La difesa comune tra modello americano e progetto europeo

, di Michele Ballerin

La difesa comune tra modello americano e progetto europeo

L’articolo di Domenico Moro pubblicato da “Eurobull” qualche giorno fa in risposta al mio sul tema della difesa comune europea richiede qualche puntualizzazione. La mia impressione è che le argomentazioni addotte dall’autore siano deboli. In effetti, non una delle obiezioni che avevo sollevato nel mio precedente articolo ne esce confutata.

L’emendamento alla Costituzione americana al quale Moro fa riferimento, e che risale al 1789 (immediatamente dopo la ratifica del testo costituzionale, dunque in un periodo che potremmo definire di aggiustamento), non confuta la mia affermazione secondo cui, nei due secoli successivi, l’impianto della costituzione uscita dalla Convenzione di Filadelfia è rimasto immutato per quanto concerne l’attribuzione delle competenze nel campo della difesa.

Questo emendamento - il secondo - è l’unico che abbia toccato la materia, e non si vede come possa essere considerato decisivo. La Costituzione del 1787 stabilisce infatti in maniera incontrovertibile il pieno ed esclusivo controllo del Congresso e del governo federale, in caso di necessità, sulle forze armate, siano esse costituite dall’esercito federale o dalle milizie nazionali. Il secondo emendamento inserisce un’unica novità: l’espressa autorizzazione a possedere armi da parte di ogni privato cittadino, ma non introduce certo ex novo il concetto di milizie nazionali, che la prima versione della Costituzione già prevede. Il punto è che la stessa Costituzione chiarisce immediatamente - e, come ho detto, senza equivoci - che anche le milizie fanno capo all’autorità centrale. Nessun “cambiamento sostanziale”, dunque, e nessun ulteriore trasferimento di competenze tra gli stati e la federazione.

Come avevo scritto nel mio precedente articolo, nessuno dei successivi emendamenti (in tutto sono 27) si occuperà neppure da lontano di dirimere ulteriormente la questione. Sarebbe ridondante ripetere qui i passaggi che ho già citato nel mio precedente articolo: essi sono chiarissimi, ed escludono che un qualsiasi stato dell’Unione potesse già all’epoca disporre delle proprie milizie come di un esercito autonomo con cui difendersi da aggressioni esterne o muovere guerra a potenze straniere.

L’unico passo della Costituzione in cui è contemplata la possibilità di un’iniziativa autonoma da parte delle milizie nazionali è quello - da me citato - nel quale si stabilisce che “nessuno Stato potrà, senza il consenso del Congresso, (...) tenere truppe o navi da guerra in tempo di pace, formare accordi o unioni con un altro Stato o Potenza straniera o impegnarsi in una guerra, salvo un’effettiva invasione o un pericolo così imminente da non consentire alcun ritardo” (Art. 1, Sez. 10; mio il corsivo). Ma questo risponde a una logica così limpida da rendere superfluo ogni commento: sarebbe strano immaginare che, nel caso di un’aggressione improvvisa - poniamo - alla California da parte di una potenza straniera (un fatto che abbiamo visto succedere solo nel divertente film di Spielberg 1941 - Allarme a Hollywood), la Guardia nazionale californiana si lasci sparare contro senza reagire nell’attesa di ricevere ordini da Washington.

Quando lo studioso australiano Kenneth Wheare (evocato da Moro) scrive, a proposito delle milizie, che “they are needed to maintain internal order and to defend the state against external aggression, whether from other states, from general government or from foreign countries. In the United States the constitution provided for these needs”, non può che riferirsi all’articolo che ho citato, dal momento che è l’unico a parlarne in tutta la Costituzione federale. Il saggio di Wheare, Federal Government, scritto inizialmente nel 1946 e basato sullo studio comparato delle principali federazioni e sull’evoluzione delle loro forme di governo nel tempo, è un classico del pensiero politico che ogni federalista tiene debitamente sul proprio comodino. Moro si richiama alla sua autorità per tutto il corso del suo argomentare: ma c’è da scommettere che gli americani regolino la loro condotta sul testo della Costituzione, sulla legislazione che ne discende e sulle sentenze della Corte Suprema più che sull’interpretazione che ne danno Wheare, Moro o chiunque altro.

Le due eccezioni a cui Moro si riferisce nel suo articolo (il caso verificatosi durante la guerra con l’Inghilterra del 1812 e quello che diede origine cinquant’anni dopo alla Guerra di Secessione) mi hanno lasciato particolarmente perplesso, in quanto si trattò, in entrambi i casi, di palesi violazioni della Costituzione federale: non vedo perciò come possano essere considerati indicativi del sistema vigente. Come riporta lo stesso Moro, nel primo caso gli stati che erano contrari al conflitto con l’Inghilterra “si rifiutarono di rispondere alla mobilitazione presidenziale delle milizie statali”. Questo non significa che si avvalsero della Costituzione, ma che rifiutarono di rispettarne il primo articolo, là dove afferma che “il Congresso avrà il potere di (...) provvedere a convocare la Milizia per l’esecuzione delle leggi dell’Unione, per reprimere insurrezioni e respingere invasioni”.

