Si discute della crisi in Medio Oriente con uno sguardo di volata sulle origini degli scontri etnico-religiosi

Israele e Palestina, tra promesse e indecisioni

, di Silvia Dalla Ragione

Israele e Palestina, tra promesse e indecisioni
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È oramai da decenni che israeliani e palestinesi si contendono la stessa striscia di terra. Un lungo, irrisolto conflitto che ha visto più volte schierarsi il resto del mondo da una parte o dall’altra. Dai primi di maggio, l’escalation di violenza, i lanci di razzi da parte di Ḥamās e i bombardamenti da parte di Israele sulla striscia di Gaza fanno presagire l’apertura di un conflitto ancora più sanguinoso. Più parti, tra cui la Lega Araba – cui molti stati sono, formalmente, avversari di Israele e vi ci sono già scontrati militarmente – e molti paesi dell’area mediterranea e non, hanno invocato l’intervento delle Nazioni Unite, che ha preannunciato un meeting del Consiglio di Sicurezza il 16 maggio.

Nascita dello Stato di Israele

Come si è arrivati al conflitto di oggi? Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, a seguito dei crescenti movimenti antisemitici che avevano preso piede in Europa, prese vita il movimento sionista che auspicava, tra i suoi obiettivi, il ritorno degli ebrei alla cosiddetta “terra promessa” di biblica memoria, ovvero l’odierna Palestina.

All’epoca questo territorio faceva parte dell’impero ottomano, ormai decadente, e la popolazione che la abitava era a maggioranza di etnia araba e di religione musulmana. Dopo la sconfitta dell’impero ottomano alla fine della Prima guerra mondiale, le potenze europee ridisegnarono a Parigi nel 1918 anche il Medio Oriente. Il Regno Unito ottenne il governo della Palestina negli accordi successivi, istituì nella zona est del suo mandato – una forma di dominio coloniale inventata proprio alla fine della Grande guerra - la Giordania, mentre ad ovest diede spazio ai primi insediamenti degli ebrei provenienti da al di fuori della Palestina, che andarono ad aggiungersi alla locale popolazione araba. Gerusalemme, città cardine per tutte e tre le principali religione abramitiche, sarebbe invece stata sottoposta al controllo internazionale.

Gli abitanti arabi palestinesi si opposero al ricollocamento degli ebrei nelle aree da loro abitate, viste anche le dimensioni del processo migratorio. Nacquero già i primi germogli di conflitti tra i due gruppi religiosi, ma il governo mandatario britannico continuò sulla sua strada, mettendo a tacere i diversi gruppi di rivendicazione. Gli avvenimenti della Seconda guerra mondiale, tristemente noti, portarono ad una impennata del processo migratorio nell’area da parte della comunità ebraica mondiale. Il Regno Unito decise di ritirarsi dall’area, lasciando che fossero le Nazioni Unite neoistituite a decidere il futuro dell’area. Nel 1948, dopo la dichiarazione d’indipendenza da parte della comunità ebraica con l’assenso tacito di Stati Uniti e Unione Sovietica, e la nascita dello stato di Israele, scoppiò il primo di una lunga serie di conflitti che vide da un lato la neonata nazione ebraica e dall’altra gli stati arabi che lo circondavano. La guerra portò alla sconfitta dei secondi, che furono ricacciati al di là dei confini naturali che l’ONU e le nazioni vincitrici della guerra avevano disegnato per lo stato di Palestina e quello d’Israele. L’espansione portò a grossi movimenti di popolazione araba, che dovette cercare rifugio nei paesi circostanti, che non furono sempre generosi negli aiuti. Accettare infatti il flusso di palestinesi in uscita dai territori occupati avrebbe voluto significare accettare l’esistenza di Israele come stato legittimo.

Israele iniziò una rapida crescita, tanto economica quanto abitativa, mentre cresceva d’altro lato il risentimento tanto degli stati arabi che dei musulmani popolanti l’area. Nel 1964 trovò la luce l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), sostenuta dalla stessa Lega araba. Nel corso delle decadi successive diversi conflitti hanno continuato a impegnare tanto Israele quanto i suoi vicini. Con la Guerra dei Sei Giorni, lo stato con capitale Tel Aviv occupò tutta la zona terrestre portandosi fino al Mar Rosso, e nonostante l’intervento siriano-giordano, la sconfitta araba fu molto rapida. Altri conflitti, come quello del 1973 che portarono al cosiddetto shock petrolifero, portarono a nuovi scontri e a nuovi allargamenti di Israele, nonostante gli appelli dell’ONU per il rispetto invece della divisione territoriale inizialmente disegnata. La guerra del ’73 fu anche quella in cui prese forma la divisione tra chi sosteneva Israele – ovvero gli USA e la sua rete d’alleanze – e chi gli stati arabi, ovvero l’URSS e il Patto di Varsavia. Solo con gli accordi di Camp David, Israele si ritirerà in parte dalle zone occupate, rilasciando il Sinai all’Egitto nuovamente, ricevendo il riconoscimento ufficiale da quest’ultimo.

