuti per la questione degli autodemolitori. Abbiamo scritto al Consiglio d’Europa perché prendesse in considerazione che questi autodemolitori fossero in violazione delle norme europee. La Regione, nel frattempo, aveva fatto una norma che noi non supportavamo, ma lo Stato a sua volta aveva iniziato a contrapporsi alla regione. In tal caso, quel gruppo che riceve le petizioni al Consiglio d’Europa, avendo visto lo stato intervenire, si è tirato ovviamente indietro per non sovrapporsi nelle competenze.
Da un po’ proviamo a rendere reale una richiesta a livello europeo che si concentri sulla salvaguardia del pratone, essendo dentro anche quella retorica ormai diffusa di verde pubblico e sostenibilità.
Ne abbiamo parlato anche con Stefano. Anche nel Recovery e nel PNRR vi sono obiettivi di sostenibilità e di ambiente.
Esatto. Molti ci danno ovviamente già per sconfitti, ma qui comunque vogliamo combattere questa battaglia, che secondo me si può vincere. Spesso si perde per il semplice rimanere in silenzio.
Una ultima domanda quindi. Tutta questa esperienza cosa ti ha insegnato per come vivere proattivamente la partecipazione e per far comprendere alle istituzioni queste possibilità. E non solo nazionali, ma anche locali e transnazionali-europee.
La partecipazione va premiata. Incentivata e sviluppata, certamente, ma premiata. Come? Con i risultati. Gli obiettivi e i risultati di questa collaborazione civica, distinta dalla partecipazione. Si partecipa anche quando si vota, che è però un delegare. Si può però fare qualcosa in più, in maniera sostanziale, che diventi una forma di collaborazione attiva tra e con i cittadini.
Innanzitutto, ascoltando. Se investigassimo su quanto, chi governa, conosca gli organi di consultazione che già esistono, scopriremmo la vasta ignoranza in merito. Solo su pochi temi come la salute mentale esistono delle consulte pubbliche. Se devo parlare con una commissione o un assessore, devo chiedere un’audizione. Non esiste questa chance di creare una consulta periodica, ad esempio, in cui sono presenti i politici ma soprattutto i tecnici. Perché sì, i politici devono ascoltarti, ma loro poi parlano ai tecnici, con cui noi non parliamo mai direttamente.
Nel 2020, abbiamo avuto incontri ad esempio con la vicedirezione del Comune di Roma, che ha messo in campo un architetto, dirigente, che sul Parco di Centocelle ha tenuto un incontro pubblico in cui abbiamo anche portato il tema del Pratone. Hai tutti così: politico, tecnico, amministrativo. Se c’è un problema, viene fuori in quel momento.
Se io civico sto dando i numeri, fantasticando, inventando cose impossibili, te ne accorgi lì. Se “Non se po fa’”, come dice un libro e un detto romano, te ne accorgi in questi incontri, senza dover girare per cento uffici diversi.
La situazione attuale è quella in cui non si è alla pari, non si dà ascolto ai cittadini. Bisogna quindi attuare pienamente gli statuti della città di Roma, che poi ogni municipio declina come preferisce. Devo fare ancora una ricerca precisa su questi organismi che riconoscono la cittadinanza attiva, che non sono tenuti attivi. È un primo passo.
Dove c’è partecipazione, quindi, premiare. Laddove non ci sia, incentivare.
Questa importante testimonianza di vita e di attivismo civico ci permettono di comprendere un lato importante della vita della polis troppo spesso lasciato in disparte: quello dal basso, quello del cittadino-attivo che decide di impegnarsi per affrontare e risolvere problemi che reputa importanti.
La politica in senso più grande, quella ufficiale data dalle deleghe del voto, non può dimenticare che la delega non vuol dire monopolio dell’azione. I cittadini, nel loro piccolo, continuano a essere i più attenti occhi sui problemi dello spazio pubblico. Gli spazi di consultazione esistenti devono dare luce e voce ai gruppi della cittadinanza più o meno attivi.
L’Unione Europea, sicuramente, può e deve sfruttare tali spazi per diventare una istituzione ancora più vicina ai suoi cittadini. I problemi delle città sono, di specchio, i problemi stessi dell’Europa. Comprendere come, dall’alto, approcciare queste realtà potrebbe diventare per l’Unione quel salto necessario ad avvicinarsi ai reali problemi dei suoi cittadini, ed ad interagire con loro direttamente - invece che con organi statali spesso soggetti alle proprie agende politiche.
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