La guerra in Ucraina è ufficialmente iniziata alle 4 del mattino, ora locale italiana. Per quanto fosse nel vento l’idea di un’invasione fin da gennaio, oramai in pochi pensavano sarebbe accaduta per davvero. Il riconoscimento delle Repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk sembrava per molti, soprattutto esperti, un passo che avrebbe dovuto assestare la posizione russa su ciò a cui andava mirando, ossia una testa di ponte capace di destabilizzare – senza entrare in guerra – la vicina Ucraina ed eliminare rapidamente le voci che millantavano un avvicinamento a UE e NATO.
Invece, lo zar di tutte le Russie ha nuovamente preso il mazzo di carte e giocatoci in maniera – apparentemente, ad oggi, alle prime bombe – caotica, decidendo di intraprendere una “full scale invasion” del Paese limitrofo. Al di là delle conseguenze politiche e non che seguiranno la dichiarazione di guerra, che tutto sommato era prevedibile dopo l’escalation verbale – a cui i russi già ci avevano abituato – ora, per gli europei, è arrivato nuovamente il momento di comprendere il proprio ruolo in questa storia e nell’avventura militare russa. L’UE deve decidere cosa fare di sé stessa, così come i suoi cittadini e i suoi Stati membri. Non potremo parlarne a lungo, ma ciò che sta accadendo in Ucraina è anche un campo di prova per il futuro dell’Europa, della sua stabilità, della sua capacità di badare alla sua stabilità - con mezzi tanto economici, che politici, che militari.
Non è la prima volta, dopotutto, che gli europei si ritrovano a confrontarsi col senso di accerchiamento russo e con i tentativi dell’orso a est di guadagnarsi quello che considera il suo spazio vitale di hitleriana memoria. Lo aveva fatto già con un altro conflitto, un paio di secoli fa, per citarne uno tra i tanti, in quella guerra di Crimea del 1853-56 che nei libri di storia generalisti è spesso indicata più come postilla a fine pagina, semmai per descrivere la parabola ascendente di Cavour.
La guerra di Crimea, a ben vedere, si poggia su premesse non eccessivamente diverse da quelle che osserviamo in Ucraina oggi: il fulcro del conflitto era la rivalità non con l’Impero ottomano già in caduta libera, ma con l’Impero britannico e quello austriaco; gli stretti erano percepiti come uno strumento da controllare per stabilire la sicurezza dell’impero zarista e permettere la sua espansione commerciale, per ottenere le risorse provenienti dal mondo coloniale asiatico e africano. Una scusa per invadere la Crimea fu la presenza di minoranze in lingua russa nell’area a nord del Mar Nero.
Chiunque abbia seguito i discorsi preparati ad hoc da Putin e dal suo ingente staff nel corso delle scorse settimane e più, non può non notarne delle similitudini. Una scalata lenta e costante, un build-up costante che apparentemente normalizza il non normalizzabile – la presenza così massiccia di truppe al confine non sarà mai un segnale rassicurante per nessuno, fino alla totalmente evitabile escalation militare. Ma cosa succede dopo che le bombe iniziano a volare?
Di certo, non si potrà godere del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, apparato pensato per un’epoca che oserei dire fu più civile negli intenti. Se l’idea fu sempre di pensare a come evitare lo scontro diretto tra le cinque grandi potenze dell’epoca, oggi diventa il modo in cui l’unico organo con il necessario peso politico per difendere gli interessi dei Paesi che non hanno altra voce nei libri della storia, si ritrova monco. La Cina, chiaramente, ha ben chiaro quale lato prendere della storia. Ma anche senza, la Russia gode di un seggio permanente che permette lei di bloccare ogni azione congiunta delle Nazioni Unite.
Rimane, di fatto, chi davvero è interessato all’Ucraina: gli statunitensi e gli europei. I primi non per pietà né pietismo, ma perché da potenza sfidata, si ritrovano a dover fare i conti con la Russia come rivale e, contemporaneamente, con un altro falco pronto ad affondare un po’ i coltelli nei suoi vicini: la Cina. La reazione all’Ucraina darà modo a Xi di capire come reagirebbe Washington a eventuali nuove provocazioni a Taiwan, grande cruccio del Presidente a vita cinese e, soprattutto, grande punto di orgoglio. I vicini, quali il Vietnam, il Laos, la Corea, il Giappone, hanno tutto da perdere in caso di invasione della piccola isola di ex-Formosa.