Nonostante si sia assistito ad un decremento delle ostilità tra i paesi arabi e Israele, la sfida con Ḥamās, le sue milizie e altri gruppi come Ḥizb Allāh (Hezbollah), è ancora invece aperta. Gli anni ’80 hanno rappresentato un nuovo capitolo della lotta tra le due parti, con l’OLP che ha man mano guadagnato tanto legittimità internazionale quanto intenzione, parrebbe, a trovare un accordo con la frangia più moderata di Israele per mettere fine alle ostilità.

Il caso di Sheikh Jarrah

Come si è arrivati alla nuova escalation? Dal 1967, Gerusalemme Est, che da mandato internazionale è identificata come capitale della Palestina, è stata occupata da Israele. Gli abitanti locali, palestinesi, hanno perso il loro status di residenti, piuttosto si ritrovano in una posizione di legalità che assume dei grigi contorni e che, in ogni momento, li può vedere rimossi dalle autorità occupanti israeliane.

Il quartiere di Sheikh Jarrah ha visto portare avanti da alcuni anni, quasi una decina, una causa legale da parte di alcune famiglie ebraiche che rivendicano il diritto di abitare l’area, nonostante dal 1948 tale zona sia popolata da famiglie palestinesi che, a loro volta, rivendicano di aver acquistato legalmente dal governo giordano le proprie abitazioni. Non godendo delle medesime garanzie legali degli israeliani, il caso è diventato tanto complesso quanto simbolico delle disparità vissute nella regione. Dal caso legale si è passati, lentamente, a delle proteste e degli scontri tra attivisti palestinesi e forze di sicurezza locali.

Nella giornata del 7 maggio 2021, gli scontri si sono spostati vicino la moschea di al-Aqṣā, uno dei luoghi più sacri dell’Islam – in un periodo di altissima frequentazione in vista della fine del Ramadan. Le proteste si sono fatte più accese, così come la violenta risposta della polizia israeliana che ha fatto ricorso a proiettili di gomma, fumogeni, lacrimogeni, cannoni ad acqua e non solo.

In questo frangente, nel momento di massima tensione, in cui le forze israeliane hanno attaccato fin dentro la moschea stessa di al-Aqṣā, Ḥamās è intervenuto, lanciando un ultimatum a Israele a cui è seguito un primo lancio di razzi. Nonostante il tentativo di saturare e superare Iron Dome, il sistema di difesa antimissilistico israeliano sia solo in parte funzionato, Israele ha risposto con forza, eccessiva secondo quasi tutti gli analisti, iniziando un massiccio bombardamento della Striscia di Gaza. Nonostante l’obiettivo dichiarato sia eliminare la possibile minaccia di Ḥamās e delle sue falangi più armate e violente, quali le Brigate del martire ʿIzz al-Dīn al-Qassām, le vittime più numerose sono i civili e i bambini che popolano una delle aree più densamente popolate al mondo.

Il ministro della difesa israeliano, Benny Gantz, ha inoltre affermato di aver respinto la richiesta di cessare il fuoco contro Gaza avanzata da più nazioni, vicine e non, sancendo che l’obiettivo è di “Colpire duramente Ḥamās, indebolirlo e fargli rimpiangere la sua decisione”.

La passività dell’Unione Europea

Il conflitto arabo-israeliano è un conflitto che è stato spesso centrale nel dibattito dei paesi europei. Israele, fin dal 1995, è uno stato associato all’Unione europea e generalmente le relazioni tra le due entità sono positive. L’Italia, in particolare, mantiene degli stretti rapporti con Tel Aviv, con speciali partnership scientifiche e culturali che fanno di Israele forse uno dei più fondamentali elementi della science diplomacydi Roma. Già nel [1998 > https://www.researchgate.net/publication/304882354_Bordering_Disputed_Territories_The_European_Union’s_Technical_Customs_Rules_and_Israel’s_Occupation ] si son mosse delle prime voci di dissenso su questo stato di cose, con il dibattito sui prodotti israeliani provenienti dai territori occupati in Palestina – territori che, al contempo, Israele rivendica. Su questo tema, nel [2015 > https://www.theguardian.com/world/2015/nov/29/israel-suspends-contact-eu-bodies-labelling-west-bank-produce ] il ministero degli affari esteri israeliano ha dichiarato ad esempio di voler sospendere il dialogo diplomatico con l’Unione, dopo che quest’ultima aveva promosso una legge per etichettare i prodotti provenienti dalla Cisgiordania, territorio palestinese attualmente occupato. Per Israele, tale mossa fu letta in chiave di volontà di boicottaggio discriminatorio da parte dell’Unione europea – un approccio, quello di far voce su eventuali mosse antisemite, tipico della propaganda delle ali estremiste israeliane[Davide Em1]

In Europa, però, solo 9 stati membri sui 27 attuali riconoscono la Palestina. Ciò detto, l’Unione è la più grande donatrice di aiuti verso le aree autonome palestinesi. Per quel che riguarda la stessa situazione dei confini, l’UE non riconosce altra divisione territoriale che non sia quella stabilita negli accordi di pace del 1967, meno un nuovo accordo tra le parti, ovvero l’esistenza di uno stato libero palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e con capitale Gerusalemme Est.

