Nei 248 anni di storia dello stato federale, solo il democratico Grover Cleveland è stato eletto presidente per due mandati non consecutivi (nel 1885 e nel 1893), elemento che rende questa occorrenza più unica che rara. A rafforzare la storicità del momento vi sono poi altre constatazioni: Trump sarà il primo Presidente degli Stati Uniti ad entrare in carica dopo aver ricevuto condanne penali [2], nonché il più anziano di sempre, essendo di pochi mesi più maturo al momento dell’elezione (78 anni e 5 mesi) rispetto a quanto non fosse Joe Biden (78 anni appena compiuti) nel 2020.
Quattro anni di intervallo, trascorsi dall’ex conduttore di The Apprentice come de facto leader dell’opposizione, hanno portato da un lato l’analisi politica sull’operato della prima presidenza Trump ad un discreto livello di consapevolezza, dall’altro hanno portato lo stesso Trump su posizioni molto più spinte e decise: “Tutto lascia presagire che la seconda amministrazione Trump sarà più coesa, omogenea e radicale di quella del 2017, quando le élite internazionaliste repubblicane cercarono di mettere sotto tutela il Presidente eletto, per contenerne le intemperanze e limitarne l’estremismo.” [3]. Da allora il tycoon ha messo sotto scacco gli avversari politici interni, preso il controllo del partito e, in tempi recenti, stretto alleanze personali e strategiche con Elon Musk, Robert F. Kennedy (destinati a ricoprire importanti ruoli ministeriali) e altri importanti attori dell’élite economica statunitense, di cui lui stesso è un eccellente rappresentante.
Moltissimi sono i dossier scottanti che Trump si troverà ad affrontare fin dal primo giorno alla Casa Bianca, sia relativi alla politica interna che alla politica estera (tavoli che negli USA sono sempre estremamente correlati). Lo stesso The Donald lo ha continuamente sottolineato, attaccando la leadership democratica per le sue politiche troppo prudenti e proponendo con grande chiarezza una linea politica decisa, elemento che ha indubbiamente avuto un impatto non di poco conto nella sua vittoria su Kamala Harris, che si è dimostrata incapace di controbattere con ricette altrettanto chiare e dirette da proporre ad un elettorato sempre meno avvezzo a considerare i problemi con l’approccio multifattoriale, complesso e, secondo molti, lontano dalla realtà dell’uomo comune adottato dai democratici, con il quale su vari temi hanno dato l’idea di aver perso la bussola.
Una delle promesse martellantemente ripetute da Trump durante la campagna elettorale è stata quella di porre fine a “tutte le guerre” in tempi brevi.
Per quanto riguarda l’invasione russa dell’Ucraina (che, sin dal 2022, afferma non sarebbe mai scoppiata con lui presidente), Trump ha delineato con una certa decisione l’intenzione di interrompere i generosi quanto fondamentali aiuti economici e militari a Kiev da parte degli Stati Uniti e di procedere rapidamente ad intavolare trattative di pace con un Vladimir Putin che si dice “pronto a parlare” [4] e un Volodymyr Zelens’kyj che non si trova ad avere molte opzioni. Il governo italiano, così come quello della maggior parte dei paesi dell’Unione Europea e della NATO, sta affermando in questi giorni di voler continuare a supportare l’Ucraina a prescindere dalle decisioni di Donald Trump, ma se da un lato le dichiarazioni d’intenti avranno bisogno di essere messe alla prova dei fatti una volta che il tycoon si sarà reinsediato alla Casa Bianca, dall’altro lato bisogna tenere in considerazione come gli aiuti finora stanziati dagli USA (valutabili in circa $60mld dal 2022 ad oggi [5]) rappresentano ben più della metà dell’intero supporto internazionale ricevuto da Kiev, proporzione che diventa ancora più alta per quanto riguarda le forniture di munizioni e sistemi d’arma.
