Cosa sta volendo dire la fine della ventennale missione in Afghanistan e l’avanzata talebana per l’Unione Europea

L’Afghanistan come specchio sul futuro. Paure e dubbi in Europa

, di Davide Emanuele Iannace

L'Afghanistan come specchio sul futuro. Paure e dubbi in Europa
Foto: Marine assegnati al 24th Unità di Spedizione dei Marine (MEU) aspettano il volo alla base aerea di Al Udeied, in Qatar, Agosto 2017. I marine sono ad oggi di supporto al Dipartimento di Stato per il ritiro ordinato del persone dall’Afghanistan. Foto di cortesia del Corpo dei Marine degli USA, fotografo 1° Tenete Mark Andries.

La caduta di Kabul pochi giorni fa, dopo un’avanzata di meno di dieci giorni da parte delle forze talebane, è diventata non solo centrale nei social media di mezzo mondo, ma soprattutto nelle agende politiche di gran parte delle potenze mondiali. La notizia che l’Afghanistan nasconderebbe un vero e proprio tesoro di terre rare e materiali essenziali per il futuro della transizione green, ha portato al centro dell’attenzione globale non solo quella è di fatto la nascita di un nuovo emirato il cui futuro appare opaco, ma anche la rilevanza strategica del paese centro asiatico.

L’Afghanistan si è ritrovato spesso all’essere il centro dell’attenzione di diverse potenze e non a caso si è guadagnato il nomignolo di “Cimitero degli Imperi”. Quello a cui assistiamo oggi sembra l’ennesimo revival del Grande Gioco che già nel XIX secolo impero zarista e impero britannico giocavano placidamente con le nazioni del centro-Asia, dall’India fino al Caucaso. [1]

Ma come hanno reagito l’Unione Europea e i suoi stati membri dinanzi la caduta di Kabul e la presa di potere dei talebani? Già i primi commenti durante le fasi di ritiro delle forze NATO-USA dal paese avevano messo bene in luce come i partner europei non fossero totalmente concordi con le idee di Biden e del suo staff – di fatto già tracciate dalla passata presidenza Trump.

This does fundamental damage to the political and moral credibility of the West” è stato uno dei commenti espressi da Norbert Röttgen, presidente della commissione affari esteri del parlamento federale tedesco. Anche dall’Inghilterra, storico alleato USA che pure ha cappeggiato la coalizione in Afghanistan fin dai primi giorni di guerra, si sono levate voci contrarie al ritiro immediato, come nel caso di Tom Tugedhat, conservatore.

Le voci di dissenso contro la ritirata americana sono diventare voci di accettazione, quasi, della scelta compiuta oramai alla fine del percorso che ha visto lentamente la presenza americana fuoriuscire dal paese asiatico e che ha realizzato poi le fotografie e i video oramai circolanti su tutti i social. Se da un lato Borrell ha definito la frettolosa fuga come un vero disastro, se l’UE condanna la presa al potere dei talebani in funzione totalmente sovversiva, allo stesso tempo lascia dello spazio aperto per una sottospecie di dialogo, come espresso dal ministro degli esteri tedesco Maas che parla di “those who are now executing power in Afghanistan will be judged by their action.”.

La verità è che, al di là della situazione politica afghana in sé per sé, quello che in Europa sembra preoccupare tanto le istituzioni comunitarie che gli esponenti politici dei singoli stati membri, sia l’effetto a breve-medio termine della conquista di Kabul, ovvero un esodo incontrollato di migliaia e più di afghani in fuga dal nuovo governo islamista. Non solo quegli afghani e le rispettive famiglie che nel corso del tempo hanno supportato tanto il governo internazionalmente riconosciuto e le forze straniere presenti nel paese, ma anche tutte quelle persone che, per un motivo o per l’altro, rischiano di ritrovarsi nel libro nero dei talebani e della loro leadership. Giornalisti e attivisti, in primo luogo, hanno cominciato la fuga dal paese, tra i tanti che sentono la propria vita a rischio a causa del repentino cambio di regime.

I paesi europei sembrano particolarmente preoccupati dalla possibilità che questa nuova ondata di profughi si riversi, alla lunga, proprio nel Mediterraneo e nella rotta balcanica, andando a trovare sponda in Europa e offrendo ai soliti partiti più conservatori ed estremisti nuovi capi espiatori per i problemi che, cronicamente, affliggono le nazioni europee, esasperati dalla situazione pandemica e dalle sue conseguenze.

