Jacopo Barbati:
L’importanza della questione linguistica in una Europa che punta a essere democratica e federale
Quest’oggi si celebra la ventunesima edizione della Giornata europea delle lingue, promossa inizialmente dal Consiglio d’Europa, col patrocinio dell’Unione Europea, al termine dell’Anno europeo delle lingue, il 2001.
Il fatto stesso che il promotore principale sia stato un ente esterno all’UE, il Consiglio d’Europa per l’appunto, potrebbe tristemente testimoniare quanto l’Unione non abbia considerato la questione del multilinguismo in Europa come centrale nello sviluppo di un percorso che possa portare a una federazione europea. Come leggeremo tra poco, l’UE ha provato sì a sviluppare delle strategie a riguardo, ma senza troppa convinzione e successo, chiara espressione che la questione non è evidentemente ritenuta centrale.
Anzi, nella pratica, le istituzioni dell’Unione si sono spesso mostrate ostili a un multilinguismo completo, approvando regolamenti e procedure che favoriscono esplicitamente parlanti di determinate lingue ufficiali dell’UE rispetto ad altre (si prenda come esempio l’Ufficio Europeo dei Brevetti, che accetta direttamente documentazione prodotta solo in inglese, francese o tedesco).
Noi di Eurobull invece, da giovani europee ed europei che sognano gli Stati Uniti d’Europa, consideriamo la questione linguistica come centrale. E reputiamo necessario che sia così per chiunque.
Per questo motivo abbiamo deciso di sottolineare la giornata di oggi non solo con il presente articolo, ma con una intera serie di articoli di approfondimento a cura di Silvia Lai, Mariasophia Falcone, Silvia Pozzoli e il sottoscritto, e pubblicati il giorno 26 di ogni mese a partire da aprile.
Abbiamo parlato ovviamente di lingue, linguistica, sociologia, sociolinguistica: perché sì, può sembrare scontato ma repetita iuvant, la linguistica e la sociologia si intrecciano perché le relazioni sociali sono fortemente influenzate dalla mutua comprensione linguistica delle parti in causa. Per questo una società che aspira a essere giusta e democratica, come quella europea, non può ignorare la questione.
Abbiamo parlato di ideologie, nazionalismo, interculturalità, politica: perché le lingue in Europa, e non solo, sono state uno strumento politico potente, più per motivi di divisione tra popoli che di unione e reciproca comprensione, a causa di mancati riconoscimenti, repressioni più o meno nette, sviluppi più o meno forzati.
E infine abbiamo parlato, e parleremo anche tra poco, di traduzioni: perché, come sosteneva Umberto Eco (e non solo), “la lingua d’Europa è la traduzione” e perché la tecnologia moderna potrebbe consentire traduzioni sempre migliori, più veloci e accessibili, a patto che lo si voglia veramente.
La creazione di uno spazio politico e sociale europeo di dibattito per i cittadini e le cittadine d’Europa è imprescindibile per poter sviluppare una cittadinanza veramente europea, che abbia gli strumenti per interessarsi, e comprendere, la cultura, l’attualità e la società di tutti i Paesi dell’Unione e non solo di quelli storicamente più influenti. L’Unione ha sofferto e sta soffrendo ancora della divisione tra la “vecchia” e la “nuova” Europa, quella occidentale e quella orientale, con quest’ultima che si percepisce, a ragione, fin troppo ignorata. E la questione linguistica è assolutamente pertinente.
Lasciare che questo spazio di dibattito si concretizzi, come sta succedendo in questi anni, alla luce di una perniciosa assenza di una strategia condivisa, non farebbe altro che aumentare le distanze e le incomprensioni tra chi padroneggia determinate lingue e chi no, ponendo oltretutto i parlanti nativi in una posizione di privilegio e superiorità che stona in una società che punta a essere pienamente democratica. È una questione di difficile risoluzione, poiché le lingue senza, o con pochissimi, parlanti nativi sono quelle morte o artificiali: latino, esperanto, etc - che storicamente non hanno ricevuto grosso consenso o entusiasmo in quelle poche volte in cui questo discorso è venuto alla luce.
Nel nostro monitoraggio delle proposte più sostenute sulla piattaforma della Conferenza sul Futuro dell’Europa, abbiamo notato che più di una tra le proposte più sostenute riguarda questo argomento. È evidentemente giunta l’ora di affrontarlo.