Gli ultimi giorni hanno visto delle blande reazioni da parte dell’Unione europea, che ha lasciato al suo portavoce per gli affari esteri, Peter Stano, affermazioni quali “I razzi lanciati da Gaza contro i civili sono inaccettabili e la violenza deve cessare immediatamente. Tutti i leader hanno la responsabilità di agire contro gli estremisti (…). Ribadiamo il nostro appello a tutte le parti a impegnarsi in sforzi per ridurre l’escalation”.

Dichiarazioni abbastanza neutre, se non passive, che si rifanno a un problema fondamentale dell’Unione europea, ovvero che i suoi stati membri hanno opinioni molto discordarti sulla situazione. Se paesi come la Francia e la Svezia hanno una posizione a favore e supporto della Palestina, stati come Ungheria e Polonia hanno spesso dichiarato il proprio sostegno alla causa israeliana. Tale mancanza di coordinamento tra le stesse nazioni membro ha reso impossibile un’azione comune, oggi più che mai indispensabile, e che invece continua a vedere l’Unione del tutto silente.

La posizione ufficiale è che la soluzione sia la divisione del territorio in due stati, ma niente sta venendo fatto per spingere al suo arrivo. Divisa tra le opinioni dei suoi membri, l’UE non è riuscita a contrastare l’azione della Casa Bianca che, durante la presidenza Trump, ha presentato un proprio peace plan per la zona. Un piano che, più che altro, rappresentava di fatto un sostegno totale a Israele – ribadito anche ora dalla presidenza Biden -, a totale svantaggio degli arabi. L’UE ha mantenuto la sua posizione passiva, ma non accondiscendente. Non riconosce soluzioni parziali né tantomeno però si propone come mediatrice per risolvere il conflitto che da decenni infuria.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso?

Se la convivenza sotto lo stesso tetto nazionale è oramai resa impossibile per motivi tanto politici quanto sociali, economici e religiosi, anche la soluzione dei due stati appare complicata. Le rivendicazioni delle due parti rendono difficile, ma non impossibile, la divisione tra due stati. I palestinesi e l’OLP hanno ben chiaro, comunque, cosa rivorrebbero indietro. Quello che è altrettanto chiaro, in particolare alla luce degli ultimi giorni, è la disparità delle forze in campo. Israele conta uno degli eserciti più forti, numerosi e avanzati al mondo. La Palestina non ha delle vere e proprie forze armate, ma gruppi miliziani finanziati da potenze straniere – come l’Iran –, non una vera sfida per gli F-35 di Tel Aviv. Lo stesso stato israeliano è un paese ricco, tra i primi a sconfiggere la pandemia del COVID-19, mentre la Palestina vive sotto un costante embargo e periodo d’occupazione e umiliazione. Come le cifre mostrano, i contro-attacchi israeliani sono devastanti, letali, capaci di colpire velocemente in qualsiasi area della Striscia di Gaza, come già sta avvenendo, martoriando un popolo indebolito da anni e anni di lotta, che rivendica il suo diritto all’esistenza e che continuano, nonostante siano ben consapevoli della disparità delle forze in campo. È facile, ad oggi, trovare un vincitore e un vinto in questo conflitto, ma da terzi, quali tutti noi siamo, non è facile schierarsi. Una cosa è chiara, ovvero che non è possibile giustificare lo sproporzionato uso della forza armata contro civili inermi. Israele ha il diritto a esistere, e a non inferire sulla popolazione palestinese, cosa che invece sistematicamente fa, come messo in luce da Amnesty International e da molte altre ONG operanti nell’area. I palestinesi hanno il medesimo diritto a esistere e vivere. Per questo, forse, è più che mai necessaria una mediazione tra le parti, ancora oggi incapaci di trovare una posizione comune. Più che mai, enti come l’Unione europea dovrebbero rimboccarsi le maniche e far propria quella che è a tutti gli effetti una sfida storica e politica quasi insormontabile ma non impossibile. Il silenzio dell’UE è imbarazzante e impossibile da scusare, non a fronte dell’escalation che sta venendo vissuta. È necessario un deciso intervento, che sia politicamente scomodo o meno, per fermare il conflitto prima che esploda definitivamente.

L’articolo è stato preparato il 14 maggio e non presenta aggiornamenti dopo questa data specifica.

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