Per perseverare nel suo sforzo difensivo, l’Ucraina, a corto di munizioni e uomini dinanzi ad un avversario che ha quattro volte la sua popolazione e un PIL otto volte superiore (per voler semplificare la questione), dipende da un aiuto internazionale che, senza gli USA, dovrebbe vedere un salto enorme di qualità da parte dei paesi dell’UE e degli altri alleati (come Australia e Sud Corea), ma che, anche in presenza della massima coesione e volontà politica, al momento verrebbe comunque minato dall’insufficienza della capacità industrial-militare per far fronte alle necessità imposte dal conflitto armato più intenso mai combattuto da 80 anni a questa parte, cui la Russia riesce a far fronte essendo detentrice di una delle più vaste industrie belliche e arsenali del mondo (N.B. ben lungi dall’essere la più tecnologicamente avanzata), eredità dell’era sovietica sapientemente preservata, alla quale si sono aggiunti gli sforzi sistematici di altri due grandi arsenali come Iran e Nord Corea. Basti pensare che nel mese di ottobre 2024 si stima che circa il 60% delle munizioni d’artiglieria impiegate dall’esercito russo fossero di origine nordcoreana.
Dinanzi alla prospettiva di una possibile vittoria trumpiana alle elezioni, da vari mesi le parti avverse hanno messo in campo tutte le risorse disponibili per giungere alla nuova presidenza USA nella migliore posizione negoziale possibile. È in quest’ottica che va letta l’occupazione di una parte dell’oblast’ di Kursk da parte delle Armed Forces of Ukraine (AFU) in agosto: il Capo di Stato Maggiore Syrs’kyj, dinanzi alla evidente difficoltà di riconquistare il terreno occupato nel sud e nell’est del paese, ha optato per un’azione clamorosa laddove le difese erano ben più leggere con l’obiettivo di avere in mano una carta da scambiare sul tavolo dei negoziati. Dal canto loro le forze russe hanno controbattuto lanciandosi in una continua quanto dispendiosa offensiva per occupare quanto più terreno possibile con un timer fissato sul 20 gennaio 2025. Lo stesso Joe Biden si sta muovendo nella stessa direzione, sforzandosi di inviare quanto più supporto economico e militare possibile prima della fine del suo mandato [6] per consentire all’Ucraina di guadagnare tempo e perdere meno territorio possibile.
Sulla base dello scenario che si è venuto a delineare è realistico immaginare che, una volta insediatosi il 47esimo Presidente degli Stati Uniti e tagliati gli aiuti, nel giro di non più di qualche mese l’Ucraina non potrebbe fare altro che accettare un immediato armistizio prima che il suo esercito collassi, privo di rimpiazzi e munizioni che solo l’industria USA riesce a produrre ad un adeguato ritmo. Conscio di questa realtà, è ben probabile che il presidente Zelens’kyj si sieda ben prima di allora ad un complesso tavolo negoziale orchestrato da Donald Trump che non avrà né rapida né semplice soluzione, motivo per il quale è essenziale che l’Ucraina abbia le risorse di cui sopra per continuare a resistere per il tempo necessario. Al centro delle trattative vi saranno principalmente due punti:
- Il riconoscimento ufficiale delle conquiste territoriali (che non cambierà in nessun modo i confini effettivi, che saranno quelli della linea del fronte): la richiesta russa che l’Ucraina, e con lei la comunità internazionale, riconosca i territori delle cinque province occupate come russi, rinunciandovi definitivamente;
- Il ruolo dell’Ucraina nel panorama internazionale: la Russia pretende che la ridimensionata Ucraina postbellica sia costituzionalmente costretta alla neutralità, dunque, impossibilitata ad approfondire relazioni con qualunque alleanza internazionale, e, al pari della Germania postbellica, demilitarizzata e con forti limitazioni imposte alle sue forze armate.