Mariasophia Falcone:
Per un accesso all’insegnamento di tutte le lingue ufficiali dell’UE in tutti gli Stati membri
Uno degli aspetti in cui il motto dell’Unione Europea “Uniti nella diversità” si declina in maniera più vicina ai cittadini europei è quello della diversità linguistica. Infatti, l’UE ha il compito difficile di promuovere la comprensione reciproca tra le culture attraverso il dialogo interculturale e, soprattutto, attraverso la promozione del multilinguismo, come stabilisce, inoltre, l’Art. 165 del Trattato di Lisbona, secondo il quale l’Unione Europea si impegna a «sviluppare la dimensione europea dell’istruzione, segnatamente con l’apprendimento e la diffusione delle lingue degli Stati membri» nel rispetto delle diversità linguistiche e culturali. [1]
È fondamentale, al fine di promuovere il multilinguismo, garantire un accesso all’insegnamento delle lingue (in particolare quelle ufficiali dell’Unione Europea) adeguato ed equo per i cittadini di tutti gli stati membri oltre alla promozione della mobilità. Questo aspetto delle politiche dell’Unione, che viene attuato attraverso numerosi programmi e progetti, è importante non solo perché si tratta di un elemento culturalmente rilevante per la coesione e l’unità a livello europeo, ma lo è anche da un punto da un punto di vista di garanzia di diritti, pari opportunità educative e, allo stesso tempo, in termini di competitività. A questo si aggiunge anche la questione della transizione digitale. Come evidenziato dalla Risoluzione del Parlamento Europeo del 2018 sull’uguaglianza linguistica nell’era digitale, le competenze digitali e linguistiche sono estremamente legate e assicurare una formazione adeguata su di esse è necessario per garantire “l’uguaglianza delle lingue nell’era digitale e per elaborare una strategia solida e coordinata a favore di un mercato unico digitale multilingue”. [2]
Nel 2019 il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato una raccomandazione per un approccio globale all’insegnamento delle lingue a livello nazionale attraverso il sostegno all’apprendimento delle lingue durante la scuola dell’obbligo e la promozione della formazione e della mobilità degli insegnanti a livello europeo. [3]
Uno dei passaggi più recenti e più ambiziosi è la realizzazione del cosiddetto Spazio Europeo dell’Istruzione (EEA), stabilito inizialmente come obiettivo per il 2025 dal vertice sociale di Göteborg, [4] e ripreso negli orientamenti politici della Commissione europea 2019-2024, in cui la Presidente von der Leyen si impegna a completare la sua realizzazione entro il 2025.
Uno degli elementi di novità importanti è che lo Spazio Europeo dell’Istruzione si pone di avere un approccio olistico nel campo dell’istruzione al fine di portare vantaggi a studenti, insegnanti e istituti. Allo stesso modo, l’idea stessa della creazione di uno spazio sovranazionale con la funzione di garantire le pari opportunità educative ai cittadini europei, andando oltre l’idea di un semplice coordinamento tra stati, assume un significato politico importante soprattutto alla luce del piano Next Generation EU.
Lo Spazio Europeo per l’Istruzione si articola in una serie di tappe che si svilupperanno in sei dimensioni che richiamano i valori europei: qualità, inclusione e parità di genere, transizione verde e digitale, insegnanti e formatori, istruzione superiore e dimensione geopolitica. All’interno di queste sei dimensioni si trovano alcuni obiettivi che evidenziano le due gambe strategiche del progetto: multilinguismo e internazionalizzazione. In particolare, l’agevolazione della mobilità di studenti, educatori e insegnanti, insieme con la collaborazione a livello internazionale degli istituti scolastici, la promozione dell’apprendimento delle lingue e la promozione della scoperta e della gestione della diversità culturale. Inoltre, insieme alla promozione dell’istruzione inclusiva e della mobilità sociale, spicca nella dimensione geopolitica il favorire l’internazionalizzazione di tutti i tipi e su tutti i livelli al fine di rendere l’UE più attraente per i talenti e la ricerca internazionale. Quello che si evince è che si promuove il multilinguismo (tutelando al contempo le minoranze linguistiche come previsto dalla Carta europea delle lingue regionali e minoritarie del Consiglio d’Europa - ECRML) al fine di offrire nuove opportunità ai cittadini europei e migliorando la competitività, ma anche come mezzo per le opportunità e per colmare le nuove disuguaglianze. La vera sfida dello Spazio Europeo per l’Istruzione non sarà solo quella di avere una collaborazione più stretta tra gli stati membri, ma rendere i sistemi di istruzione e formazione in Europa più inclusivi per colmare il gap delle nuove disuguaglianze, migliorando la formazione in termini di qualità e opportunità.
