L’Europa e la Difesa. Una necessità impellente.

, di Davide Emanuele Iannace

L'Europa e la Difesa. Una necessità impellente.

Le notizie in arrivo dal Medio Oriente sono all’ordine del giorno, una tendenzialmente più negativa dell’altra. L’offensiva ad Idlib da parte di Damasco e i rinnovati attacchi verbali, ma non solo, di Erdoğan riguardo il nord della Siria; Israele e la Palestina che rivedono la tensione risalire dopo l’annuncio del famigerato piano del secolo da parte di Donald Trump; l’Iraq in preda alle rivolte e proteste, non l’unico ma forse il più eclatante tra i tanti, diviso dalla lotta per l’egemonia regionale di Iran e Stati Uniti; ancora la Libia, dove nonostante la conferenza di pace attualmente attiva in Svizzera, gli scontri continuano tra le forze del governo riconosciuto dall’ONU e il LNA.

Tutto questo avviene all’interno dell’area che, comunemente, viene definitiva come Middle East – North Africa, o MENA, la regione che comprende un buon cinquanta percento delle coste del Mar Mediterraneo e che, per motivi che sono culturali, economici e geografici, strettamente connessa con l’Europa e l’Unione Europea. Non si può pensare all’Unione Europea senza guardare con sguardo critico e attento anche alla regione MENA. Non è semplicemente fattibile. I flussi migratori, parzialmente, partono o passano per questa regione. Gas e petrolio fondamentali per la tenuta del tessuto economico-sociale europeo sono presenti nel bacino mediterraneo e in quest’area geografica, dove compagnie energetiche europee quali Total o ENI hanno chiari interessi. La lista dei motivi è ancora lunga, e passa dal semplice turismo di vicinanza fino alla condivisione delle aree di pesca. In tutto ciò, l’Unione Europea si è per ora comportata come un’idra, le cui teste sono incapaci però di cooperare per ottenere un obiettivo unico. Ogni testa, invece, ha provato ad azzannare l’altra, spingendo questo gigantesco corpo da una parte all’altra, senza di fatto riuscire a muoverlo, a malapena arrivando lì dove il collo riesce a portarsi. Il dossier libico, così come quelli cipriota e siriano, rappresentano proprio questa tendenza. Se da un lato l’Unione, tramite i suoi commissari agli affari esteri e sottosegretari, suggerisce una certa linea diplomatica, probabilmente (o almeno si spera) concordata nella Commissione o nel Parlamento Europeo; dall’altro ritroviamo nazioni come la Germania, la Francia o (limitatamente, negli ultimi tempi) l’Italia muoversi su tutt’altri binari. Ogni nazione conduce la propria agenda, spesso in aperta contrapposizione con coloro con cui si siede a tavola in Europa, e spesso in contrapposizione proprio con le parole precedentemente espresse da quell’alto commissario. La questione Ḥaftar-al-Sarrāj è particolarmente emblematica. La Francia non ha nascosto di supportare Ḥaftar, il generalissimo libico. Lo ha rifornito e assistito, tassello della politica africana di Macron e soci. Allo stesso tempo sia l’Unione che le Nazioni Unite hanno ampiamente supportato al contrario il governo di al-Sarrāj. Ironico che la Francia, paese fondatore dell’UE e membro del Consiglio di Sicurezza come membro permanente, abbia seguito tutta un’altra strada. Questo genere di divisione degli indirizzi di azione dei paesi membri e degli organismi internazionali di cui fanno parte rende i secondi quasi del tutto impotenti, ostaggi delle volontà nazional-popolari. L’ONU ha subito a lungo questo processo di delegittimazione, incapace di agire in alcune crisi perché paesi membri del Consiglio Permanente hanno posto il veto sugli interventi più proattivi e non meramente formali. L’UE rischia, seriamente, di ritrovarsi in politica estera ad un livello simile di attività, a causa degli interessi egoistici di alcune parti, incapaci di mantenere una linea politica concordata con gli altri paesi membri e di perseguire uno scopo che non sia meramente di matrice nazionalistica.

