Venerdì 18 novembre si è conclusa la Cop27, la conferenza sul clima che ha riunito i più potenti leader globali nella città di Sharm el-Sheikh per due lunghe settimane, un giorno in più del previsto, senza però fruttare particolari cambiamenti.
Non sono stati fatti passi avanti rispetto alla Cop26. Nessuna decisione particolarmente importante da far tirare un sospiro di sollievo.
Serviva uno stop alle emissioni di gas serra e un allontanamento definitivo dai combustibili fossili, per riuscire a contenere l’aumento delle temperature al di sotto di 1,5°C, ma nulla è stato concretizzato. L’importanza della transizione ecologica verso le energie rinnovabili, da sempre sottolineata con tanto ardore, resta un progetto campato in aria, visto che nulla è stato scritto o imposto.
“Un’altra occasione sprecata”, è così che si potrebbe descrivere questa conferenza, ed è questo che si sente ripetere dalla chiusura dei lavori. Solo negli ultimi istanti dell’assemblea si è deciso di aprire un fondo, il “Loss&Damage” che ha come obiettivo quello di ripagare i danni ambientali causati dai paesi industrializzati, come gli Stati Uniti e l’Unione europea, ai Paesi che sono meno responsabili del riscaldamento globale, ma che ne pagano le conseguenze più amare.
La prima volta che si sentì parlare di un fondo per risarcire i danni causati dai cambiamenti climatici era il 1991, a proporlo furono le Isole Vanuatu, nell’Oceano Pacifico meridionale, ad oggi in stato di emergenza climatica. Per cominciare a parlare dell’effettivo fondo “Loss&Damage” bisognerà aspettare la Cop13 (2007), dopo la quale inizierà un lungo lavoro di perfezionamento che durerà fino alla Cop27 di quest’anno.
Insomma, il fondo risulta essere più una toppa che un avanzamento verso una nuova rotta, lontana dall’autostrada verso l’inferno climatico citata dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.
Ci si aspettava di più, questo è ovvio. La presenza del neopresidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, promotore di una nuova politica improntata sulla tutela dell’ambiente, faceva ben sperare. Le sue parole si sono fatte strada fra i suoi ammiratori presenti alla conferenza, come un eco di buon auspicio “Non esiste un pianeta sicuro senza un’Amazzonia protetta”.
Il Presidente brasiliano ha affermato di voler fare retromarcia rispetto a quella che era stata la politica del Presidente uscente Bolsonaro. Una speranza, visto i livelli disastrosi di deforestazione che si erano raggiunti.
Tutti i Paesi dovrebbero proteggere le proprie riserve naturali, ma per farlo servono soldi e più i disastri ambientali aumentano, e più è difficile raccogliere il necessario.
Purtroppo, i soldi restano il vero e proprio ostacolo da superare, e le spese da sostenere aumentano anno dopo anno.
Si dovrebbe pensare prima al benessere del pianeta e successivamente a tutte le altre problematiche che ogni Paese deve affrontare. Può sembrare scontato, ma senza la terra su cui camminiamo tutto il resto non esisterebbe.
Nonostante la crisi palpabile, i Capi di Stato e di Governo europei sembrano ancora in dubbio sul da farsi. Bisogna agire e smetterla di nascondere la testa sotto la sabbia, se non per il bene del pianeta e per quello delle future generazioni almeno per l’economia, che subirebbe gravissimi danni a causa dei disastri ambientali.
Se si andrà avanti in queste condizioni ancora a lungo, diventeranno inutili tutti i provvedimenti che si sarebbero potuti prendere e che invece sono passati sottogamba.
La crisi climatica e l’economia italiana, cosa ci riserva il futuro?
Una ricerca contenente 17 studi scientifici, commissionata dalla Banca d’Italia, dal nome “Gli effetti del cambiamento climatico sull’economia italiana”, ha messo in luce come sui due settori più esposti alla crisi climatica gli effetti possano essere negativi. Sono l’agricoltura e il turismo che potrebbero vacillare di fronte ad eventi atmosferici ogni giorno più violenti.
Le nevicate, sulle aree montane, diventeranno sempre meno frequenti e meno intense, mettendo a rischio le località turistiche ed i luoghi di attrazione più ambiti. Si prospetta che l’aumento delle temperature possa superare i 2,5 punti percentuali nel 2100, causando una diminuzione della neve caduta in inverno dal 30 al 45%.
Effetti simili si vedono anche sull’agricoltura, dove forti piogge e periodi di siccità rovinano i raccolti, attaccando gli agricoltori più vulnerabili che, nella maggior parte dei casi, non hanno un’assicurazione contro le calamità naturali.
Fino al 2100 si dovrà fronteggiare un aumento delle temperature costante che, secondo uno scenario studiato dagli economisti della Banca d’Italia, porterà il Prodotto Interno Lordo pro capite a scendere dal 3 al 9%.
Il riscaldamento globale intacca molte altre sfere dell’economia, anche settori apparentemente meno vulnerabili come l’industria e i servizi. Le aziende più fragili sono quelle situate in zone soggette ad eventi di tipo idrogeologico, ad esempio le imprese delle Marche e ad Ischia, che anni dopo l’evento hanno una probabilità di fallire molto più alta rispetto ad altre aziende presenti sul territorio italiano.
Un altro studio condotto dall’Università della California e dall’Istituto Europeo di Economia e Ambiente in Italia, riguardo i costi ed i benefici della politica sulla crisi climatica, pubblicato sulla rivista Environmental Research Letters, afferma come gli shock termici influenzino le economie dei Paesi analizzati per almeno dieci anni e la loro crescita economica del 22%.
Quanto costa curare l’ambiente?
Tornare indietro ai tempi dell’era preindustriale è impossibile, l’impatto che le azioni dell’umanità hanno avuto sul pianeta sono talmente radicate che non si può eliminarle del tutto.
Certo, si potrebbe guardare avanti e investire massicciamente su modi di produrre più sostenibili, ma in termini economici, un cambio di rotta così risolutivo, quanto verrebbe a costare?
Le misure primarie di decarbonizzazione, secondo il rapporto Net Zero by 2050 dell’International Energy Agency (IEA), prevedono una spesa globale di 5 mila miliardi all’anno entro il 2030, ed una perdita di 5 milioni di posti di lavoro concentrati nel settore minerario, che verrebbero ridistribuiti nel settore delle energie rinnovabili, oltre all’incremento delle posizioni disponibili che salirebbero a 14 milioni.
Per quanto riguarda l’Unione europea, secondo le stime della Banca centrale europea (BCE) serviranno investimenti di almeno 330 miliardi di euro l’anno per raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050.
Ma quanto ci costa non fare nulla?
Secondo un’analisi dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA), dal 1980 al 2019 in Europa sono stati persi circa 446 miliardi di euro, prima fra tutti la Germania con 107 miliardi, mentre l’Italia ne ha persi 72 miliardi.
In Italia dal 2013 al 2019 sono stati spesi 2,1 miliardi di euro per gli interventi di messa in sicurezza dei territori, un decimo di quelli versati per rimediare ai danni causati dai disastri ambientali.
Restare immobili non è più un’opzione, oltre alle ingenti perdite economiche, dobbiamo fronteggiare miliardi di vite perse per colpa delle calamità naturali sempre più frequenti e disastrose.
Per citare un’altra frase del Segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres, si potrebbe dire che “Il pianeta è ancora in rianimazione”, anche se, la rianimazione lascia intendere che si cerchi di salvarlo, invece noi, lo stiamo ancora torturando.
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