Con la pandemia di COVID-19, e l’implementazione più o meno disordinata della didattica a distanza, si sono acuite le disuguaglianze e ne sono comparse di nuove: dalla disponibilità di dispositivi digitali, alla connessione ad Internet adeguata, al livello di capitale culturale nelle famiglie, fino alla socializzazione, creando ostacoli strutturali all’apprendimento che, se non colmati a livello sovranazionale, mettono a rischio il futuro delle nuove generazioni in termini di partecipazione alla società e di prospettive professionali.
A tal fine, in linea con i principi su cui si basa NGEU, se l’Europa deve divenire più moderna ma anche più sostenibile, l’accesso all’insegnamento delle lingue deve essere un aspetto cruciale soprattutto per correggere le disparità sociali causate della transizione digitale e verde insieme a quelle preesistenti. Le competenze linguistiche non solo sono da considerare competenze di base necessarie, ma sono uno degli strumenti in grado di garantire quelle opportunità e diritti che devono essere garantiti a tutti i cittadini europei e, in ultimo, sono la chiave per la creazione di nuove generazioni più internazionalizzate come antidoto al ritorno del nazionalismo e al diffondersi dei sovranismi.
Silvia Pozzoli:
La traduzione come idea di contatto e condivisione dell’identità culturale europea
Alla fine della lettura degli articoli presentati precedentemente in questa rubrica, si può affermare a gran voce che la cultura, la storia, la scienza e anche la politica sono profondamente permeate dalla questione linguistica. In questa breve parte dell’articolo dedicato alla giornata europea delle lingue, si cercherà di ricreare una cartina storica dei personaggi e delle teorie che più hanno influenzato la creazione di una teoria della traduzione legata all’idea di contatto e condivisione dell’identità culturale europea. Spoiler alert: si tratta di personaggi provenienti o culturalmente attivi in diversi paesi dell’attuale Unione Europea. Questo a dimostrazione, ma soprattutto a celebrazione, di come la pratica della traduzione sia nata e sviluppata, nel solco della diversità europea e nella volontà di comprendersi, tradursi appunto, e avvicinarsi.
Ripartiamo da Babele. Come informa Jacques Derrida [5], il crollo della mitica torre veterotestamentaria segna la fine dei tentativi dell’uomo di darsi un nome e di “farsi un nome col fondare insieme una lingua universale una genealogia unica” rinunciando così ad una comprensione univoca tra gli uomini, ma anche al rigido controllo di stampo imperialista che questa avrebbe comportato. A partire da questo momento, disgregativo ma al tempo stesso anche simbolico, si è compresa l’imprescindibilità della traduzione che modula “«la vis formativa della lingua», la sua forza creativa e poetica”. [6]
Gli albori della storia occidentale della traduzione sono da ricercare nella Roma classica. Qui la traduzione serviva per comprendere i testi delle altre culture ma era anche mezzo pratico per poter comunicare con queste. Tra le figure di questo periodo che si sono dedicate alla traduzione si ricorda Ennio, Livio Andronico e Plauto, ma il primo a comprendere la vera essenza della traduzione è stato Cicerone.
Cicerone, nel suo De optimo genere oratorium, “traducendo da oratore e non da interprete” [7], ha compreso che traduzione non significa solo imitazione dei modelli greci o semplice trasposizione parola per parola. Questa importante prima presa di coscienza viene ulteriormente sviluppata dal teologo croato San Gerolamo verso la fine del VI secolo. Nella sua traduzione della bibbia dalla versione ebraica al latino, passata alla storia con il titolo di Vulgata, il Dottore della Chiesa riprende le idee del latino Cicerone ma integrandole: non solo smentisce l’efficacia di una traduzione “parola per parola” ma individua anche la funzione del “sensus” alla base del testo di partenza sul quale occorre interrogarsi per rendere la vera essenza dell’originale. Inoltre, San Gerolamo è stato il primo a comprendere il valore storico del significante, vero e proprio marcatore dell’oralità culturale dell’epoca, che permetteva attraverso l’apprendimento a memoria, di accedere al testo biblico.