Entrambe le questioni sono estremamente complesse, e strettamente dipendenti dalla forza militare che i due contendenti mantengono schierata sul campo, motivo per il quale la promessa trumpiana di un rapido armistizio sembra francamente di difficile realizzazione a meno che l’amministrazione Trump non si faccia apertamente portatrice di promesse, garanzie e/o pressioni da porre come precondizioni, che, paradossalmente, renderebbero gli USA ancora più coinvolti nel conflitto di quanto non siano adesso. L’Ucraina non avrebbe comunque interesse a deporre le armi da un giorno all’altro se ancora dotata della forza militare, e dunque negoziale, per ottenere condizioni di pace migliori della resa totale. Per un immediato armistizio, sarebbero necessarie quantomeno garanzie da parte di NATO e UE relativamente alla sua integrità territoriale e alle prospettive di ingresso nelle due organizzazioni che, però, potrebbero rappresentare un deal breaker per la Russia, proprio intenzionata ad evitare tali prospettive. Questi elementi, a loro volta, passerebbero inevitabilmente dalla rinuncia, da parte del governo di Kiev, a qualunque rivendicazione sui territori occupati dalle forze russe, in quanto tanto la NATO quanto l’Unione Europea non possono realisticamente accettare la prospettiva di una candidatura di un paese con una contesa territoriale in corso (elemento che rappresenta, ad esempio, un grande ostacolo anche per la Moldavia).
Il peso dell’Unione Europea risulterà elevato nelle negoziazioni, in quanto, a prescindere dalle sue divisioni interne (vedasi gli atteggiamenti di Slovacchia e Ungheria), la postura definitiva e gli impegni che la nuova Commissione assumerà sul dossier Ucraina sarà determinante. Trump non sembra in interessato a ottenere risultati geopolitici particolari che vadano al di là della cessazione delle ostilità, e potrebbe negoziare con la Commissione che auspicabilmente verrà a formarsi in queste settimane in modo totalmente strumentale sulla base della situazione, aprendo un tavolo ben più ampio relativo alle relazioni USA – UE.
Vladimir Putin, dal canto suo, sembra in ogni caso instradato verso un risultato che potrà passare per una vittoria e, soprattutto, per una legittimazione del suo operato in Ucraina. Sono diversi, però, i corsi d’azione e gli scenari con cui questo potrà avvenire. Da un lato, di fronte alla continuazione della resistenza ucraina e, dunque, alla prospettiva di dover affrontare ancora alti costi politici, economici e militari, è da ritenersi possa essere propenso a concedere circa la prospettata neutralità ucraina in cambio del riconoscimento territoriale. Questi due elementi potrebbero in ogni caso trovare diversi gradi di ufficialità e legittimità, tanto più che, per quanto Trump possa spingere in quella direzione, un vero e proprio trattato di pace sembra improbabile nel breve periodo (tanto più che non vi è mai stata una formale dichiarazione di guerra). Da segnalare quanto sia importante, sul piano delle garanzie, la credibilità delle prospettive di cooperazione che saranno offerte, più ancora che dalla NATO, dall’Unione Europea, che è per la Russia il vero competitor politico in terra ucraina, e che senza un forte consenso verso il percorso dell’adesione di Kiev ai 27, la Russia potrebbe accettare un accordo proprio sulla base della scarsa affidabilità che un’Unione divisa presenta sul panorama internazionale.
Circa la Russia di Putin resta un ultimo punto: se da un lato l’Ucraina avrebbe tutto da perdere accettando un armistizio immediato senza le appropriate garanzie, potrebbe essere la Russia a valutare come maggiormente conveniente proseguire le ostilità piuttosto che sedersi al tavolo delle trattative, qualora le prospettive non siano rosee e contemporaneamente la difesa ucraina sembri sul punto di crollare. In uno scenario del genere ci sarebbero tutti gli estremi perché le forze armate russe continuino a pressare l’attacco fino all’ottenimento di tutti gli obiettivi politici desiderati. La valutazione costi-benefici di un’azione del genere sembrerebbe piuttosto ovvia e negativa per un osservatore occidentale, ma non risulta irrealistica se si valuta la tenuta di una oramai avviata e anche difficilmente convertibile economia di guerra [7] e il (evidentemente fallace) procedimento decisionale che portò, due anni e mezzo fa, ad iniziare la guerra stessa. La leadership cambia a Washington e a Bruxelles, ma a Mosca è sempre la stessa. Si tratta questa della prospettiva meno probabile, ma è comunque possibile, e fortemente dipendente dal tipo di rapporto che Putin instaurerà con Trump, se di collaborazione, di sudditanza o di superiorità, e dalla credibilità e dalla coesione che l’Unione Europea dimostrerà in una negoziazione nella quale sicuramente giocherà un ruolo chiave.
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