Il 16 settembre 2022 muore Mahsa Amini in un reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Kasra tre giorni dopo il suo arresto per mano della polizia “morale” religiosa per non aver indossato correttamente l’hijab. Da allora le proteste, a cui hanno fatto eco quelle nel resto del mondo, continuano a far tremare il regime iraniano al grido di “Jin, Jiyan, Azadi” (Donna, Vita, Libertà). Le rivendicazioni si scontrano con un impianto giuridico discriminatorio che colpisce le donne e le minoranze. Il rigore dei mullah e l’instabilità economica, dovuto all’isolamento del regime, hanno fatto perdere la speranza verso il presente e il futuro di intere generazioni.
Nelle proteste molte donne si mostrano a capo scoperto e danno fuoco ai loro foulard, tagliandosi i capelli. Recentemente è diventata virale l’azione del “salta turbante”, con la quale i/le manifestanti tolgono il copricapo dei membri del clero sciita. Due simboli cardine, il velo e il turbante, della pratica religiosa e del suo uso politico.
Le proteste sono guidate da giovanissimi tra i 15 e 25 anni e dalle donne, e sono sostenute in modo intergenerazionale, come dimostrato dagli scioperi dei mercanti, degli avvocati, dei medici, dei sindacati, dei camionisti e dei lavoratori di diverse industrie. Le rivendicazioni uniscono gruppi sociali e culturali differenti e sono capillari nel paese, arrivando ben oltre i centri urbani. Rappresentano per queste caratteristiche un unicum se comparate con le proteste degli anni precedenti, come le più recenti del 2019-2020. Le manifestanti e i manifestanti avanzano richieste di maggiore libertà, l’eliminazione dell’obbligo di indossare l’hijab, il riconoscimento dei diritti fondamentali per la popolazione curda che vive nel Paese. Reclamano, in ultima istanza, il rovesciamento del sistema politico iraniano, dal 1979 una Repubblica Islamica. Non emerge alcuna fiducia nella possibilità di una riforma del sistema attuale né vengono ricercati riferimenti e interlocutori nelle fazioni moderate e riformiste.
Il governo ha, sin dall’inizio, represso le manifestazioni in modo violento. Secondo l’organizzazione Iran Human Rights almeno 458 persone hanno perso la vita nelle proteste, con decine di migliaia di arresti e almeno 17 condanne a morte. L’8 dicembre 2022 l’Iran ha giustiziato Mohsen Shekari per aver ferito un ufficiale paramilitare, la prima esecuzione nota legata alle mobilitazioni. Intanto nelle regioni curde, da cui proveniva Mahsa Amini, truppe, veicoli e artiglieria pesante sono impiegati per reprimere le rivendicazioni.
L’abolizione della polizia morale è invece una chimera, inizialmente annunciata dal procuratore generale iraniano Mohammad Jafar Montazeri e mai confermata dall’istituzione competente del Ministero dell’Interno iraniano.
Alla luce di questo contesto, è possibile affermare che la ferita aperta dell’Iran è una ferita aperta per il mondo intero. Di seguito quattro elementi per spiegarne le ragioni.
Il primo: non si tratta di un singolo fatto o contesto. La storia delle donne in Iran è anche la storia delle donne nel mondo. Affrontare una contraddizione, ribellarsi ad una delle possibili espressioni del sopruso, vuol dire opporsi ad un sistema consolidato di oppressione e sofferenza che attraversa l’umanità e la sua storia. Vuol dire anche ricostruire, riannodare e illuminare le lotte, le voci, i volti troppo a lungo dimenticati.
“Le donne di cui conosciamo la vita e le azioni sono le luci che brillano qua e là nell’oscurità della storia, e per questo possiamo immaginarle come pezzi di un puzzle, pezzi che dobbiamo comporre dentro un nuovo disegno, una nuova rappresentazione di quella che è ed è stata la loro storia. Le loro vicende possono sembrare scollegate a causa del silenzio sugli eventi che le circondano. Il nostro compito è quello di dissotterrare queste storie che, sebbene apparentemente sconnesse, tessono una tela che collega tutte le donne e il loro cammino.” (Da Jin, Jyan, Azadi. La rivoluzione delle donne in Kurdistan)
Un secondo elemento importante, e ormai quasi drammaticamente banale: i diritti o sono di tutte e tutti nel mondo o sono privilegi. Ripensare il sistema istituzionale per l’Europa e per il mondo vuol dire sostanzialmente rispondere al cosiddetto paradosso della vuota promessa, la distanza tra ciò che è scritto nelle carte dei diritti fondamentali e ciò che è ogni giorno praticato. La vuota promessa è quella voragine che separa i proclami dai fatti, mentre il resto del mondo assiste.