Abbiamo già espresso in precedenza come di per sé questo agire su base nazionale sia incapace di porci in grado di affrontare molte sfide del futuro e di portarci su un piano anche solo competitivo con potenze regionali come Turchia e Russia, capaci tramite l’uso di strumenti quali i migranti ospitati ed il gas di avere un elevato di influenza sulla politica europea e sui suoi cittadini. Le singole nazioni del Vecchio Mondo sono vulnerabili, indebolite da processi storici che hanno visto il traffico di capitali e risorse spostarsi sempre più verso hub diversi da quelli del Novecento e dell’Ottocento. La singola nazione europea, questo è un concetto che non possiamo smettere di mettere in risalto, non riesce ad avere né influenza né capacità d’azione. Nessuna nazione europea da sola svilupperà mai un caccia di sesta generazione. La fusione nucleare non sarà ottenuta dagli sforzi solitari di un Belgio o di una Francia. Non riusciremo ad affrontare i flussi migratori nel Mediterraneo e nei Balcani da soli, chiudendoci a riccio. L’Unione Europea è, di per sé, qualcosa che possiamo considerare come un esperimento politico, sociale, ed economico. Nonostante tragga “ispirazione” da organizzazioni e stati, federali e non, già esistenti, di per sé è qualcosa di nuovo. Come ogni esperimento, lo si può dichiarare fallito e abbandonarlo, o spingere ancora un po’ più avanti, affrontandone i rischi e le difficoltà che correntemente sta affrontando. Oggi ci ritroviamo certamente in una fase di crisi, per l’Unione e le sue strutture ma, guardando fuori dal cortile, per l’intero pianeta. Il Medio Oriente, in particolare, è ritornato al centro delle scene, insieme a tutte le sue sfaccettature, le sue problematiche e le sue sfide verso il futuro. Sfide che vedono certamente coinvolti per primi i suoi abitanti ma che di riflesso hanno un peso, in un mondo globalizzato e in perenne rete, anche su ciò che confina con esso. L’Europa è uno di quei confini. Se invertiamo per un momento la prospettiva, non siamo noi il centro, ma il Medio Oriente (nonostante in questo caso sia ironico definirlo come Medio Oriente, perché nel nome ripete comunque il centrismo dell’Europa). Siamo noi, europei, con le nostre compagnie, che entriamo nella regione alla ricerca di risorse e opportunità, e così ci siamo comportati per le paste decadi. Per quanto non siamo l’unica causa, siamo responsabili in parte di ciò che accade oggi in questa parte di mondo. Le conseguenze di queste azioni sono i semi dei problemi del presente, che ciò piaccia o meno. Non è possibile pensare di evitare di affrontarli, in particolare se, nel momento della nostra cecità, entità statuali come la Russia, la Cina o gli USA ne approfitteranno per fare quello che ogni organismo nella Terra fa: approfittarne per appropriarsi di risorse, aumentare il proprio potere e combattere indirettamente i propri avversari. Per quanto disprezzabile, questo è ciò che le nazioni tentano di fare dall’alba dei tempi, da prima di Roma e Cartagine, da prima di Ur e Uruk.

In un mondo di risorse limitate la competizione è, all’attuale stato delle cose e della forma delle relazioni internazionali, il discriminante tra chi vive e prospera e chi, invece, non lo fa. Non una visione particolarmente illuminante e positiva, né che vuole negare la presenza di forme di collaborazione non tese alla creazione di nuove forme di dominazione. Si sono fatti giganteschi passi dal passato e sicuramente, in futuro, potremo fare ancora di meglio. Potremo davvero arrivare ad un momento in cui la collaborazione sarà tesa solo al fine di collaborare, non per imporre o in qualche modo modificare a proprio favore l’assetto politico o economico o socioculturale di certe aree del mondo. Questo, si spera, avverrà. L’Unione Europea è di per sé un passo nella giusta direzione, come lo è stato anche a suo tempo l’ONU, come lo sono l’Unione Africana e tutti questi tipi di nuovi organismi. Nonostante si possa sperare, non bisogna dimenticare il più banale realismo. La regione Medio Orientale ci interessa direttamente, come abbiamo già detto, ed è necessario che l’Europa agisca in e verso di essa non solo in maniera compatta, ma soprattutto con una strategia a medio-lungo termine. Dobbiamo ricalcare in particolar modo questo medio-lungo termine perché, specialmente negli ultimi dieci-quindici anni, la maggior parte degli attori locali e non è intervenuta in Medio Oriente con chiare strategie di sopravvivenza o a breve termine. Le Primavere Arabe, nelle loro due principali ondate, hanno modificato chiaramente lo scenario del mondo arabo, senza però che fosse possibile, anche causa interventi di stati esterni, gettare delle solide fondamenta per qualcosa di nuovo. Il 2020 si è aperto con atti dagli effetti e dalle conseguenze giganteschi come il guerreggiare turco-siriano intorno Idlib, l’omicidio di Suleimani e il “Deal of the Century” dichiarato da Trump. Niente, di tutto questo, ha visto l’Unione impiegare il suo peso politico, che c’è, che esiste, e che deve far sentire, per reagire a queste operazioni. Il “Deal of the Century” promette solo di peggiorare una già precaria situazione, eppure l’Unione non è stata capace con forza di reagire né tanto meno promuovere un processo diverso, proponendosi come attore nuovo sulla complicata scacchiera israeliana-palestinese, appoggiandosi a quelle forze moderate che pur esistono ma che non trovano, nel mondo, nessun chiaro alleato. La questione non è diversa per la Libia, o Cipro, dove le aggressive azioni di Erdoğan stanno mettendo a rischio i giacimenti e le zone di perforazione assegnate a Total e ENI, giganti dell’energia non francese e italiano, ma europei. Se non per puro spirito di migliorare il mondo, quanto meno per puro spirito di conservazione sarebbe necessario reagire alle provocazioni turche in maniera più proattiva e non sperando in un naturale evolversi della situazione a proprio favore. È vero che i governi europei tremano, costantemente, al rumoreggiare di Erdoğan e dei numerosi rifugiati attualmente ospitati all’interno dei confini turchi, disumanamente usati come merce di scambio ora con il Vecchio Mondo, ora con la Russia e la Siria. Il problema dei rifugiati appare decisamente meno problematico se ad affrontarlo non sono però le singole nazioni, come la Grecia o l’Italia, ma piuttosto la totalità degli stati membri.