La Vulgata di San Gerolamo ci fa spostare in Germania, dove questa traduzione insieme alla Septuaginta (dall’ebraico al greco) rappresenta la fonte per la traduzione tedesca della bibbia del teologo Martin Lutero. L’obiettivo prefissato era quello di rendere accessibile il testo biblico al popolo tedesco, come ribadisce anche nella Lettera del tradurre, [8] dove si sostiene l’importanza di una traduzione dinamica, che rispetti la lingua viva, in grado di ricreare il medesimo effetto generato nel lettore di partenza, nel lettore della lingua d’arrivo.
Facendo un importante salto temporale, si giunge all’età romantica. Sempre in Germania, si solidifica il concetto di Bildung, che preso nella sua accezione pedagogica è tradotto come formazione e cultura. Il rapporto con l’altro è dunque considerato necessario per la formazione di un’identità culturale, e la traduzione diventa lo strumento, effettivamente il “medium”, che permette di ritrovare sé stesso nell’altro sotto una nuova forma culturalmente arricchita. Questa concezione la si ritrova nel pensiero di Goethe. Secondo il celebre scrittore romantico, il traduttore è infatti mediatore: a lui il compito di rendere possibili i preziosi scambi tra culture diverse, così fondamentali per la costruzione dell’identità di qualsiasi individuo. Sono queste connessioni, formate da differenze e tratti comuni, le basi di quella che Goethe nominerà Weltliteratur, letteratura mondiale, concetto che già può essere ritrovato nel francese Voltaire e nell’italiano Giambattista Vico.
Si comprende subito l’importanza dell’idea del traduttore mediatore, tanto da essere rielaborata ed arricchita dai contributi di altri romantici come Schleiermacher [9], il quale concepisce la traduzione come un vero e proprio gesto ermeneutico che implica, e necessita, l’interpretazione e quindi la comprensione dell’altro. Ma preziosissimo per il nostro percorso di creazione dell’identità europea, è anche il pensiero del filosofo e linguista Wilhelm von Humboldt [10]. Secondo quest’ultimo, infatti, la lingua funziona esattamente come un prisma, dove ogni faccia riflette una diversa concezione del mondo e della realtà in generale di una data cultura.
Scavalcando il XIX secolo, si incontra il lavoro di Walter Benjamin [11] che propone una “traduzione filosofica”. In quest’ottica il compito del traduttore consiste nel far riaffiorare la parentela che esiste tra le lingue, nonostante l’assenza di corrispondenze dirette tra queste. Le lingue sono infatti legate tra loro per quello che vogliono dire e grazie alla traduzione l’originale è in grado, passando attraverso un’attenta riflessione filosofica, di sopravvivere anche in un’altra lingua.
Con un ultimo balzo temporale si arriva così agli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo in cui si inizia a riconoscere e affermare la natura, ora teorica-scientifica, ora teorico-descrittiva della pratica traduttiva, rispettivamente grazie al contributo delle teorie provenienti da oltreoceano e all’impulso dato dalla linguistica strutturalistica di Saussure. Ma c’è anche chi, rifiutando queste posizioni sostiene una traduzione poetico-antropologica ed è questo il caso del saggista e linguista francese Henri Meschonnic [12]. Per Meschonnic il vero merito della traduzione, al di là dell’essere un marcatore storico-antropologico di una data cultura, risiede nel suo essere un processo capace di far avvicinare culture diverse tra di loro e di farle interagire.
Questo fulmineo (indubbiamente insufficiente) scorcio sui contributi più salienti che hanno portato all’affermazione della pratica traduttiva come processo di identificazione culturale europea lo si vuole terminare con il pensiero della filologa Barbara Cassin [13], che vedeva la traduzione come un atto politico richiedente perciò partecipazione e pluralità. Nel dizionario des intraduisibles di Cassin, alla voce “traduction”, l’autrice ci informa del legame a livello etimologico di questa parola con il prefisso ‘’meta’’, comune al concetto di metamorfosi, rinviando perciò al contesto semantico del cambiamento e della trasformazione. Questo dimostra quindi come il processo di identificazione culturale passi inevitabilmente attraverso l’apertura all’altro e cioè alla volontà di comprendersi, di tradursi, valorizzando le nostre differenze.
In questa giornata più che mai, Ci si auspica che la storia europea continui ad essere dettata dalla volontà di comprendere e valorizzare, come si è visto ha saputo fare finora, la ricchezza che unicamente può essere data dalla pratica della traduzione, l’unico strumento che ci permette di trasformare il disastro babelico “in una pioggia di stelle per l’umanità’’.
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