Come recita la strofa della canzone “Another Love” diventata virale durante le proteste: And if somebody hurts you, I wanna fight / But my hands been broken one too many times /So I’ll use my voice, I’ll be so fucking rude /Words they always win, but I know I’ll lose.
E se qualcuno ti fa del male, voglio combattere / Ma le mie mani sono state rotte troppe volte / Quindi userò la mia voce, sarò fottutamente duro / Le parole vincono sempre, ma so che perderò.
La terza riflessione è che l’Iran ci ricorda l’assioma dell’intersezionalità delle lotte di civiltà. Non si può affrontare in modo settoriale una crisi sistemica che lega le violazioni dei diritti, le disuguaglianze, il cambiamento climatico, le guerre. Queste crisi si alimentano l’un l’altra e rappresentano, nel loro insieme, l’immagine della crisi totalizzante che viviamo in quanto umanità alla deriva. Le proteste in Iran non si limitano a criticare un regime evidentemente repressivo nei confronti delle donne. Rivendicano libertà, migliori condizioni economiche e un nuovo sistema politico per garantirle. E ricordano a noi, dall’altra parte di uno specchio che ci mostra tutto quello che accade e riflette allo stesso tempo la nostra immagine e le nostre risposte, che non possiamo essere assolti se il soggetto politico che conta davvero è l’umanità intera. La lotta delle donne in Iran è anche la nostra.
Infine, il motto “Donna, vita, libertà” nasce dai quaderni delle donne curde e ci restituisce la misura e l’importanza della rivoluzione delle donne. La schiavitù delle donne è concepita, nel pensiero curdo, come l’inizio di tutte le altre forme di schiavitù, avviata per contrastare i primissimi sistemi matriarcali del neolitico, in cui la donna ricopriva un ruolo centrale, pacificatore e solidale. Al sessismo è legata la cultura del potere, della violenza e della guerra, in cui non può esserci redistribuzione e solidarietà ma solo sopruso e saccheggio. Sia lo Stato, in particolare la forma dello Stato-nazione, che le religioni monoteiste hanno concorso a normalizzare questi processi. Il primo traendone forza per consolidare il potere degli uomini e rendendo le donne “colonizzate” come una nazione sfruttata, le seconde rinsaldando una cultura dell’inferiorità. La liberazione delle donne è necessaria per fondare una società nuova, perché rilascia energie schiavizzate da millenni e ricostruisce le relazioni sociali in un modo completamente diverso. Non è possibile approfondire gli elementi di interesse di questa elaborazione che pone al centro la donna come soggetto rivoluzionario, ma è importante sottolineare che si lega a doppio filo con quella del “confederalismo democratico”. Si tratta di un’analisi della realtà (e almeno in parte i suoi esiti) che tanto assomigliano all’elaborazione federalista europea del superamento del potere abusivo dello Stato-nazione e delle aberrazioni del nazionalismo in favore di una comunità che si riconosce in valori comuni al di là delle appartenenze nazionali, culturali, linguistiche e di genere.
And I wanna cry, I wanna fall in love / But all my tears have been used up / On another love
E voglio piangere, voglio innamorarmi / Ma tutte le mie lacrime sono state consumate / Per un altro amore
Parafrasando il verso della canzone di Tom Odell, fintanto che le violenze continueranno, il nostro amore per l’umanità, in senso ampio, sociale, collettivo, continuerà ad “esaurire” le sue lacrime per chi ha sofferto, per chi non abbiamo potuto o voluto aiutare. Come europei e come esseri umani possiamo ancora scegliere, “facendo della contraddizione tra fatti e valori una questione personale”, di impegnarci per una rivoluzione che ci chiama direttamente in causa.
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