Di fronte a queste vere e proprie emergenze e crisi umanitarie, considerando che organi come le Nazioni Unite sono per loro stessa natura bloccate dal poter liberamente agire a causa della presenza di stati come la Russia e gli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza, l’unica organizzazione capace di assicurare che il Medio Oriente non esploda definitivamente, è l’Unione Europea, che ha tutte le ragioni, sopra descritte, perché la situazioni possa de-scalare. Tutto rimane però un pugno di parole nell’aere, se non supportato da un’Unione realmente capace di imporre la sua visione e la sua azione all’interno del panorama mediorientale. L’unico modo con cui ciò è possibile è che l’Unione si fornisca degli strumenti di azione e di deterrenza necessari affinché alle sue parole possa seguire l’azione, una forza armata europea rispondente esclusivamente all’Unione, non agli stati membri. Questo vuol dire non solo formare un budget della Difesa unico, ma anche creare una struttura militare che risponda all’unico organo potenzialmente rappresentativo della volontà dei cittadini europei, ovvero il Parlamento Europeo. Lo strumento di un esercito unito non può infatti diventare, a sua volta, l’ennesima possibilità delle singole nazioni di approfittare dell’Unione Europea per favorire i propri egoistici interessi. È necessario, però, perché la sua sola esistenza di fatto porterebbe la politica europea dalle banali e semplici intenzioni alla realtà fattuale. Allo stesso tempo, la sua dipendenza da un organo europeo e non semplicemente multinazionale, lo slegherebbe dalle catene del sovranismo e del nazionalismo, proiettando sempre di più l’Unione verso un formato di tipo federale e non semplicemente quasi-confederale.

Non per forza, allo stesso tempo, non si può anche indicare come possibile mandato di una forza armata europea quello di essere garante del mantenimento di quel livello minimo di diritti umani che il XXI secolo sembra star lasciando alle spalle. Non parliamo ovviamente di un’azione all’americana in Afghanistan e Iraq, no. Parliamo della capacità dell’Unione Europea di intervenire attivamente in conflitti come quello siriano o yemenita affinché non siano sempre e solo i civili, soprattutto i più deboli, le donne e i bambini, a pagare delle pessime scelte politiche e di azione, internazionali e non. Potrebbe questo voler dire dover vendere meno armi, scegliendo con maggior cura i propri clienti? Si. Vuol dire perdere dei soldi? Ancora una volta, si. Però forse questo è uno dei punti centrali del problema. Non possiamo continuare a pensare, all’alba di questi anni Venti, esattamente come abbiamo pensato per gli scorsi secoli, come abbiamo indirizzato l’azione privata e pubblica. Sappiamo perfettamente dove il vecchio paradigma conduce, e questo mondo nuovo che si sta delineando (un mondo problematico, ipertecnologico ed iper-connesso) richiede un cambio di paradigma che si deve riflettere anche sul modo di fare politica. L’Unione Europea, proprio per la sua natura sperimentale, può essere base di un nuovo paradigma, in particolare perché spezza i vincoli del vecchio stato nazionale e crea un super-organismo politico che può, laddove da una parte vi siano deficienze, colmare grazie alla compresenza di sistemi connessi ed interrelati, potenziali che si è potuta costruire solo grazie alla cooperazione dei diversi paesi membri. Certamente, e non smetteremo mai di dirlo, l’Unione Europea è ancora un progetto incompleto, problematico, a volte incapace di prendere delle decisioni. Certamente non è però stallando che si potrà cambiare questo stato di cose. Il mondo, inesorabilmente, continua il suo corso e sta a noi, come cittadini europei, spingere affinché l’UE si mantenga al passo e si evolva per non finire, come gli organismi biologici incapaci di adattarsi, direttamente in un libro di storia. L’esercito europeo presenta delle ovvie problematiche, che vanno dal budget, alla sua gestione, alla sua catena gerarchica, fino alle decisioni politiche sul suo utilizzo, o anche a quali pistole d’ordinanza adattare. Tutto ciò però non vuol dire che non sia possibile, esattamente come è stato fatto con l’euro, sperimentare delle soluzioni che permettano di dare una spinta ulteriore alla difesa europea, intesa non come insieme di tante difese, ma come un unico sistema, capace di spronare ulteriormente la spinta federale che già adesso esiste. Una forza armata europea, dinanzi le difficili sfide dei prossimi anni, potrebbe essere lo strumento migliore a disposizione per realizzare una seria politica estera che sia di beneficio a tutti i paesi membri, non solo esclusivamente di questo o quella potenza regionale in declino. Una seria politica della difesa unitaria non potrà che avere risvolti positivi sulla governance generale dell’unione, uniformandone le azioni estere e permettendo anche una migliore gestione delle politiche energetiche ed economiche, direttamente legate alla capacità dell’UE di far valere nelle sede competenti i suoi interessi.

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