Anche la successiva citazione dal saggio di Wheare, relativa alla politica estera, non sembra attinente. Nel passo a cui Moro si riferisce qui, Wheare mette in luce alcune difficoltà e possibili conflitti di attribuzione che possono verificarsi tra potere centrale e poteri statali, e che negli Stati Uniti, di norma, vengono risolti con una votazione del Senato o con una sentenza della Corte Suprema. In particolare, Wheare porta a esempio il caso in cui il governo federale stipuli un trattato internazionale, salvo poi dover constatare che le norme sottoscritte entrano in conflitto con l’ordinamento giuridico di alcuni stati federati sulla stessa materia (ad esempio i diritti dei lavoratori), di competenza statale. È in effetti un esempio significativo di come la complessità di un ordinamento federale presenti i propri inconvenienti - forse per il fatto che nulla, sotto la luna, partecipa della perfezione.

Con le parole di Wheare: “Supponendo che tali trattati riguardino materie che, in base alla costituzione della federazione, sono attribuite alla competenza esclusiva degli Stati o delle province, ciò non significa un’invadenza del governo centrale, tramite il suo potere di stipulare trattati, nel campo proprio delle assemblee regionali?”. (Mi sento di garantire al lettore che il senso resterebbe lo stesso anche se la citazione fosse in inglese).

Ma è tutto qui: sarebbe una forzatura incomprensibile dedurne che un qualsiasi stato federato possa entrare in competizione con il governo federale in materia di politica estera e di difesa, nel senso di poter assumere un’iniziativa contraria alle decisioni di Washington. Perché “nessuno Stato potrà partecipare a trattati, alleanze o patti confederali” (Art. 1, Sez. 10): “il Congresso avrà il potere (…) di dichiarare guerra” (Art. 1, Sez. 8) e “il Presidente sarà Comandante in capo dell’Esercito e della Marina degli Stati Uniti, e della Milizia dei diversi Stati quando chiamata al servizio attivo degli Stati Uniti” (Art. 2, Sez. 2).

In realtà, è indispensabile ribadire che proprio la politica estera costituisce uno degli aspetti cruciali per cui è inconcepibile che - venendo al caso europeo - si possa ipotizzare un “dualismo”, o un qualsiasi gradualismo, nell’attribuzione della competenza politica sulla difesa: il dato tecnico di un esercito europeo, quand’anche divenisse realtà, non implicherebbe ancora l’esistenza di una effettiva difesa comune, se mancasse una comune politica estera per decidere come servirsene. Non insisto, ma rimando anche per questo al mio articolo precedente. L’altro aspetto è quello del controllo democratico: a quale governo e a quale parlamento risponderebbe questo esercito? Ma anche qui non vorrei ripetermi.

Il punto è che un avanzamento dell’integrazione europea nel settore della politica estera e di difesa è sostanzialmente impossibile senza modificare i Trattati. E non è solo un problema di decisioni prese all’unanimità o a maggioranza: il problema è che i Trattati (e mi riferisco ancora a un passaggio citato da Moro nel suo articolo) riconoscono all’UE competenza in materia - la famigerata “PESC” - solo nel senso che il controllo politico di un eventuale esercito comune spetterebbe ai suoi organi intergovernativi, ossia il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri, con la Commissione in subordine e il Parlamento semplicemente esautorato. Si è federalisti perché si vuol essere autenticamente democratici: e quello che ne verrebbe fuori sarebbe, nell’ipotesi, tutto tranne che una forma di governo democratico. Al contrario, si otterrebbe l’effetto di accentuare all’estremo il carattere tecnocratico che affligge l’Unione, con il suo assetto prevalentemente intergovernativo e il suo deficit - già conclamato - di accountability. Altra benzina sul fuoco dell’antieuropeismo dilagante, com’è facile immaginare e come sarebbe, del resto, in qualche misura perfino giustificato.

Come dicevo, pur stimando Moro come studioso trovo le sue argomentazioni, in questo caso, poco fondate e poco convincenti. In particolare non è chiaro come esattamente l’Unione europea potrebbe impiantare un sistema di difesa “duale”, se non andando a costituire - dal nulla e non certo per gradi - a fianco delle già esistenti forze armate nazionali una forza armata europea con lo stesso ruolo sovraordinato che la Costituzione americana assegna all’esercito federale, cioè stabilendo chiaramente l’esclusiva competenza di un governo democratico europeo sull’impiego effettivo di tutte le forze armate, federali e nazionali, fatta salva la loro “coabitazione” in tempo di pace.

Al tempo stesso concordo con l’invito ad approfondire il dibattito sul tema della difesa comune europea, magari estendendolo oltre la cerchia dei federalisti. Non è questione di accendere diatribe bizantine tra esperti, ma di impostare nel modo più corretto quello che dovrà essere il cuore stesso di ogni serio progetto di integrazione politica sul nostro continente. L’evolvere del contesto europeo e soprattutto mondiale parla in proposito un linguaggio chiarissimo. Solo in apparenza si tratta di una “scelta”: la necessità di una capacità autonoma di difesa dell’Unione si pone con urgenza crescente, insieme a quella di una sua presenza più attiva sullo scacchiere internazionale, e gli europei non potranno eludere il problema ancora a lungo.

Fonte immagine: Wikimedia.

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