Ancora una volta, il M5S punta il dito contro il CFA, la valuta che rappresenta la Comunità Finanziaria Africana, inneggiando allo scandalo neo-colonialista francese, denunciando come l’immigrazione massiccia dall’Africa in Europa abbia motivazioni economico-monetarie, e chiedendo con forza la sovranità monetaria nazionale per i paesi africani come principale fattore di riscatto del continente. Mettiamo un po’ d’ordine.
Il CFA nasce nel secondo dopoguerra come moneta imposta dalla Francia alle sue colonie in Africa. Dopo la stagione dell’indipendenza, vengono create due valute: il franco della Comunità Finanziaria dell’Africa Occidentale e il franco della Cooperazione Finanziaria dell’Africa Centrale; tecnicamente diverse, ognuna con una propria Banca Centrale (che le emette), ma tenute in parità fra loro e con un rapporto di cambio fisso con il franco francese. Dal 1999, al franco francese si è sostituito l’euro (il Tesoro francese, che detiene la maggior parte delle riserve dell’area, assicura la convertibilità). Di fatto, quindi, la politica monetaria di questi paesi, è guidata dalla Banca Centrale Europea; ma i paesi aderenti possono liberamente uscire in qualsiasi momento, anche unilateralmente, dall’accordo di cambio.
Naturalmente, il fatto che il cambio sia legato all’euro, è un problema per le esportazioni da questi paesi dell’Africa. Se la moneta fosse nazionale e liberamente scambiata sul mercato, vi sarebbe una svalutazione rilevante che, dato il grado di sottosviluppo di questi paesi, potrebbe contribuire a rilanciarne la crescita. D’altra parte, la stabilità della moneta garantisce un’inflazione bassa, la formazione di risparmi e l’attrazione di capitali dall’estero, con investimenti che difficilmente verrebbero effettuati in presenza di forti incertezze sul valore relativo della valuta. Come al solito, e come vale per tutti i paesi, rinunciare alla sovranità monetaria ha dei costi, e naturalmente dei benefici. Attenzione però che l’efficacia della sovranità monetaria è positivamente correlata con la forza politico-militare e/o economica di un paese (più sei grande, autosufficiente, maggiore forza diplomatica possiedi e più una valuta propria può portare benefici). Le economie di questi paesi sono però estremamente fragili, sia dal punto di vista reale (spesso legate alla produzione ed esportazione di pochi prodotti, quindi sottoposte agli umori di singoli mercati) sia finanziario (la capacità di accedere ai mercati finanziari mondiali); recuperare la sovranità significherebbe presumibilmente cadere semplicemente sotto l’ala d’influenza di una diversa potenza economico-militare.
Per quanto possa non piacerci che la Francia continui di fatto ad esercitare un potere neocoloniale sulle sue ex-colonie, l’alternativa ad oggi sarebbe quella di darle in pasto al neocolonialismo delle multinazionali americane o al colonialismo cinese. L’ultimo punto: il legame con l’immigrazione. È facilmente osservabile come l’immigrazione dall’Africa in Europa provenga da paesi ben diversi rispetto a quelli facenti parte del CFA; quindi i due problemi non sono fra loro correlati. Chi insiste nel correlarli, Di Maio e Di Battista, può farlo per due motivi: il primo è fare campagna elettorale contro Macron, agevolando la formazione di una compagine non solo nazionale in vista delle elezioni europee che non li veda marginalizzati (gilet gialli); il secondo, più inquietante, è che stiano facendo (più o meno consapevolmente) il gioco di qualche altra potenza continentale, che mira a sostituirsi alla Francia/Europa come attore (neocoloniale o di partnership) in Africa.
Ancora una volta, il problema del sottosviluppo economico e democratico dell’Africa non interessa davvero a nessuno, se non in maniera strumentale. Negli ultimi anni, l’Unione ha cercato di affrontare la questione, ad esempio con la proposta della Commissione di un grande accordo tra UE e mercato unico africano in costruzione, oltre che con i due strumenti europei sull’Africa (il Piano europeo per gli investimenti esterni, con dentro il Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile che nel 2017 ha pianificato di mobilitare 44 miliardi di investimenti, e il Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa, approvato a luglio 2018 con 90 miliardi per la gestione delle frontiere e la protezione dei migranti).
Più in generale, è urgente riprendere l’idea di lanciare un Piano Marshall europeo di cooperazione allo sviluppo per l’Africa (ma la Cina è già più avanti di noi, e con intenti ben più aggressivi). Una strategia di questo tipo implica naturalmente l’esistenza di un’Unione Europea coesa, con una direzione collettiva di politica estera, capace di agire (senza affidarsi ai compromessi del voto all’unanimità, che privilegiano la difesa, presunta, degli interessi nazionali) e di mobilitare risorse massicce.
Tutti elementi che ancora oggi mancano all’Europa. Ma invece che cercare di frammentarne l’unità strategica collettiva, sarebbe utile contribuire a favorire e migliorare le iniziative che la portano nella giusta direzione.
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