Il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America - e in lizza per diventare il quarantasettesimo - Donald Trump è stato vittima di un attentato mentre stava tenendo un comizio elettorale a Butler, in Pennsylvania. Un uomo, pare un ventenne di nome Thomas Matthew Crooks, iscritto proprio al Partito Repubblicano guidato da Trump, ha sparato un colpo di fucile da un’area sopraelevata, ferendo The Donald all’orecchio destro. Per pochi centimetri, Trump è sfuggito alla morte, mentre l’attentatore è stato eliminato dagli agenti di sicurezza.
Che gli Stati Uniti abbiano un problema con le armi è risaputo: queste sono liberamente acquistabili da qualsiasi cittadino maggiorenne, e quindi facilmente accessibili anche ai minori presenti nelle loro cerchie familiari. Conseguenza è che nella “Land of Free” gli attentati siano particolarmente frequenti, ma di rivolti a un Presidente non se ne vedevano dal 1981, quando vi si salvò Ronald Reagan.
Per quanto il tema del piombo oltreoceano sia ineccepibilmente preoccupante, ce n’è un altro su cui vale la pena compiere un ragionamento: la crescente tendenza a mischiare la politica alla violenza, anche nei Paesi democratici.
Solo due anni fa, l’8 luglio 2022, veniva ucciso a colpi d’arma da fuoco il Presidente giapponese Shinzō Abe, mentre stava partecipando a un comizio elettorale nella città di Nara. Il 15 maggio 2024, è stato il turno del Presidente slovacco Robert Fico, ferito da quattro proiettili al petto durante una visita presso la città di Handlová, e scampato alla morte per miracolo. L’altro ieri, Donald Trump si è unito al ben poco invidiabile club.
Tre casi, nel giro di pochissimo tempo, in tre Paesi che hanno adottato la democrazia liberale come sistema e che dovrebbero quindi essere baluardi contro la violenza, specialmente in politica. Tuttavia, il movente comune di questi attentati sembra essere proprio politico, e politico interno, più vicino alle dinamiche di gruppi come il Nucleo Armato Rivoluzionario e le Brigate Rosse piuttosto che a organizzazioni come Al-Qaeda o i Lupi Grigi.
Il paragone può apparire esagerato, d’altronde, le indagini non hanno portato a scovare alcun gruppo dietro gli esecutori materiali degli attentati, ma il nesso risiede nello scopo dell’azione. Non siamo davanti a gesti di squilibrati narcisistici volti a conquistare l’attenzione della Jodie Foster di turno. Al contrario, sono azioni di individui convinti di poter creare disordine e ridisegnare le sorti della propria comunità o del proprio Paese. E se il bombardamento mediatico ha forse fatto finire gli attentati ad Abe e Fico nell’oblio della nostra memoria, difficilmente abbiamo dimenticato l’assalto a Capitol Hill del 2021 e quello al Congresso nazionale brasiliano del 2023.
Quegli eventi, più di tutti, hanno dimostrato come la democrazia non possa essere data per scontata. In entrambe le occasioni infatti, avallando tesi complottiste, una minoranza della popolazione insoddisfatta dagli esiti del voto ha provato a fare ciò che avevano in testa gli attentatori: imporre la propria visione politica con la forza.
Di chi è la colpa? Puntare il dito contro i supportati da quelle masse, rispettivamente Donald Trump e Jair Bolsonaro, e arrivare quindi a dire che Trump sia causa del suo stesso male rappresentato nell’attentato subito, sarebbe facile e senz’altro pressapochista. La verità va ben oltre.
La politica oggi coinvolge anche coloro che per anni l’hanno vissuta solo in modo passivo, interessandosene a malapena, forse solo per proteggere sé stessi e i propri interessi. Non esiste giornale che non la metta in prima pagina, spesso faziosamente, essendosi questi trovati costretti a competere in un mercato sempre più ampio, dove se non si offre un’informazione di altissimo livello si è costretti a sacrificare l’obiettività per il profitto. Questo aspetto, unito al moralmente scorretto uso della rete e dei social, ha intensificato il conflitto tra parti politiche.
La politica è diventata competizione, anziché dialogo costruttivo alla ricerca delle migliori soluzioni. Non si vede più tanto opera di scambio e di convincimento, quanto parti “che godono” e parti “che rosicano”.
Con ciò non si intende dire che i personaggi politici siano esenti da colpe, anzi. Avrebbero potuto essere i primi a impedire questo clima, invece ci hanno sguazzato, alla ricerca di un facile consenso.
La democrazia è stata introdotta per mitigare il malcontento popolare che - abbiamo imparato a scuola nei libri di storia - sfociava spesso in rivoluzioni, più volte violente che pacifiche. Doveva essere il modello definitivo, oggi pare un limite facilmente valicabile per tornare al punto di partenza. Gli episodi di violenza che vediamo sempre più spesso rendono tutt’altro che assurdo pensare di essere circondati da persone convinte che la legge giusta sia quella del più forte.
Forse non è il caso di preoccuparsi eccessivamente, ma è certamente il caso di riflettere. Gli eventi recenti ci devono spingere a riconsiderare la tenuta delle nostre democrazie e a rivalutare il ruolo che noi stessi, come cittadini, e i nostri leader politici, come rappresentanti e guide, svolgiamo nella società. È essenziale che ognuno si impegni a promuovere una cultura del dialogo e del rispetto reciproco, contrastando la diffusione di odio e violenza che sembra minacciare le fondamenta stesse dei nostri sistemi democratici.
La risposta a questa situazione non può essere una maggiore repressione o una limitazione delle libertà civili. Bisogna rafforzare le Istituzioni democratiche, garantire una giustizia equa e accessibile e promuovere un’informazione libera e responsabile. I media e i social network devono fare la loro parte, offrendo notizie accurate e bilanciate e scoraggiando la diffusione di fake news e retoriche incendiarie.
Inoltre, è fondamentale educare, ognuno al massimo delle proprie capacità, ai valori democratici, insegnando l’importanza del confronto civile e della partecipazione politica informata.
Solo così sarà mantenuta viva la speranza di costruire una società in cui le divergenze di opinione siano viste come una risorsa, piuttosto che come una minaccia da reprimere bruscamente.
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