Il multilinguismo è annoverato tra i principi fondanti dell’Ue, come sancito nella relativa Carta dei diritti fondamentali. Il Regolamento n.1 del 1958 stabilisce 24 lingue ufficiali e di lavoro, numero cresciuto negli anni di pari passo con l’allargamento dell’Unione. Tale registro linguistico implica che gli atti giuridici debbano essere tradotti in tutte le versioni, e che le riunioni del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Ue garantiscano l’interpretazione simultanea in ogni lingua. Insomma, una promessa di uguaglianza linguistica e rappresentanza che, almeno sulla carta, non ammette eccezioni. Ma è davvero così?
A uno sguardo più attento sembrerebbe che il principio di uguaglianza linguistica conviva con la realtà di gerarchie consolidate. Se da un lato viene rivendicata la necessità di garantire a ogni cittadino il diritto di consultare le leggi nella propria lingua, dall’altro la macchina istituzionale continua a funzionare quasi sempre in inglese, francese e tedesco. L’inglese, peraltro, ha paradossalmente consolidato il suo status di lingua franca dopo la Brexit. Nonostante il Regno Unito non sia infatti più parte integrante dell’Ue, la lingua inglese ne è rimasta all’ interno, in quanto una delle lingue ufficiali di Irlanda e Malta.
Ancora più lampante è l’assenza in Ue di lingue considerate minoritarie nonostante siano parlate da milioni di cittadini. É ad esempio il caso della particolare situazione linguistica della Spagna. Infatti, sulla base della giovane costituzione del 1978, catalano, basco e galiziano godono dello stesso valore legale del castigliano in quanto lingue co-ufficiali. La questione, in questo caso, cessa di essere solo linguistica ma diventa anche politica. Le tre lingue insieme contano più di 10 milioni di parlanti; eppure, nessuna delle tre gode di status di ufficialità nell’Ue. A tal riguardo, l’Unione si dichiara disposta alla tutela delle minoranze linguistiche e alla preservazione delle lingue considerate in via d’estinzione. Difatti, il 7 febbraio 2018 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che richiama gli Stati membri al rispetto dei diritti delle minoranze linguistiche. Tra le raccomandazioni, il diritto di utilizzare le lingue minoritarie, la tutela della diversità linguistica e un’attenzione particolare ai territori in cui convivono più lingue ufficiali. Tra le parole e i fatti, però, c’è spesso una distanza sostanziale. Proprio in merito al caso della Spagna, qualcosa si è mosso nel 2023, anno in cui il primo ministro Pedro Sánchez riuscì a formare un governo di minoranza grazie all’appoggio dei governatori separatisti catalani. Come parte dell’accordo di investitura, l’attuale premier spagnolo promise di rendere il catalano, così come il basco e il galiziano, lingue ufficiali dell’Ue tramite una modifica del sopracitato Regolamento 1/1958. Un primo tentativo venne già respinto nel settembre 2023, stesso risultato ottenuto poi a seguito di una seconda votazione avvenuta nel recente maggio 2025. Le principali perplessità avrebbero riguardato principalmente aspetti finanziari, giuridici e pratici, e ad aver sollevato riserve sarebbero stati soprattutto Germania, Croazia, Italia, Svezia, Repubblica Ceca, Finlandia e Austria.
Ad ogni modo, resta il dubbio che una delle riserve principali non riguardi meramente ragioni economiche o pratiche. La proposta di Sánchez costituirebbe di fatto un precedente importante, che agli occhi di molti paesi potrebbe alimentare spinte autonomiste e consentire un maggior distacco tra comunità regionali e autorità statali. Nonostante le raccomandazioni dell’Ue, il catalano, il basco e il galiziano, così come molte altre tra le circa sessanta lingue minoritarie o regionali presenti sul territorio, rimangono ad alto rischio e la loro preservazione resta in mano ai governi locali e alla cittadinanza. Tali lingue restano esposte al rischio di repressione, come dimostra l’effetto involontario della legge Toubon in Francia. Introdotta con l’intento di proteggere il francese dall’avanzata dell’inglese, questa normativa ha finito per ostacolare anche la diffusione delle lingue regionali, proseguendo in un certo senso la tradizione di politiche linguistiche repressive che affondano le radici nei secoli precedenti. Già con la Terza Repubblica, infatti, il francese era stato imposto come unica lingua di insegnamento nelle scuole pubbliche, e chi utilizzava idiomi locali veniva punito o umiliato. Ne è un esempio emblematico la pratica del symbole in Bretagna, che obbligava gli alunni sorpresi a parlare bretone a portare con sé un oggetto di disonore per poi passarlo al successivo trasgressore.
La lingua è un mezzo di espressione importante, e molto spesso è anche politica. Non riguarda solo la comunicazione; è potere, appartenenza e identità. E su questo terreno, nonostante le dichiarazioni di principio, l’Europa ha prodotto pochi fatti; la piena rappresentanza linguistica rimane lontana, e di fatto si trasforma in una questione marginale. Siamo lontani da un’effettiva rappresentanza a tutto tondo. La tutela linguistica non può rimanere unicamente appannaggio della cittadinanza e delle realtà locali. Occorre che le istituzioni assumano un ruolo attivo, coerente con i valori di pluralismo e inclusione che dichiarano di voler incarnare.

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