Senza buttare l’occhio così a Est, gli americani hanno quindi un ben chiaro disegno: reagire a Putin vuol dire reagire a Xi. E reagire a Xi vuol dire re-imporre la propria presenza. Presenza che però i russi hanno posto oramai a un limite finale: servono azioni, sempre più concrete, che offriranno il lato a critiche ferrate dai falchi filorussi e filocinesi, tanto in Europa che negli Stati Uniti.
Proprio sull’Europa dobbiamo ora tornare con tutti e due gli occhi, perchè, inutile dire il contrario, la guerra è di nuovo sul suolo europeo. Abbiamo avuto pace per tanti decenni e già il mito della pace perpetua si è smentito con la Jugoslavia negli anni ‘90 e i conflitti nei Balcani - anche se, di per sé, il continente non è stato scevro di conflitti. Praga e l’Ungheria negli anni dell’URSS ce lo ricordano. L’invasione di oggi riporta in Europa un vecchio tipo di conflitto però, quello della grande potenza che invade con forza una nazione minore, che considera già di fatto un suo satellite - reale o ideale.
Cosa fare? Le sanzioni sono uno strumento che funziona in maniera limitata, come mezzo di pressione da utilizzare quando la situazione è già in una fase che avanza verso l’esplosione. Nel momento in cui la situazione davvero esplode, potrebbero non bastare più.
La diplomazia ha sicuramente anche altri strumenti, da cui non escludere quello militare. L’Europa però ha sicuramente bisogno di avere una reazione che sia proporzionata a quanto Putin ha fatto, ma che sia anche efficace. Questo vuol dire limitare i danni delle quinte colonne interne, come Salvini e Meloni per dire, in Italia, tra i tanti filorussi dichiarati che si ritrovano a fare i conti ora con una storia del tutto diversa. Il principio nazionale vale anche quando sono i propri amici a violarlo?
La risposta europea non può che venire quindi da una decisione comune, e condivisa almeno dalla maggioranza. Questo vuol dire sorpassare il sistema del voto unanime in materia di esteri e difesa, considerando la presenza di Paesi come Ungheria e Polonia che potrebbero fare da stiletti nello stomaco europeo per riprendere forza dopo la batosta della decisione alla Corte di Giustizia e la decisione della Commissione di congelare i propri fondi. Putin lo sa, e dovremmo impararlo anche noi, che spesso un amico finto dentro casa può essere più letale di un nemico visibile fuori la propria porta. Non dobbiamo nemmeno cominciare a parlare del percepito rischio sul gas - molto reale - che porta Putin in posizione di vantaggio specie rispetto l’Italia.
Cosa fare? Abbandonare l’Ucraina non è una scelta, nemmeno pensabile. Vorrebbe dire abbandonare la possibilità di aiutare una Nazione, con tutti i suoi difetti e le sue imperfezioni, a quella politica imperialista di potenza che ha caratterizzato tanto i russi che noi europei fin dal XIX secolo. Vuol dire ammettere che, pur dopo ottant’anni di pace, il mondo è ancora dei violenti e dei prepotenti, degli Argenti di dantesca e caparezziana memoria.
Sì, è vero, nel mondo ci sono anche i violenti, come Putin e il suo entourage di falchetti con gli occhi sognanti una grande Russia. Eppure, questo non vuol dire cedere il passo. C’è una linea oltre cui non si può concedere di andare, oltre cui superiamo ogni limite di risoluzione e iniziamo a sacrificare vite umane sull’altare della pace. La pace dovrebbe salvaguardare le vite umane, e nel momento del suo sacrificio, decisioni difficili vanno prese. Che non vuol dire scendere in guerra - non necessariamente - ma vuol dire impegnarsi in maniera seria, a costo di conseguenze più o meno gravi.
Questo vuol dire usare anche strumenti nuovi, tra cui una difesa comune europea. La NATO offre forse il fianco a critiche e accuse varie, ma ad oggi rimane l’ombrello principale dietro cui rifugiarsi quando i missili russi iniziano a piovere. Questo non è più sufficiente, c’è bisogno di un modo nuovo di approcciarsi a un mondo pieno di problemi vecchi e anche di problemi nuovi.