Pare evidente che il panico, sempre di più, si stia diffondendo tanto tra la classe politica tedesca – all’alba delle elezioni che vedranno per la prima volta Angela Merkel non gareggiare per il cancellierato -, che tra quelle di nazioni come la Grecia e l’Austria. La paura di molti, a sinistra e al centro dello spettro politico soprattutto, è di ripetere quel 2015 che tanto vantaggio donò ai populisti. La crisi migratoria che, in quell’anno e nel seguente, provocò non solo numerosi morti nel Mar Mediterraneo, ma divenne fulcro delle campagne politiche di forze che, come nel caso della tedesca AfD, dell’italiana Lega o della francese Front National, trovano forza nell’espellere altrove i propri problemi, di solito puntando il dito proprio ai diseredati e agli esuli di paesi che, come messo in luce da molti esperti, si ritrovano in quella condizione dopo anche la presenza europea. Ironico poi trovare affermazioni come quella del presidente francese Macron, che parla di una robusta risposta europea, di cooperazione con i paesi di transito come la Turchia e il Pakistan – proprio quella Turchia che ha fatto dei migranti una vera arma politica.

Gli stessi esperti che, concordano, nell’affermare che il 2015 non è ripetibile, non in questo caso almeno. Eppure, l’Europa ha ceduto rapidamente al panico, al punto da potersi tranquillamente concedere delle affermazioni come quelle di Maas, di rompere il fronte comune, pur di trovare elementi politicamente spendibili riguardo il contenimento dei flussi migratori.

Al di là delle conseguenze geopolitiche della caduta di Kabul in mano talebana, di cui si potrà e dovrà discutere negli anni venturi – e che, comunque, vista la storia afghana, non è proprio scontata la vittoria a lungo termine -, le prime avvisaglie di effetti disastrosi sono in Europa, dove solo i primi voli di rimpatrio sono arrivati. Sono conseguenze tutte di tipo politico e che ci dicono qualcosa della tenuta del tessuto sociopolitico e democratico non tanto afghano, quanto proprio nazionale ed europeo. Risposte e paure come quelle espresse dai paesi europei, permettono rapidamente di comprendere come, innanzitutto, una politica migratoria comune sia quantomeno indispensabile. Perché l’Afghanistan di oggi saranno i paesi colpiti dalle crisi ecologiche di domani, e i flussi migratori non si fermeranno. Questo è qualcosa che tanto i leader che le popolazioni europee dovranno comprendere. Le migrazioni sono un fenomeno storico, sociale ed economico a cui non è possibile mettere una barriera, sperando che si fermino prima o poi. Affrontarle in maniera comune è quantomeno un palliativo, prima di doverne combattere le cause principali, ma un palliativo necessario in questo momento storico.

L’Afghanistan si offre come un campo di prova, su questo, per una robusta e più completa politica comune sia estera che migratoria da parte degli stati membri, che saranno tutti – chi più, chi meno – coinvolti nel flusso migratorio in entrata. Flusso che non sarà enorme, dal punto di vista numerico, ma che mai come questa volta ci vede coinvolti.

Oltre che la politica migratoria, anche la politica estera europea sarà messa alla prova dall’Afghanistan nei mesi e forse anni a venire. Non solo perché l’Emirato oramai esiste, per quanto breve o lungo sarà, ma anche perché sarà un naturale teatro di scontro tra gli interessi di paesi come la Cina, l’India, l’Iran, il Pakistan stesso, la Turchia. Le risorse afghane potrebbero risultare essenziali per la conversione dei sistemi energetici in chiave green, e con la solita ironia del mondo, limitare i danni di quel riscaldamento climatico che tanti, troppi profughi provoca.

Ad ora, l’UE non è stata all’altezza, né nel difendere i diritti che la popolazione afghana aveva conquistato né nel reagire con coerenza e compattezza dinanzi le prese di posizioni americane. Difficile affermare cosa sarebbe successo se ci fossero state altre condizioni politiche nel Vecchio Mondo, ma l’UE si è dimostrata comunque ostaggio di quanto gli Stati Uniti avevano già preventivato e deciso per conto proprio, secondo il proprio schema di cose. Per quanto un partner essenziale, l’UE deve trovare una sua dimensione autonoma nel mondo di oggi, per non arrivare impreparata a quella del domani. L’Afghanistan potrebbe essere uno dei tanti campi di prova per instaurare un nuovo cambio di marcia alle relazioni estere dei ventisette stati membri, forse sotto una bandiera comune, insieme a un rinnovato impegno per delle politiche migratorie che vedano tutti coinvolti.

Rimangono seri problemi interni, come le aspirazioni spesso nazionaliste di alcuni dei membri dell’UE e il panico, scatenato e poco lecito, che troppo spesso coinvolge proprio i migranti e i profughi di paesi meno fortunati. Di strada ce n’è ancora da fare, ma sembra essere il momento giusto per una accelerata.

Note

[1Per saperne di più sulle diverse nazioni che hanno provato a conquistare e dominare l’Afghanistan, si raccomanda questo articolo del “The Diplomat” del 2017 a firma di Akhilesh Pillalamarri

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