L’Europa deve necessariamente armarsi, inutile pensare altro. Ha bisogno di armarsi per difendere il suo piccolo, imperfetto, tentativo di creare qualcosa di nuovo e diverso. Non ci si può più permettere di pensare che le 27 forze armate differenziate dei paesi membri siano capaci di confrontarsi con le potenze russe, cinesi, americane, ma non solo, per citarne tre tra le tante. Allo stesso modo, non è possibile confrontarsi col mondo contemporaneo senza ragionare in ottica di esteri comuni. La politica estera è un argomento serio, che va affrontato con piani a lungo termine, programmazione, studio attento dei fenomeni.
Serve un Ministero degli Esteri europei, che si coordini con un Ministero della Difesa, per rendere meno monca contro i grandi cambiamenti del mondo l’UE e i suoi Stati membri. Si, un approccio federale puro, che sarebbe dovuto giungere per vie non obbligate, tramite forse una crescita del pensiero europeo e dei suoi cittadini. Invece, ci ritroviamo a dover correre ai ripari, nuovamente. Forse un giorno smetteremo di attendere la crisi per trovare la necessaria spinta per fare il passo in avanti.
Questa attitudine di certo non richiede solo in mero input politico, ma un radicale cambio di mentalità in Europa - da vittima degli eventi e del suo passato, a fautore attivo di un futuro che si pensa migliore. Sarà un futuro problematico, sarà un fallimento, sarà un successo, conta di comprendere che il futuro che vogliamo dobbiamo anche provare a ottenerlo e questo succede solo ed esclusivamente quando ci si pone in maniera proattiva.
Un passo necessario, perché paesi come la Russia di Putin non decidono improvvisamente di fermarsi. La loro area di sicurezza cresce insieme alle proprie aspirazioni, e questo vale per la Russia come per la Cina. Può apparire lontana, ma in un mondo globalizzato e interconnesso, arrivano tutti terribilmente vicini. Pensiamo al caso serbo, di cui abbiamo parlato qui. È dietro l’angolo, specie per l’Italia, ma ha ripercussioni sul futuro a lungo termine.
Vedremo come reagirà l’establishment politico-militare e anche culturale europee. Alcune sue frange stanno ricorrendo a tutti gli scudi verbali a loro disposizione per rallentare il passo, lasciare tempo a Putin di fare il bello e cattivo tempo e reagire oramai a cose finite e fatte. Sarà da vedere se la loro spinta sarà sufficiente a rallentare o se saranno annichiliti, come i loro colleghi di un po’ di decenni fa, dal semplice peso del futuro.
Serve il passo federale, oggi più che mai, per reagire a un mondo che sta diventando sempre più instabile e sempre più insicuro. Sta diventando una questione di sopravvivenza, non di realizzabili utopie. L’Unione Europea non può continuare a vivere come tassello, pedone, sulla scacchiera mondiale di altri grandi potenze. Lo può fare solo slegandosi dal cordone ombelicale della NATO - non in maniera magicamente immediata, ma affrontando seriamente la sua transizione verso un nuovo modo di approcciare la sua forza militare.
Contemporaneamente, lo può fare solo ed esclusivamente smettendo con un costante appeasement delle altri potenze. Il mondo è anche conflittuale, e conflitto vuol dire far valere la propria voce. Vuol dire farlo in maniera costante, vuol dire farsi udire - con strumenti di ogni genere - e, soprattutto, vuol dire facendo politica a lungo termine, intervenendo come unitaria voce sui problemi e sulle cause che li provocano, in maniera razionale, tenendo a mente che si, dire di no alla Cina ha un costo e bisogna esserne pronti a pagarne il prezzo; che dire di no alla Russia ha un altro costo e bisogna esserne pronti a pagare il prezzo e che, contemporaneamente, lo stesso vale quando si parla agli Stati Uniti.
Ogni attore ha una sua strategia, l’UE sembra non averla. Non averne una vuol dire muoversi in maniera cieca in una nebulosa densa di pericoli e di minacce che dovranno essere affrontate, e non lo si può fare passivamente, continuando a pensare che il conflitto sia sempre. A volte bisogna battere i piedi per terra per farsi sentire ed è solo auspicabile che a farlo non siano le singole nazioni europee, ma una federazione unita di Stati membri.
Dove seguire le news sull’Ucraina
Per seguire in tempo reale gli aggiornamenti sulla situazione in Ucraina, si raccomanda di seguire delle fonti accertabili e sicure come Al-Jazeera, il Guardian e il gruppo indipendente Bellingcat, giornalisti independenti con un occhio sempre critico.
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